La morte di Prospero Gallinari, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, ha scatenato una campagna mediatica tendente a criminalizzare tutta l’area della sinistra di classe, dentro una vulgata da “legge ed ordine” e da “coesione sociale” che ben conosciamo, e che viene puntualmente usata per colpire chiunque “osi” lottare contro il capitalismo.
Ne sanno qualcosa i compagni ed i lavoratori che, anche qui in Italia, cercano di reagire come possono al massacro sociale imposto dal capitale e dai suoi burattini politici, di qualsiasi appartenenza parlamentare.
Per questo riteniamo interessante pubblicare questi due contributi scritti da due compagni in merito alla questione. Sono punti di osservazione diversi che auspichiamo servano da stimolo per una riflessione.
Da parte nostra, senza alcuna pretesa esaustiva o di analisi approfondita, riteniamo opportuno sottolineare alcuni aspetti inerenti il fenomeno della “lotta armata” degli anni ’70-’80 in Italia: 1) esso scaturisce certamente dalle dinamiche e dalla natura di quel “movimento”, che va visto però nel suo ciclo ascendente e discendente; con una lotta operaia che tocca i suoi vertici nel ’69 per poi declinare negli anni successivi. Nessuna “soluzione” minoritaria e velleitaria poteva “sostituirsi” ad un processo sociale che fu poco analizzato, interpretato, organizzato dai rivoluzionari; 2) i punti di riferimento internazionali di quel movimento (in tutte le sue principali espressioni, gruppi armati compresi) erano caduchi. Non vi erano nel mondo “socialismi” in ascesa che potessero “supportare” o peggio ancora “indicare la via” alle masse proletarie e giovanili delle metropoli imperialistiche occidentali; 3) si poneva, come tutt’ora si pone, l’assoluta necessità e urgenza di trovare, dentro la scia del marxismo e del movimento rivoluzionario comunista, le “coordinate” per agire e per vincere nei paesi capitalisticamente avanzati.
Conquistando al comunismo masse di lavoratori, facendo con esse esperienza di lotta e di organizzazione, formando quadri dirigenti in grado di apprendere dalla lotta politica, e di trascinarvi decine di migliaia di nuovi compagni e milioni di proletari.
Questa era ed é la scommessa. Quella generazione degli anni ’70 ci ha provato, e tutto ciò che di sano essa é stata in grado di produrre non può essere perduto. Ma non dobbiamo aver timore di dire che bisogna ripartire su altre basi. Non dobbiamo aver timore di dire che il futuro é tutto da conquistare.
Il partito dell’ordine si scatena a Reggio Emilia
I funerali di Prospero Gallinari si sono svolti presso il cimitero cittadino sabato 19 gennaio. Ai funerali hanno partecipato molti compagni,un migliaio circa. Alcuni suoi ex compagni hanno tenuto brevi discorsi commemorativi ed è intervenuto anche un giovane che dopo aver ricordato la figura di Prospero ha omaggiato la lunga battaglia NO TAV. i funerali si sono chiusi con il canto dell’Internazionale e il saluto a pugno chiuso.
La stampa di destra in primo luogo il giornale locale “Prima Pagina” che esce come supplemento a “La Stampa” si era già scatenata subito dopo la morte di Prospero, prima dei funerali, prendendo a pretesto il fatto che il locale centro sociale Lab AQ16 avesse “esaltato” la figura di Prospero qualificandolo come rivoluzionario, cosa ritenuta altamente offensiva per le vittime delle Brigate Rosse e per la conseguente mancata condanna della violenza brigatista.
Questi paladini della vita umana generalmente dedicano un trafiletto di cinque o sei righe, senza alcun commento, quando un signor nessuno muore sul lavoro cercando di guadagnarsi il pane, nulla hanno da contestare quando le democratiche bombe italiane fanno strage di civili in varie parti del mondo. Non esitano, invece a levare un grido di dolore contro il centro sociale, colpevole di “rendere omaggio a un criminale” e di occupare abusivamente un locale di proprietà del Comune di Reggio Emilia. A tanto scandalo, secondo questi pennivendoli, bisogna porre rimedio: il Comune deve cacciare gli occupanti e ripristinare la legalità, concedendo lo spazio abusivamente occupato ad altre e più degne organizzazioni. Dopo i funerali e la, evidentemente non prevista, partecipazione di una massa consistente di persone, dopo i pugni levati al cielo e il canto dell’Internazionale, la campagna reazionaria ha spiccato il volo: le battute velenose contro “l’adunata dei reduci” e persino contro la dentiera del povero Oreste Scalzone hanno ceduto il passo a un inasprimento dei toni, “il centro sociale ha da essere sloggiato” è diventato il leit motiv di Prima Pagina e dato che l’appetito vien mangiando essa ha ricordato che di centri sociali occupati ce ne sono ben due, il secondo (la Casa Cantoniera occupata) è di competenza della Provincia. L’invito che ha il tono dell’ordine è: “Comune e Provincia garantiscano la legalità”. Queste altisonanti richieste hanno cominciato a sortire effetti nel campo della cosiddetta sinistra. Un candidato di Rifondazione con la lista di Rivoluzione Civile aveva partecipato ai funerali di Prospero e per questo è stato pesantemente condannato da un’altra candidata dello stesso schieramento appartenente all’IDV. In questo clima, ormai apertamente forcaiolo, è saltata fuori una dichiarazione del sindaco di Reggio Emilia, Graziano Del Rio e della presidente della Provincia, Sonia Masini. Affermano questi irreprensibili rappresentanti delle sacre istituzioni (sulla Masini grava il sospetto di avere favorito in un appalto un’impresa del marito): “l’unica canzone che Curcio, Scalzone e soci avrebbero dovuto cantare doveva essere “Perdono”. Hanno scientemente dato vita, invece, e questo è quel che deve preoccupare tutta Italia, a un pericoloso quanto sciagurato tentativo di passaggio di testimone politico dai vecchi brigatisti ai giovani NO TAV e dei centri sociali. Hanno inneggiato a ideologie di rivolta sociale e violenza che sono state dannose in passato per la democrazia, per la classe operaia, per un intera generazione che si era dedicata alla politica. Oggi è ancora più assurdo riproporre la violenza come soluzione ai numerosi problemi che la crisi economica e le ingiustizie sociali generano”.
Questa dichiarazione potrebbe essere stata fatta da due ubriaconi in un bar, visto che NESSUNO di quelli che hanno parlato al funerale di Prospero si è messo a proporre la ricostituzione delle Brigate Rosse nè la riproposizione del metodo guerrigliero. Tuttavia non del delirio di due alcolizzati si tratta, ma di un chiaro avvertimento: chi si oppone al sistema può solo usare il metodo legalitario ed elettorale, altrimenti sarà accomunato ai terroristi e quindi sarà spazzato via dalla repressione statale. Operai, disoccupati, cassintegrati possono stare certi che lo stato democratico non tollererà i trasgressori delle regole della democrazia, quelle stesse regole che assicurano la vittoria ai partiti fedeli al sistema e il dominio reale a banche e grandi imprese, tenendo sotto il tallone di ferro la massa di quelli che vivono di lavoro. Dopo tale presa di posizione delle massime cariche del territorio, i candidati reggiani del PD in un documento comune hanno denunciato “una manifestazione [i funerali Ndr] che ha offeso profondamente la nostra città e i suoi abitanti, del tutto estranei a tali rievocazioni”.
Non possiamo prevedere se e quando questa chiamata alle armi del partito dell’ordine, un partito che copre tutto lo schieramento attualmente presente in Parlamento e quello in procinto di entrarci, come il Movimento 5 Stelle e Rivoluzione Civile, porterà allo sgombero dei due centri sociali occupati reggiani. Sappiamo solo che in coincidenza temporale con questa infame campagna due compagni del Collettivo Autorganizzato R60 di Reggio Emilia hanno ricevuto le notifiche dell’obbligo di dimora con divieto di uscita notturna, accusati del sovversivo atto di … aver scritto sui muri frasi ritenute offensive nei confronti di Napolitano. Potremo quindi immaginare cosa succederà a quei proletari che sperimentando anche in questo territorio la disoccupazione e la cassa integrazione cominceranno a lottare sul serio, sganciandosi finalmente dalla tutela del PD e dalla sua propaggine sindacale cigiellina.
S.C.
In “morte” di Prospero Gallinari, in “vita” del giudice Caselli
“Se i gruppi politici che in quel magmatico movimento di classe in quegli anni erano formati da personaggi ridicoli, da scalmanati, sconclusionati, una sorta di armata brancaleone, come fa un moderno stato democratico a temerli?” Continua il dibattito sulle reazioni ai pugni chiusi ai funerali di Prospero Gallinai.
“(…) La morte del brigatista rosso Prospero Gallinari ed i suoi funerali potevano essere l’occasione per chiudere definitivamente una pagina tragica degli anni di piombo in Italia, e invece al suo funerale si sono risentiti slogan che rievocano quegli anni terribili”.
Così aprivano i maggiori telegiornali italiani nella giornata in cui si sono celebrati i funerali. Di qualche giorno prima, Giancarlo Caselli, sul giornale ‘Il fatto quotidiano’ del 18/1/13, metteva in guardia le nuove generazioni e in un articolo intitolato “Il paese dei cattivi maestri” scriveva:
“Prospero Gallinari, prima di intraprendere la carriera di brigatista “culminata” con la spietata esecuzione (forse) del “prigioniero” Aldo Moro, si era reso celebre anche per certe singolari sfide che lanciava, tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero tutta la notte. La sua morte ha ora scatenato sul web una pattuglia di nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo. Risulta così confermata la patologia che, secondo Barbara Spinelli, affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia e porta a una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica. Così prosegue – con effetti devastanti – l’appropriazione indebita dei valori della resistenza partigiana e dell’antifascismo da parte di chi non ha l’intelligenza o l’onestà intellettuale di condannare la violenza organizzata praticata contro una democrazia: un arbitrario che ha potentemente contribuito all’indebolimento di quei valori. Di qui possiamo partire per una più ampia riflessione su quanto accade oggi nel nostro paese. Gran parte della società italiana appare oggi giustamente impaurita, sconcertata, inquieta. Incerta di fronte al futuro, che teme indirizzato verso derive pericolose. Ed ecco che masse di giovani sempre più frequentemente invadono le strade e le piazze delle città italiane: per esprimere disagio, protestare contro la situazione disastrosa della scuola e del paese in generale, per comunicare forte preoccupazione e timore per il futuro. Tutte ragioni legittime e sacrosante per manifestare, esercitando l’inalienabile diritto costituzionale di riunirsi per far valere pubblicamente e liberamente le proprie idee. Se proprio non sono le “meglio gioventù” sono certamente ragazzi che vogliono vivere il presente con radicalità, dove radicalità significa respingere la tentazione di adagiarsi su logiche meramente difensive. Non consolarsi pensando che tanto non ne vale la pena: perché i giochi sono irreversibilmente fatti e le cose – gira e rigira – finiscono sempre nello stesso modo. Sono giovani che pensano al futuro non come a un domani esterno, ma come a un qualcosa che è dentro di noi e ci corre incontro. Un qualcosa che è preparato proprio dalle scelte che facciamo oggi. Giovani quindi che non concedono spazi alla rassegnazione, all’indifferenza, al disimpegno e al riflusso, se non addirittura al trasformismo e all’opportunismo, mali che nel nostro paese sono purtroppo assai diffusi. Giovani che manifestando sono anche capaci di critiche argomentate e intelligenti. Tanto intelligenti quanto più impermeabili agli idoli della seduzione e capaci di allontanare da sé ciò che appare appunto suggestivo ma di fatto distrae e può portare fuori strada. Rischiano di portare rovinosamente fuori strada invece le suggestioni che erutta il mondo parallelo e cupo in cui si nascondono personaggi ambigui che teorizzano e alimentano la violenza, sempre pronti a mescolarsi alle manifestazioni pacifiche per trasformarle in altro, con progressiva escalation verso forme di guerriglia urbana. Un mondo che spesso può contare sull’alleanza della miope e vile sottovalutazione (o compiaciuta indifferenza) di forze politiche e culturali che balbettano qualche frasetta di circostanza, invece di condannare senza speciosi distinguo, ma con determinazione e chiarezza, le esplosioni di violenza che frequentemente si registrano a opera di frange organizzate. In un paese come il nostro, che ha già vissuto la tragica esperienza di una violenza cominciata per le strade in coda a qualche corteo e poi via via cresciuta fino a pratiche terroristiche, non si può scherzare col fuoco. Se si vuole che il nastro non si riavvolga – col rischio di un nuovo, inesorabile imbarbarimento della vita civile e di una progressiva involuzione del sistema – occorre opporsi ai tentativi di bieca strumentalizzazione della gioventù (sia essa la “meglio” o meno) da parte di chi vorrebbe piegarla a logiche devastanti per la democrazia. Ancora una volta il silenzio e la contiguità su questi temi sono complici”.
Fin qui l’articolo del giudice Caselli. Cerchiamo di capire bene alcune questioni che l’uomo delle istituzioni democratico-borghesi pone, a partire dalla morte di Prospero Gallinari, ovvero di un militante delle Brigate Rosse, una delle organizzazioni di un magmatico movimento di classe contro la ristrutturazione capitalistica in Italia, negli anni successivi al biennio 69/70.
Un primo rigoroso appunto al dottor Caselli: tutto il percorso politico del militante comunista Prospero Gallinari sarebbe inquinato fin dalla giovanissima età perché sfidava a mangiare calzoni e passare la notte a torso nudo sotto l’albero? Molto meschino come argomento, non si addirebbe ad un magistrato letterato, ma tant’è. Quando si ha la coscienza di classe sporca – e la magistratura in quanto struttura che si identifica con il principio de ‘La legge è uguale per tutti, quando non tutti, come si sa, sono uguali dinanzi alla legge – si scende molto in basso, si perde in dignità e pulizia intellettuale, non si va per il sottile, non servono argomenti, basta insozzare il soggetto incriminato, criminalizzarlo, o magari ridicolizzarlo per renderlo del tutto poco credibile. Il dottor Caselli parte perciò col piede giusto. Seppellito il morto, dopo averlo ridicolizzato, porge l’attenzione ai vivi, ai cattivi maestri, a quel <<mondo parallelo e cupo>> che <<strumentalizzerebbe>> giovani scemi alla Prospero Gallinari. Il povero dottor Caselli non potrebbe mai capire che le persone non sono cose che le si possono spostare da una parte all’altra o le si possano usare per fare questo piuttosto che quell’altro. No, dottor Caselli, le persone sono esse stesse veicolo di necessità. In una società come quella capitalistica che da secoli produce – unitamente al progresso tecnologico – immani devastazioni, le necessità degli oppressi veicolano come esalazioni dal sottosuolo che emergono attraverso interstizi più svariati, e si esprimono in idee condensate fino a che i fattori determinati non ne contemplano la forza necessaria. Pertanto, tutte le idee e tutti i gruppi di persone che di quelle idee sono portatori, rappresentano il condensato di una ridotta forza di quelle necessità degli oppressi. Proprio perché quella forza appare separata e staccata, sembra ‘altro’ dagli interessi degli oppressi. Quelle necessità che ad un certo stadio si esprimono in idee, dunque di forza ridotta, per forza di cose sono infantili e puerili, e veicolano attraverso “personaggi” dotati di una sensibilità, che sono il prodotto di fattori precedenti, nel caso in specie, di una generazione come quella degli anni 60/70, ovvero figli di una generazione afflitta dai disastri della guerra, di una guerra devastante. Noi sessantottini e settantasettini che oggi siamo attempati e canuti, siamo il risultato delle ansie e delle paure dei nostri genitori, delle tragedie e dei lutti delle nostre famiglie, delle vedovanze e delle violenze delle nostre madri, dei pianti dei familiari dei nostri amici. Siamo il frutto della povertà e della fame patita per la vostra guerra.
In molti di noi c’era rabbia e voglia di bruciare il mondo intero, anche quando si aveva un posto di lavoro stabile, un buon impiego, una situazione familiare tranquilla. Era un fuoco che bruciava dentro e che nell’incandescenza di quegli anni andò lì dove l’istinto lo conduceva. Tutto ha una sua continuità storicamente materiale, niente nasce dal nulla, che un qualsiasi dottor Caselli, coccolato e ben pagato da un potere di sfruttamento e di oppressione, non è in grado di capire. Per lui proviamo, nonostante tutto, ma sì, umana commiserazione.
Se proprio si vogliono cercare dei cattivi consiglieri, dei cattivi maestri, ebbene bisogna cercarli in quei fatti e nei responsabili di quei fatti, in quella atroce perversione di un sistema come quello capitalistico che per accumulare ricchezza manda al macello milioni di uomini tanto in guerra quanto in pace.
Ma c’è qualche cosa che non quadra, egregio dottor Caselli. Perché se i gruppi politici che in quel magmatico movimento di classe contro la ristrutturazione capitalistica in Italia in quegli anni erano formati come lei sostiene da personaggi ridicoli, da scalmanati, sconclusionati, una sorta di armata brancaleone, come fa un moderno stato democratico a temerli? Perché li teme? Per cosa li teme? La risposta a questa domanda semplice, la fornisce lo stesso dottor Caselli: “Gran parte della società italiana appare oggi giustamente impaurita, sconcertata, inquieta”. Ci permettiamo umilmente di aggiungere che i confini di tali preoccupazioni sono un poco più ampi del ristretto territorio nazionale. Ed allora vorremmo chiedere: perché è impaurita, sconcertata, inquieta? Cosa inquieta la gran parte della società italiana, una società opulenta di uno stato imperialista, una società democratica con le istituzioni salde e sicure? Venga al dunque dottor Caselli, non si nasconda dietro la foglia di fico. Cosa inquieta milioni di lavoratori, di proletari, di precari, di pensionati e cosi via, perché è questa la gran parte che è effettivamente impaurita, sconcertata e inquieta. E’ questa parte della società composta dai lavoratori dell’Ilva, della Fiat, della Richard Ginori, del Sulcis, delle comunità dove stanno sventrando le montagne per la costruzione della Tav, dei disoccupati, dei pensionati, dei precari, degli immigrati, dei giovani senza futuro e cosi via che preoccupa la tenuta dell’intero sistema di cui il dottor Caselli si fa interprete, e non dorme.
Ecco il vero fantasma che aleggia nuovamente sull’Europa, e non solo, cioè una crisi strutturale senza precedenti nella storia che produrrà un magma molto più incandescente di quello degli anni 60 e 70. Quando un operaio dice ‘ non c’è prospettiva, siamo alla disperazione ‘, potrà anche suicidarsi, il singolo operaio – e quanti se ne sono suicidati! dottor Caselli – ma la massa si mette in moto, ed è un moto antisistema. In questo moto niente è prefigurato, niente è prestabilito, è un fiume in piena che rompe gli argini della civile convivenza, perché non c’è più civile convivenza. Questa è la verità. Se è vero che la storia ha una sua connotata continuità è altrettanto vero che non si ripete mai uguale a sé stessa. Tutti noi militanti di quegli anni abbiamo questa consapevolezza, ovvero che si è chiuso un ciclo – dell’accumulazione del capitale – di cui noi, senza averne consapevolezza, fummo purtroppo facili profeti, e che come una “armata brancaleone” sotto l’insegna della falce e martello, raccogliendo dalla storia del movimento operaio e degli oppressi, frasi, slogan, concetti, tesi che per primi ci capitavano fra le mani, eravamo portatori di idee che condensavano alcune “banali” necessità, quelle di combattere le cause che portavano allo stillicidio di suicidi operai alla Fiat dopo l’autunno 1980, le cause che portavano al disastro ferroviario di Viareggio, ai morti per cancro di lavoratori e cittadini per il Petrolchimico di Portomarghera, ai morti per tumore dei lavoratori e cittadini di Bagnoli, ai morti per l’incendio della Thissen Grupp, all’intossicazione dell’intero territorio di Taranto, degli oltre 20.000 omicidi sul lavoro, al criminale trattamento dei lavoratori immigrati, dei disastri ambientali, della distruzione del territorio, degli interventi militari all’estero per accaparrarsi le materie prime, dei bombardamenti sulla Yugoslavia per impossessarsi delle sue industrie e sfruttare a basso costo la sua manodopera e cosi via continuando all’infinito. Certo, in quel cimitero di Coviolo, sabato 19 gennaio, si è voluta commemorare con fierezza questa consapevolezza, di essere stati cioè il veicolo di chi parla a futura memoria, di chi a suo tempo lanciò un urlo allarmante a quella classe operaia – da cui si proveniva e di cui si era parte integrante -, che si illuse di poter a lungo essere cooptata, integrata in un illimitato sviluppo capitalistico, facendosi cosi carico delle sorti dello stato, fino a farsi essa stessa attraverso il suo partito, ‘stato’ , chiudendosi corporativamente alle aspettative delle nuove generazioni e che oggi paga amaramente le conseguenze di quella illusione, ovvero totalmente disintegrata come classe, senza un brandello di partito politico proprio, priva di vere strutture sindacali fuori e dentro i posti di lavoro, sfiduciata e impaurita. Sono i costi obbligati che storicamente una classe complementare all’accumulazione capitalistica a fine ciclo deve pagare. Si sta aprendo una nuova fase, un nuovo ciclo, e quest’altro ciclo che si sta aprendo presenta delle incognite al cui confronto la tensione politica degli anni 60 e 70 ci fa la figura di una 16 volt rispetto all’alta tensione, perché il Sistema del Capitale, nella sua impersonale e folle corsa, ha accumulato tutte le contraddizioni racchiudendole in una sola gigantesca contraddizione: l’uomo e le forze produttive. Ovvero un Sistema vittima delle forze da lui stesso prodotte. Lo scoppio del quale sarà improvviso – come sempre nella storia – e violento, e quella straordinaria massa di lavoratori delle nuove generazioni, multirazziali e multicolori, che all’oggi sembrano – e in parte lo sono – dormienti e privi di nerbo, si desteranno e costituiranno il Nuovo Movimento Operaio, a cui i militanti di quegli anni non avranno parlato invano. La memoria storica, per certi aspetti è come un attrezzo riposto in cantina, si prende quando serve.
Michele Castaldo