Mentre le telecamere italiane riprendevano preparativi e spettacolo di un’inutile e costosa manifestazione promozionale per artisti milionari, mentre i “sindacalisti” elevavano tardive e deboli proteste contro una legge contro il lavoro, nominata fantasiosamente Job Act, perché l’inglese fa moda non solo nelle canzoni e così nessuno capisce il significato, in altri paesi dove il gioco si fa duro i proletari sono scesi in campo, per un 1° maggio di protesta e di lotta, come è giusto che sia.
Cominciamo dalla vicina Turchia, dove almeno 138 persone sono state arrestate e 51 ferite, in gran parte dal lancio di lacrimogeni, durante l’ennesima giornata di protesta in piazza Taksim. Tutti gli accessi alla piazza erano chiusi e nelle vie circostanti non si poteva circolare in gruppi di più di due persone, dal momento che il sito è stato dichiarato zona vietata dal governo e il governatore di Istanbul aveva denunciato minacce di “gruppi terroristici”. Ha dato inizio alla sommossa l’attacco della polizia con veicoli dotati di cannoni ad acqua e gas utilizzati per disperdere i manifestanti, come si vede nella foto pubblicata su Twitter da un giornalista freelance. I manifestanti hanno reagito difendendosi dietro scudi di truciolato, lanciando bottiglie e biglie e giocando al gatto e al topo nelle viuzze che portano a piazza Taksim. Decine di migliaia di poliziotti – fino a 40 000 secondo i media turchi – sono stati mobilitati per chiudere fuori dal centro i manifestanti contro il governo antioperaio del primo ministro Erdogan, come già lo scorso anno nel corso delle manifestazioni per il vicino Gezi Park.
Nello stesso giorno ad Algeri si manifesta con le seguenti parole d’ordine, che avrebbero molto da insegnare anche al sindacalismo nostrano:
- salario minimo garantito di 40.000 dinari algerini e introduzione della scala mobile,
- riduzione significativa delle imposte, sono i ricchi che devono pagare le tasse,
- passaggio dei contratti a tempo determinato a contratti a tempo indeterminato,
- lotta al lavoro nero e sottopagato,
- servizi di qualità (istruzione, sanità) da parte dello stato,
- libertà di espressione, di organizzazione, manifestazione e di sciopero,
- costruire un sindacato indipendente e gli strumenti politici per servire la causa dei lavoratori.
L’appello alla giornata di mobilitazione e di lotta si conclude con questo appello: – Lasciamo che la voce dei veri creatori di ricchezza dei nostri paesi combatta le politiche neoliberiste che ci cacciano in condizioni di schiavitù e miseria.
Anche la Grecia, stremata da anni di crisi devastante, ha manifestato contro la disoccupazione e la crisi che pesa soltanto sulle spalle dei lavoratori.
Ad Atene, più di 8.000 persone hanno aderito a due cortei al grido di “La ricchezza è prodotta dai lavoratori e non dai capitalisti. Dipendenti comunali minacciati di licenziamento, hanno gettato copie del memorandum europeo con il piano delle misure di austerità con lo slogan: “Prendetelo e andatevene via.” La mobilitazione è stata inferiore a quella degli anni precedenti, riflettendo l’esaurimento dei Greci, strangolati dai piani di austerità.
La Spagna ha denunciato la dittatura della Troika. Le organizzazioni sindacali hanno criticato le politiche di austerità che colpiscono gli strati più deboli della popolazione.
In Libano le manifestazioni hanno visto in piazza diverse categorie.
Decine di migliaia di impiegati del settore pubblico e insegnanti di scuola, minacciando lo sciopero degli scrutini, hanno manifestato per il 1° maggio nelle strade di Beirut, chiedendo al Parlamento di approvare una legge che aumenti i salari. Il Comitato di Coordinamento dell’Unione (UCC) – una coalizione di associazioni e scuole del settore pubblico – ha proposto a scuole pubbliche e private, oltre che agli uffici governativi, di osservare una giornata di sciopero per protestare contro i bassi salari che i lavoratori percepiscono, richiedendo aumenti gli stipendi del 121% senza aumenti dell’IVA sui beni di prima necessità.
Il corteo di lavoratori si è mosso dalla Banca Centrale del Libano, sfilando vicino alla Camera del Commercio e dell’Industria fino alla piazza Riad al-Solh (nei pressi del Parlamento). La scelta di attraversare le zone più ricche della capitale libanese non è stata casuale: che siano i grandi capitali a contribuire alla proposta di aumento salariale, i fondi si possono trovare imponendo tasse alle strutture costiere e dai profitti bancari e immobiliari. Un particolare riferimento al governatore della Banca Centrale del Libano, che ha più volte ribadito che l’aumento dei salari causerà inflazione e aggraverà il deficit statale “a livelli allarmanti”.
Come sempre, secondo i rappresentanti del capitale, l’aumento delle entrate nelle tasche dei ricchi non genera problemi, ma nelle tasche dei proletari è fonte di guai!
Molti settori libanesi hanno espresso solidarietà alla proposta dell’UCC: l’associazione dei trasporti aerei ha annunciato un’interruzione dell’attività per il giorno dopo, l’aeroporto internazionale di Beirut non sarà operativo per due ore. Accanto ai lavoratori aeroportuali anche la Confederazione Generale del Lavoro (GLC) ha dichiarato che continuerà a manifestare; infine mercoledì mattina si sono uniti allo sciopero del 1° maggio anche i lavoratori della fabbrica di cementi Holcim.
Passando ad un altro paese mediterraneo, decine di migliaia di marocchini hanno anche loro manifestato per l’innalzamento dei minimi salariali, a fronte di una promessa di aumenti del solo 10% nel settore privato, che i sindacati non ritengono sufficienti chiedendo cifre maggiori.
Neppure nell’Asia delle tigri del capitalismo sono mancate le manifestazioni operaie.
Nel Bangladesh, dove c’è una forte tradizione sindacale, 1° maggio si è nuovamente tenuto alla luce della tragedia di Rana Plaza, l’edificio che conteneva 5 stabilimenti tessili in cui il 24 aprile 2013 hanno trovato la morte 1138 lavoratori e soprattutto lavoratrici, che producevano abiti per alcuni dei più noti marchi del mercato, come Benetton e Auchan; quest’ultima assieme alle italiane qui sopra si è rifiutata di partecipare al fondo di indennizzo per le vittime. A fronte di un’attività di vendita, che nel 2012 è stata di 60 miliardi di euro in depositi, Auchan e le altre, (Benetton in prima fila) dovrebbero partecipare al fondo di indennizzo di 23 milioni di euro, assieme ad altri noti marchi internazionali come Yes Zee, Manifattura Corona, Bon Marché, Premier Clothing, El Corte Inglès, Mango, Mascot, Loblaw, C & A, Inditex (Zara), Kik, LPP S.A., N Brown Group, Carrefour, Camaïeu e l’irlandese Primark, pertanto lo sforzo finanziario richiesto impallidisce ancora di più.
A distanza di un anno dal crollo dell’edificio ci sono molte persone che hanno perso i familiari, la salute, il lavoro: almeno 2.400 superstiti tra feriti, disoccupati, alcuni mutilati, impossibilitati a pagarsi cure mediche e riabilitazione che sono ancora in attesa di un risarcimento da parte delle aziende che si sono arricchite nel paese asiatico. Oltre a questo, che è stato il peggior disastro industriale del paese, permangono la mancanza di sicurezza per i lavoratori del tessile e i magri salari. Soltanto tra gennaio 2010 e giugno 2013, i lavoratori hanno subito ben 1.063 incidenti.
Le manifestazioni per il 1° maggio in Estremo Oriente sono state caratterizzate da una parola d’ordine comune: lotta contro l’inflazione galoppante, la crescente disuguaglianza sociale e l’aumento dei prezzi delle case.
I cortei hanno avuto luogo in tutto il continente asiatico: a Hong Kong, Singapore, Taiwan, Jakarta, Kuala Lumpur, Singapore, Taipei e Seoul, dove il previsto raduno di circa 5.000 persone ha avuto un tono minore a causa del lutto per il naufragio del traghetto, avvenuto poche settimane fa.
In Indonesia sono state organizzate manifestazioni in diverse città, ma la più partecipata è stata quella della capital Jakarta, dove 33.000 lavoratori hanno sfilato (secondo i dati della polizia) e si prevede un’altra manifestazione per il prossimo venerdì.
I sindacati sostengono che più di due milioni di lavoratori sarebbero scesi in piazza per chiedere migliori condizioni di lavoro nella più popolosa nazione del subcontinente asiatico.
A Hong Kong i dirigenti sindacali parlano di 5.000 che hanno sfilato dal Victoria Park in centro fino agli uffici del governo, per diverse rivendicazioni sindacali, tra cui, in primo piano, miglioramenti sull’orario di lavoro.
In Cambogia, dove è in corso un gigantesco sciopero di 20.000 tessili, la manifestazione è stata duramente repressa.
Nonostante il divieto di manifestazioni da gennaio e uno “stato di emergenza che non osa pronunciare il suo nome”, i sindacati cambogiani protestano per un raddoppio dei salari a 160 dollari e per il rilascio di 23 sindacalisti attualmente sotto processo a seguito delle manifestazioni di gennaio. Il Comune di Phnom Penh ha anche vietato marce a Liberty Park e in “qualsiasi altro luogo pubblico”, permettendo solo incontri negli uffici e nelle fabbriche.
Per paura della convergenza delle lotte politiche e sociali, la polizia ha così disperso i manifestanti con manganelli e bastoni. Ci sono stati numerosi feriti.
“I diritti dei lavoratori sono stati violati”, ha tuonato Ath Thorn , presidente della Confederazione delle industrie tessili, i cui militanti hanno sfilato a lungo intorno al parco e alla Assemblea Nazionale. Il primo ministro Hun Sen ha anche cercato di dissuadere i lavoratori con la minaccia di una fuga dal paese da parte degli investitori.
Ancora una volta un film già visto a casa nostra: lo spauracchio della fuga all’estero e della delocalizzazione viene agitata per tenere sotto minaccia i lavoratori e le lavoratrici, ma dove possono pagarli meno che nel Sudest asiatico, ci chiediamo?
Nelle metropoli capitalistiche, come il nostro paese, il 1° maggio è diventato una innocua festa, condita di spettacolo e rumore, ben lontana dal pulsare vivo delle lotte, che pure avrebbero pesanti motivi per scatenarsi, tra colpi bassi ai diritti dei lavoratori, precariato, licenziamenti e sfruttamento. La rassegnazione, favorita da decenni di svendita sindacale e illusioni parlamentaristiche (sempre in attesa di un uomo o partito della provvidenza), unita alla paura di perdere quel poco che è rimasto e che proprio così rischiamo di vederci togliere, hanno ridotto la classe all’impotenza – non tutti, perché in alcuni settori, come la logistica, o in alcune situazioni o aziende dove l’unione e la solidarietà sostengono le lotte, la classe non si è addormentata ma è ancora sveglia e combattiva.
Prendiamo esempio dalle lotte dei paesi di giovane capitalismo, dove i lavoratori di ogni categorie scendono in piazza, contro il capitale, contro la repressione poliziesca, per i diritti e contro lo sfruttamento.
Viva il primo maggio dei lavoratori!