Come è inevitabile in un mondo profondamente globalizzato, la crisi ucraina sta avendo rilevanti effetti collaterali nei paesi vicini, in particolare quelli più piccoli e quindi più fragili: l’area baltica e il Caucaso. E’ stato così anche in passato e lo è a maggior ragione oggi.
François Hollande sta facendo un giro «turistico» nel Caucaso, non si sa se per propria iniziativa (uno degli stati del Caucaso, la Georgia, ha fornito truppe a sostegno dell’intervento francese in Centrafrica) o se per mandato di Angela Merkel con cui si è appena fatto una bevuta celebrativa (la Georgia ha firmato una intesa con la UE per entrare nello spazio economico europeo). Il Caucaso del sud è un’area particolarmente sensibile dell’ex impero sovietico, strategica per la presenza di Baku, grande porto dell’ Azerbaigian, ma anche come corridoio che unisce le steppe sarmatiche al cofanetto petrolifero dell’Iran.
Ai tempi Hitler scommise sulla possibilità di garantirsi il grano ucraino e il petrolio di Baku per sottomettere l’URSS e perse. Allora Baku produceva metà del petrolio sovietico, oggi il 20%.
Ma George Friedman, il guru di Stratfor, secondo alcuni portavoce indiretto del Pentagono, afferma che se è una stupidaggine proporre agli europei il gas di scisto statunitense per sopperire ad eventuali contromisure russe (la sola predisposizione delle infrastrutture necessarie richiederebbe anni), invece le risorse di gas e petrolio di Azerbaigian e Turkmenistan insieme sarebbero una valida alternativa alle forniture russe di energia all’Europa. Anzi secondo Friedmann le sanzioni sono una stupidaggine (Stratfor Borderlands: The View from Azerbaijan – 12 maggio 2014) perché “la Russia è sempre stata economicamente disfunzionale; tuttavia essa ha creato grandi imperi e sconfitto Napoleone e Hitler. Mettere in difficoltà la Russia sul piano economico è possibile, ma non renderebbe meno temibile il suo potere militare”. Quindi Friedman suggerisce di riprendere la strategia del contenimento elaborata da George Kennan nella Guerra Fredda; però questo contenimento non va affidata alla UE (l’Europa è poco più di una espressione geografica secondo lui), ma puntare sul riarmo dei paesi che circondano la Russia, come la Turchia, la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria e soprattutto l’ Azerbaijan, che è la pietra miliare di ogni possibile strategia Usa nel Caucaso. Basta quindi con le polemiche sulla violazione dei diritti umani in quel paese. Basta anche con l’ipocrisia di vendere armi all’ Azerbaijan per il tramite di Israele per non offendere i pruriti umanitari del Congresso. Per gli Usa la cosa importante è che l’ Azerbaijan può essere un alleato, fra l’altro fortemente laico. E per garantirsene la fedeltà bisogna soddisfarne le esigenze, in particolare riprendere in mano la questione del Nagorno-Karabakh.
E’ come se Friedman avesse puntato il dito su un nido di vespe. Il Caucaso del sud è oggi formato da tre staterelli (Armenia, Georgia and Azerbaijan), stati “cuscinetto”, ricchi di storia e di contraddizioni. Essi hanno riconquistato la loro indipendenza con la dissoluzione dell’Urss del 1991. Il governo russo si è sempre attivamente impegnato per ridurre il danno, prima con la creazione della fallimentare CSI, poi cercando comunque di ridurre o impedire l’influenza occidentale, in particolare militare.
Ha perso la partita negli Stati Baltici, entrati nella Nato nel 2004 e dove oggi il comando Nato ipotizza una presenza permanente di truppe da combattimento e ha aumentato il pattugliamento degli aerei di ricognizione Awacs. Nel Caucaso la Russia ha attizzato sanguinosi conflitti separatisti, utilizzando i contrasti etnici, linguistici religiosi (crf Rob Ferguson su Socialist Review aprile 2014). Questi conflitti hanno prodotto 170 mila morti e un milione di profughi in un’area che allora conteneva circa 13 milioni di abitanti. E tralasciamo qui i costi umani del conflitto ceceno.
Uno di questi conflitti ha contrapposto Azerbaijan e Armenia per il controllo del Nagorno-Karabakh.
L’Armenia, alleata della Russia, cui ha concesso basi militari fino al 2044 e prossima a entrare nell’Unione economica sponsorizzata da Mosca, negli anni ’90 , ha appoggiato fra il 1992-4 l’indipendentismo del Nagorno-Karabakh (NKR), area armenofona, che Stalin aveva assegnato all’Azerbaijan. Ogi l’NKR è un piccolo paese indipendente appoggiato militarmente (“occupato” secondo gli Usa) da truppe armene. L’Armenioa spera, sull’esempio della Crimea di poterselo annettere (Figaro 11 magio 2014).
Appoggiare le rivendicazioni armene significherebbe riaccendere il conflitto. Ma dal punto di vista statunitense questo legherebbe l’Azerbaijan agli Usa , la possibilità di cementare una alleanza azero-georgiana, creando un cuneo nel fianco sud della Russia, ma anche un caposaldo militare antiiraniano. La Georgia, ha subito nel 2008 uno smacco quando ha tentato di riprendersi l’Ossezia del Sud e la Abkhazia, ma è stata sbaragliata da un fulmineo attacco russo. La Georgia non nasconde di desiderare una integrazione con la Nato, ma gli Usa temporeggiano (Figaro 12 maggio 14); del resto hanno ritenuto di non reagire all’intervento russo del 2008.
Descritta così la situazione nel Caucaso può sembrare un interessante puzzle geopolitica, ma i risvolti sociali sono pesanti. L’Azerbaijan, che ha visto migliorare la sua situazione economica grazie alle entrate petrolifere, spende un quinto del suo bilancio statale in armi (solo fra il 2010 e il 2011 la spesa militare è aumentata del 45%) a danno ovviamente delle spese sociali; il suo regime dittatoriale è feroce. La Georgia ha il 34% della sua popolazione sotto la soglia della povertà; anche qui le spese militari la fanno da padrone.
Secondo alcuni osservatori armeni l’attuale crisi ucraina offre al loro paese “nuove possibilità”. Nuove possibilità per i lavoratori di essere schiacciati in nome degli interessi della “patria” fino alla morte in uno dei barbari conflitti cui la cività moderna ci ha abituato, nuove possibilità per i mercanti di morte di collocare i loro giocattoli mortiferi e per gli sfruttatori di ogni tipo di fare affari.