Un quarto di secolo di sindacalismo libertario
Per lo storico Giorgio Sacchetti, autore di numerosi articoli e pubblicazioni sulla storia del movimento anarchico, quest’ultimo lavoro rappresenta una sfida impegnativa, sia per l’argomento specifico che per il periodo analizzato: un quarto di secolo di intervento militante dei libertari nel movimento sindacale. Argomento ostico e complesso, su cui pesa come un macigno il fatto di affrontare un periodo in cui l’influenza anarchica nel proletariato è in netta fase calante rispetto ai decenni che precedono il secondo conflitto mondiale. Una sfida raccolta (e vinta) dall’autore, che d’altronde aveva già dimostrato di conoscere in profondità il movimento libertario. Movimento che, con la fine della Resistenza, si presenta nell’arena della lotta di classe non più come protagonista, bensì ridotto a poco più di testimonianza residuale.
Sacchetti affronta tanto le cause esterne quanto quelle interne di questo declino. Se tra quelle esterne la principale è l’inedita composizione di classe che ha stravolto memoria ed identità delle vecchie organizzazioni ed il tramonto dell’operaio di mestiere soppiantato dal “fordismo” (“modo di produzione che genera – insieme a nuovi sistemi di relazioni industriali – la figura dell’operaio irrigimentato, dequalificato e spersonalizzato delle catene di montaggio, più docile per le organizzazioni autoritarie”), quelle interne sono fortemente riconducibili ad un fattore generazionale.
Basti dire che alla fine della guerra sono ancora i “vecchi” ad essere protagonisti dell’«anarcosindacalismo», o meglio, di ciò che rimane di questa corrente: i Gervasio, i Sassi, i Marzocchi, i Sacconi, i Castrucci, militanti di ferro ma tutt’altro che giovani, con alle spalle anni di galere, confino, clandestinità. Costoro, oltre a dover affrontare sul fronte interno (del movimento anarchico) gli attacchi di personaggi e correnti facenti capo agli “antiorganizzatori”, si trovano ben presto di fronte ad un bivio, ovvero se operare all’interno della rinata Cgil tricolore – che nel frattempo al sud ha già schiacciato la Cgl rossa – oppure rifondare la gloriosa Usi soppressa nel 1926. Pressoché tutti sceglieranno la prima strada, e prenderanno atto dell’errore solo dopo decenni passati all’ombra dei direttivi egemonizzati dagli scaltri stalinisti, quando ormai sarà troppo tardi. L’Usi – ultraminoritaria – verrà rifondata comunque da altri, ma non andrà oltre la piccola ombra di sé stessa.
Anarchici e libertari operano nella Cgil organizzati in corrente (“difesa sindacale”), ottenendo posti di responsabilità, dirigendo categorie come quella dei minatori, organizzando lotte significative ed esemplari come quella del Valdarno. Gli unici nuovi, giovani quadri rappresentano l’eccezione, ovvero l’espressione di singole realtà come quella di Genova; molti di questi quadri si separeranno di lì a poco definitivamente dal movimento anarchico, iniziando un percorso maturato sul campo che li porterà ad approdare al marxismo (Lorenzo Parodi), oppure al riformismo socialdemocratico pur di sottrarsi all’egemonia stalino-togliattiana.
Anche nell’ambito sindacale si verifica dunque la stessa situazione delle ribellioni partigiane: quei libertari che nel dopoguerra affronteranno a muso duro il Pci e lo stalinismo lo faranno solo a condizione di allontanarsi progressivamente dal campo anarchico. Per chi, al contrario, rimarrà in quel campo, il destino è quello di una sudditanza al Pci ed ai suoi quadri nel sindacato, a tratti persino umiliante ed offensiva. E su tutto ciò, a tutt’oggi il movimento anarchico, pur avendo accumulato un notevole patrimonio bibliografico – ben superiore a quello del comunismo eretico – non ha ancora riflettuto, né tantomeno fatto autocritica. Anzi, episodi recentissimi, come ad esempio la presentazione del libro su Gervasio fatta alla sede cigiellina della Camera del Lavoro di Milano dicono tutto, ma proprio tutto su una sudditanza che continua…
Decisamente raccomandiamo la lettura di questo libro, che presenta, se proprio la vogliamo trovare, un’unica lacuna: non vengono mai citati gli internazionalisti, che pure operano, fino ad essere espulsi, nel sindacato e nei luoghi di lavoro, rifiutando cariche elettive, denunciando il Pci e portando nelle lotte parole d’ordine rivoluzionarie: gli anarchici evitarono in varie occasioni di portare le differenziazioni alle estreme conseguenze per non essere accusati di essere “disgregatori”, termine che invece gli internazionalisti rivendicarono per sé. Fu pressoché totale la mancanza di azioni comuni tra anarchici ed internazionalisti all’interno della Cgil: un mancato contatto che favorì l’isolamento e la persecuzione degli internazionalisti da un lato, la sudditanza degli anarchici nei confronti del Pci dall’altro; sudditanza che portò i libertari ad accettare acriticamente meccanismi di spartizione, e “contentini” di poter votare qualche volta contro gli odg approvati a larga maggioranza.
Lorenzo Parodi ne «L’Impulso» del 25 novembre 1956 riportava un intervento di Attilio Sassi “Bestione” che ben inquadrava il generoso intervento di questi compagni – autodidatti – in un sindacato totalmente interclassista e subalterno: ”sin da quando si cominciò a creare in Italia l’organizzazione sindacale andò maturando una concezione particolare sul proletariato, sulle organizzazioni dei lavoratori, sulla lotta di classe. La maggior parte degli uomini più o meno colti, che si infiltrano nei partiti più o meno «sovversivi» o di avanguardia, risentirono di siffatta mentalità che li porta ancor oggi ad avere lo stesso dubbio di ieri: quello di credere che il proletariato da solo non sia capace di incamminarsi verso le mete finali della propria emancipazione”.
Il libro successivamente si addentra nelle delle trasformazioni nelle fabbriche nel corso degli anni ’50, nello scontro con il modello contrattuale perseguito dalla Cisl, nel comunitarismo padronale di marca olivettiana – esperienza cui partecipò più di un anarchico – nella nuova stagione dell’operaismo, nel movimento del ’68, nell’esplosione di creatività in cui le nuove leve di libertari, più o meno eterodossi, trovarono nuova energia. Argomenti e capitoli di stagioni più vicine ai giorni nostri, trattati anch’essi con cura e rigore.
Notiamo con piacere che tra i documenti in appendice viene riportato un nostro scritto, apparso sulla rivista «Collegamenti Wobbly» nel 2008, sull’estromissione dei macchinisti anarchici dalla direzione dello storico giornale nazionale di categoria, considerato eretico e poco controllabile dagli apparati del Pci; scritto in cui, tra l’altro, abbiamo rilevato il nodo dello scontro generazionale tra i lavoratori nell’immediato dopoguerra.
A.P.
LAVORO
DEMOCRAZIA
AUTOGESTIONE
CORRENTI LIBERTARIE NEL
SINDACALISMO ITALIANO
(1944-1969)
ARACNE 2012
376 pagine, 21 euro