“Torna per votare, vota per tornare”. Suonava così un vecchio slogan del Pci degli anni ’60.
Dalla Sicilia e da tutto il Sud, ma anche dal Nord est e dalle sacche di miseria che “il miracolo economico” lasciava indietro, centinaia di migliaia di emigranti abbandonavano le loro terre in cerca di lavoro nelle fabbriche tedesche, nella Svizzera – che li costringeva a nascondere nei sottoscala i propri figli e le proprie mogli – nelle miniere della Francia e del Belgio.
Partivano, con in tasca la benedizione del parroco e la raccomandazione del notabile democristiano, pronti a farsi sfruttare nelle officine del nord dove, gli Agnelli i Pirelli i Borghi e gli altri campioni del capitalismo nazionale, non disdegnavano il loro lavoro malpagato e senza diritti, così come oggi, i loro eredi non disdegnano il lavoro “nero” dei nuovi emigranti.
“Torna per votare” invitavano le scritte sui manifesti elettorali del più grande partito “comunista” d’Europa. “Vota per tornare”.
La mafia aveva da poco smesso di ammazzare contadini e sindacalisti, un po’ perché di contadini ce ne erano sempre meno, un po’ perché aveva già cominciato a cambiare genere di affari. Il business della speculazione edilizia imponeva l’abito buono e buoni rapporti con la giovane repubblica e con i suoi partiti. Il capitalismo ha le sue regole di buona creanza e gli affari si fanno meglio senza “scruscio”.
I sindacalisti cominciavano a capire che sedersi attorno a un tavolo e “trattare” con la controparte era più “salutare” e, soprattutto, più vantaggioso per il loro futuro. I “rappresentanti del popolo” rubavano anche allora ma evitavano l’ostentazione di una ricchezza che, comunque, difficilmente sarebbe stata scoperta in un tempo in cui Internet non esisteva ancora e i pochi giornalisti di “inchiesta” dovevano barcamenarsi fra il rischio di sparire nel nulla o quello di non lavorare più. Sul libero mercato il voto valeva ancora un pacco di pasta o una scarpa spaiata da ricomporre nel suo paio originale alla successiva distribuzione, se (e quando) il “loro” candidato sarebbe risultato eletto.
Cambiare il mondo “col voto non con la rivoluzione” era quello che dicevano, a noi ancora giovani, i dirigenti di quel partito “comunista” cui ci avvicinavamo magari dopo aver ascoltato un vecchio partigiano, non intossicato dalla retorica patriottarda, che ci raccontava delle speranze e delle aspettative che la lotta al fascismo aveva creato.
“Col voto, non con la rivoluzione”. Mentre i giovani figli della scuola di massa, a Valle Giulia, imparavano a conoscere l’odore acre dei lacrimogeni e il valore educativo di una sonora manganellata, ricordandoci che, anche se Scelba se ne era andato, la Celere era rimasta lì al suo posto pronta a difendere “l’ordine costituito” da ogni velleità eversiva.
Gli emigranti tornavano per votare in massa “per il comunismo”. Poi ritornavano a gettare sangue e a morire di freddo nelle baracche dove i “germanesi” li confinavano o nelle periferie nebbiose di Torino, a respirare carbone nelle miniere, a produrre profitti su profitti. Quei profitti che servivano a pagare i celerini che sprangavano i loro figli e mantenevano quelli che col loro voto li “rappresentavano”.
Per il Pci le elezioni erano il punto più alto di mobilitazione politica dove confluivano tutte le energie e venivano mobilitate tutte le forze organizzate nel corso delle innumerevoli battaglie sociali che quel partito riusciva a dirigere o, comunque, a influenzare.
Era un rito dove bruciare le energie, altrimenti difficilmente controllabili, di una base ancora in parte suggestionata dal mito della Resistenza tradita e della Rivoluzione prossima ventura, e – nello stesso momento – l’occasione per dimostrare alle altre forze politiche in campo (e ai padroni del vapore) la democraticità e la “responsabilità” di una “grande forza nazionale” pronta a candidarsi al governo del paese di cui ne accettava le regole, anche se queste regole erano le regole più congeniali alla fase che il capitalismo stava attraversando in quel momento.
L’elettoralismo da sempre caratterizza gli opportunisti di ogni tempo e ogni latitudine. Ma il Pci andò oltre nella sua opera di devastazione della coscienza di classe del proletariato (devastazione di cui quel partito ha la responsabilità storica con buona pace di quanti oggi vorrebbero ricostruirlo) lavorando scientificamente alla costruzione di un ampio consenso di massa attorno alle istituzioni borghesi.
Il parlamento, gli enti locali, le istituzioni, divennero delle icone sacre a cui i proletari avrebbero dovuto prostrarsi. La democrazia borghese, l’unico orizzonte entro il quale lottare (moderatamente e compatibilmente) in difesa dei propri interessi … nel rispetto si intende degli altri “attori sociali” e del superiore “interesse nazionale”, foglia di fico dietro la quale si nascondeva la vergognosa capitolazione ai desiderata dei capitalisti italiani.
E del resto la congiuntura favorevole permetteva alla classe dominante di essere magnanima e di non preoccuparsi troppo dell’uso “rivoluzionario” delle sue istituzioni che godevano dell’immeritata fama di essere fra “le più democratiche del mondo”.
La legge elettorale, sostanzialmente proporzionale almeno alla Camera, (con uno sbarramento ridicolo che perfino Democrazia proletaria riuscirà a superare) creava l’illusione diffusa che in fondo il “socialismo” era solo un questione di voti e di conquista della maggioranza dei consensi, che il nemico non erano i padroni e il loro sistema di sfruttamento ma i “ladri” che rubavano e imbrogliavano i cittadini onesti, i preti che spingevano le donne a votare per l’odiata maggioranza, gli “americani” che inondavano di lettere di propaganda i loro parenti rimasti a casa. I nemici erano i mafiosi con la lupara, non quelli in doppio petto coi quali si competerà lealmente nelle occasioni elettorali e coi quali, anni dopo, si praticherà il “compromesso storico”, sintesi e punto di arrivo di tutta la politica del pci e fallimento confessato del’intera strategia elettorale di quel partito (non si può mica governare col 51%?! appunto!).
Lo svuotamento degli strumenti di lotta della classe, dei sindacati, delle leghe, perfino delle cooperative di consumo, andava di pari passo con la propaganda ideologica a difesa del sistema sociale esistente le cui ingiustizie dovevano, si, essere corrette ma, sempre e comunque con un voto democratico e, sempre e comunque, non mettendo in discussione i meccanismi di estorsione del profitto.
Se poi, nei pochi spazi lasciati liberi da una organizzazione che guardava con sospetto ogni sintomo seppur debole di lotta autonoma della classe, qualche “onesto” rappresentante del popolo riusciva a raggiungere l’agognato seggio (raramente in Parlamento, molto più spesso in qualche consiglio comunale o provinciale) l’opera di corruzione faceva il resto.
Separato dalla propria classe di origine, sovvenzionato da lauti emolumenti, “rieducato” a un tenore di vita che difficilmente avrebbe potuto garantirsi con un onesto lavoro, anche il più rivoluzionario e incorruttibile fra gli eletti finiva per svolgere il ruolo di garante della credibilità di un sistema che aveva pur bisogno – per abbindolare i gonzi – di una parvenza di opposizione.
La storia ci ha insegnato che col voto non si è cambiato un bel nulla e che perfino quella parvenza di democrazia formale, che uguagliava di fronte alla “costituzione più avanzata del mondo” il voto del padrone e il voto del suo operaio, è stata cancellata dalla necessita di rendere più governabile e efficiente la macchina statale.
Sbarramenti, nomine dall’alto, leggi elettorali usa e getta costruite e abrogate alla bisogna con l’unico intento di prefigurare i futuri assetti, compravendita di voti, uso spregiudicato dei nuovi strumenti di creazione del consenso.
E nemmeno questo è bastato! Di fronte alla crisi incalzante, il capitalismo è stato costretto a rompere ogni formalismo istituzionale imponendo al governo del paese il SUO uomo, la SUA dittatura diretta nella gestione dell’economia, facendo carne di porco di tutte gli orpelli democratici, fottendosene altamente del consenso fino a qualche mese prima sbandierato come fiore all’occhiello dell’occidente capitalistico e elemento di superiorità di fronte alle esperienze (quant’anche fallite) di dittatura del proletariato e di democrazia operaia.
Quello che era un elemento di consapevolezza per i comunisti, e cioè il fatto che i governi – TUTTI i governi, anche quelli eletti con il metodo più democratico – sono solo comitati di affari degli interessi della classe dominante, diventa chiaro agli occhi di un’ampia fetta di “cittadini elettori” a cui viene imposto un governo nominato dai circoli finanziari e dalle banche che detengono i cordoni della borsa con l’appoggio parlamentare di TUTTI i partiti che, di fronte alla necessità di salvare i profitti del capitale, dimenticano le loro marginali divergenze e ASSIEME, a colpi di fiducia, diventano artefici del peggiore attacco che la classe operaia (e le masse popolari) abbiano mai subito dai tempi del fascismo.
“Non con la rivoluzione ma col voto”. Mentre si studia una legge elettorale capace di NON far vincere nessuno in modo da garantire a Monti – e alla sua corte di banchieri evasori e canaglie liberiste per i quali la vita di un esodato è solo un fastidioso errore statistico da cancellare con un tratto di penna – il ritorno al governo. Votare per non cambiare nulla. Votare per confermare lo stato di cose esistenti, è l’unica sovranità che lo stato borghese nella sua fase senile può garantire ai suoi cittadini.
Se in tempi in cui la giovane democrazia deve ancora espletare tutto il suo potenziale, quando le masse “arretrate” (spesso per colpa delle avanguardie arretrate e opportuniste) credono nel potere taumaturgico del voto, in presenza di un partito rivoluzionario forte e dalle chiare caratteristiche di classe capace di controllare e dirigere i suoi eletti, si può anche pensare di partecipare alle elezioni (borghesi), di certo farlo ora è una sciocchezza.
Peggio. Partecipare alla farsa elettorale seminando nuove illusioni, magari chiedendo un voto per un “programma rivoluzionario” (da sostenere nel segreto dell’urna!) da solo la misura del pantano in cui si finisce quando, alla pratica paziente della costruzione dell’organizzazione operaia, si sostituisce la ricerca spasmodica di una visibilità mediatica (e di qualche briciola di rimborso elettorale) e quando, all’ esperienza storica del movimento comunista (e alle sue acquisizioni teoriche), si sostituisce “la voglia di partecipare” di chi, cresciuto alla scuola dell’elettoralismo di ieri, non riesce a comprendere la necessità di combatterlo nemmeno oggi che la metà e passa della popolazione italiana vede nelle elezioni borghesi solo un vergognoso imbroglio.
Ed è inutile polemizzare con questi gruppi e gruppetti (ops… partiti), che a ogni occasione trovano il modo di presentare le proprie liste “rosse” spesso giustificando la loro scelta con lunghe citazioni di mal digerite letture giovanili e sempre pronti a giurare e spergiurare sulla loro “diversità rivoluzionaria”. Lasciamo alla “critica corrosiva” della realtà il compito di ridimensionare le loro velleità … e alle pagine dei network le testimonianze della loro esistenza il più delle volte virtuale.
I comunisti devono avere un approccio differente e, oggi, il loro compito non può essere altro che quello di “bastonare il cane che affoga” contribuendo ad allargare il solco fra le istituzioni borghesi e i “cittadini elettori”, elevando il rifiuto di massa esistente nei confronti della politica di regime alla consapevolezza teorica della necessità di abbattere lo stato borghese e le sue istituzioni. Puntare tutte le poche e risicate forze e energie nella propaganda e nella costruzione di un’ALTRA democrazia, quella che nasce dalle lotte operaie, dalle leghe dei senza lavoro, dalla classe che cerca di difendersi da un attacco senza precedenti. La democrazia dei delegati operai che nasce dalle lotte ed è funzionale al loro sviluppo e alla loro generalizzazione.
Della democrazia borghese, ormai, non rimane altro che la vergognosa arroganza di un ceto politico di briganti e malfattori che ha approfittato della situazione vendendo al miglior offerente la propria capacità di collettore di voti. E le ruberie (spesso perfino legalmente riconosciute) di un ceto di servitori del capitale che, sentendosi ormai obsoleto e inadatto ai nuovi compiti che la realtà impone, arraffa in fretta tutto quel che può cercando di preservare il suo status sociale dalle “complicazioni” della crisi.
Perché di questo si tratta ormai, sistemarsi e sistemare i propri sodali in attesa della bufera che si avvicina e che ha il volto della Grecia, dove muori perché non ci sono più soldi per le cure mediche, o del Portogallo, dove sopravvivi con 450€ al mese e devi sentirti un privilegiato perché in fondo sono ben 100€ in più di quanto guadagna un operaio Fiat in Bosnia.
La dittatura della borghesia non ha più maschere e le sue elezioni non sono più nemmeno il rito in cui le varie anime si contavano e ricomponevano i propri interessi. Sono solo una riffa, un gratta e vinci per permettere a qualche arruffapopolo di guadagnarsi il premio di una vita e liberarlo dal fastidio di lavorare senza dover rinunciare al suo reddito massimo garantito.
NON andare a votare, ne in Sicilia ne altrove. Boicottare attivamente le elezioni borghesi. Partecipare, si ma a modo nostro, imponendo con il conflitto diffuso la “nostra” agenda. Con la lotta non con il voto.
M.Gangarossa