Argentina (9) – IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-’75) – Parte terza. Dalla rielezione di Perón alla vigilia del colpo di Stato

Pubblichiamo il 9° di una serie di articoli sulla recente storia dell’Argentina 

Dopo la rivolta insurrezionale del “Cordobazo” (maggio 1969) il governo Onganìa non esita a proclamare ai quattro venti che gli operai scesi in piazza “sono gli operai meglio pagati dell’Argentina.” (M. Aguas, Limes 4-2003)

Naturalmente ci si guarda bene dall’accennare al trend discendente dei salari che questi operai stanno subendo e ai ritmi di sfruttamento cui sono sottoposti. Il compagno del Partido Obrero Luis Oviedo ricorda come i salari siano calati dell’8% rispetto ai due anni precedenti l’insurrezione, come la disoccupazione sia salita del 10% e la produttività nel settore auto (il più importante di Cordoba, coinvolgente il 50% della forza lavoro) risulti aumentata – sempre nel biennio ’67-’69 – dal 60 all’80% (“Il Cordobazo e il Partido Obrero”, Cit.)

MISERIA E RIVOLUZIONE

Conviene fare questo richiamo per sfatare uno dei tanti luoghi comuni inerente le rivolte e le rivoluzioni delle classi sfruttate, in base al quale il grado di convinzione e di determinazione degli oppressi sarebbe direttamente proporzionale al livello di miseria da essi vissuto.

E’ un luogo comune che è usato, come nel caso sopra citato, dalla borghesia per screditate la lotta operaia (gli “incontentabili” operai a cui piace creare “disordini” invece di lavorare). Ma anche in vari ambienti della sinistra una tale visione raccoglie un certo seguito; se non altro come argomento di auto-consolazione, o di attendismo verso una classe proletaria “consumista” che non risponde alle nostre sollecitazioni.

In realtà, non esiste un automatismo di tal genere.

La componente miseria sociale sicuramente entra nella catena delle cause e concause che rendono esplosivo il malessere. Ma quest’ultimo va declinato tenendo presente tutta una serie di fattori inerenti lo stato complessivo della classe sfruttata.

E cioè, non solo il livello assoluto di miseria, ma anche – e diremmo soprattutto – quello relativo (l’aumento delle distanze sociali tra le classi).Eppoi lo stato psicologico delle masse coinvolte; che deriva dall’intersecarsi del livello di disoccupazione con quello dello sfruttamento in fabbrica, della questione del costo della vita con quella delle abitazioni, del “potere contrattuale” nei luoghi di lavoro col livello di coscienza acquisito in base all’esperienza storica del proletariato. Quest’ultima abbinata a sua volta alle recenti acquisizioni legate alla lotta sindacale e politica. Oltreché, naturalmente, dall’intervento sul terreno del fattore soggettivo, cioè degli organismi di classe.

Sulla base di questi elementi (ed altri ancora se ne potrebbero aggiungere) per noi marxisti non è per nulla strano che siano gli “operai meglio pagati dell’Argentina” (quelli tra l’altro più abituati alla lotta e all’organizzazione) a tirare le fila di questa indimenticabile stagione del proletariato argentino. Stagione che ancor oggi deve parlare a tutto il proletariato mondiale.        

Come abbiamo visto, nel settembre del 1973 Perón, rimesso in sella dalla borghesia per sedare il crescente, tumultuoso movimento popolare, vince nettamente le elezioni presidenziali. Ma il suo progetto naturalmente non consiste solo nel “tamponare” le masse.  

La sua è una politica di restaurazione peronista sganciata dai vecchi canoni statalisti; tendente ora ad un certo keynesismo rimodulato, in cui le concessioni sociali siano ben vincolate al mantenimento di “legge e ordine”. In poche parole, per lui chi ancora si fosse attardato sulla linea del peronismo poggiante sulle gambe (non sulla testa, sulle gambe) del movimento operaio si sarebbe dovuto ricredere.

Quell’era, l’era dell’agognato protagonismo argentino legato alle ambizioni di emancipazione continentale dal dominio USA, per il “vecchio” Perón è definitivamente sepolta.

Un assaggio di tale linea l’abbiamo vista con la nomina a ministro dell’Economia, nel governo Càmpora (maggio ’73), di quel José Ber Gelbard (presidente della CGE) che nel suo “Programma de Reconstrucìon y Liberacìon Nacional” punta al sostegno della domanda tramite l’espansione del mercato interno e delle esportazioni, nazionalizza il commercio estero e attua la gestione diretta del credito da parte del Banco Central.

Il tutto dentro un quadro concertativo con la CGT (vedi articolo n.8).

Scrive F. Silvestri (Op. cit.): “la quota destinata ai salari – dal ’69 al ’73 – cresce dal 42% al 46% della ricchezza nazionale, raggiungendo così il valore più elevato degli ultimi dieci anni.”

Uno spostamento notevole; considerando che esso, ad esempio, corrisponde grosso modo a quello ottenuto in Italia con le lotte operaie del ’69. 

L’operazione Perón-due non è solo controllo sul movimento operaio, non è solo una operazione ideologica. Trattasi di un tentativo di ingabbiare sì le lotte, ma di attuare al contempo una linea di corruzione materiale dentro settori del proletariato. Non solo quelli appartenenti alle industrie statali (che si sentono più garantiti), ma anche tra quei settori di punta protagonisti delle lotte.

Ciò che non funziona per la borghesia argentina è che praticamente non esiste un’aristocrazia operaia. Strati di lavoratori “protetti” sì, ma non un’aristocrazia vera e propria: consolidata nei suoi privilegi, portatrice di un suo modo di pensare, organizzata nel “partito operaio-borghese” per dirla con Engels.

Tutto ciò invece di “acquietare le acque” le agita all’inverosimile, in quanto quei settori di punta del proletariato, acquisita la consapevolezza che la lotta paga, che il governo “concede”, non tornano tranquillamente al lavoro ma moltiplicano e radicalizzano le agitazioni! Mettendo in estrema difficoltà il vecchio “Capo” e mandando in tilt la macchina peronista di ritorno così accuratamente approntata…Basti pensare che da marzo a giugno ’74 si avrà la più elevata media mensile di scioperi dell’intero periodo peronista. Va da sé che gli industriali, da parte loro, innalzeranno i prezzi dei prodotti industriali. (Silvestri

Il combinàt strage di Ezeiza/nuova unità peronista/concertazione sindacale avrebbe dovuto mettere nell’angolo le insorgenze e gli “estremismi”.

Accade invece esattamente il contrario. In parte anche per la sopravvenuta crisi petrolifera che manda all’aria tutti i piani di “ripresa” basati sul modello del keynesismo rimodulato di cui si parlava. Tanto per dire, il mercato della CEE (Comunità Economica Europea, composto di nove paesi) blocca l’importazione della carne. Il Medio Oriente è di nuovo in fiamme (guerra del Kippur), compromettendo pesantemente i traffici commerciali argentini verso quell’area.

Si ricorre a trattative aziendali che concedono aumenti salariali “in nero” sotto forma di premi di produttività…In maniera tale che il fronte di lotta possa sfarinarsi e far intendere a crescenti quote di lavoratori, illusi che il rivendicazionismo salariale costituisse di per sè  una avanzata verso il “socialismo”, come in fondo fosse più conveniente “mettersi d’accordo” dentro le mura della fabbrica.

Il fenomeno per il momento non prende il sopravvento, anche se certamente comincia a creare falle nel formidabile movimento proletario di quegli anni.

Grimson (Op. cit.) mette in evidenza come con l’uccisione del segretario CGT José Rucci, a seguito della strage di Ezeiza (giugno ’73), gli “equilibri” dentro il peronismo siano in procinto di saltare.

I Montoneros dichiarano di non volersi più sottomettere all’autorità di Perón, seppur lo ritengano “prigioniero” della destra e quindi non intendano per il momento rompere i rapporti. Il generale, da parte sua, “apre le ostilità verso tutti i settori armati che minacciano l’ordine costituzionale.”

Vengono spazzati via dalle cariche gli esponenti della sinistra peronista, mentre nella CGT si denunciano e si espellono i “comunisti”, intendendo con questo termine ogni esponente di opposizione. Non rinunciando a compiere verso di essi bastonature e attentati. 

Perón se la prende coi suoi, che pretendono da lui ciò che non può concedere, o che – per meglio dire – non ha mai avuto in mente di concedere.

La guerriglia peronista: plurale, consistente quanto confusa; cattolica del dissenso e guevarista; parlamentarizzante ma in armi, entra in conflitto aperto con la burocrazia della CGT e, ammaliata dalle sirene del fochismo e del terzomondismo, diventa prigioniera “di una linea schizofrenica, ambigua”…piena di “contraddizioni esplosive.” (Diez, Op. cit.) 

La rottura definitiva è solo rimandata al 1° maggio 1974. In tale occasione i Montoneros sfilano sotto il palco da dove Perón sta tenendo il discorso ufficiale della manifestazione, contestandolo e scandendo: “Qué pasa, qué pasa, qué pasa general, que esta lleno de gorillas el gobierno popular!” (Diez) Il presidente allora li attacca duramente e li sconfessa: “mercenari al soldo dello straniero”; così vengono qualificati quei “ragazzi”(molti di loro sono studenti) a suo tempo gelosamente coccolati ed esaltati nelle loro “eroiche gesta” tese a favorire il suo rientro in patria.

Fatto è che i Montoneros ritornano nella clandestinità, scatenando una spirale convulsa di esecuzioni (reciproche) con le tre A (Alleanza Anticomunista Argentina fondata dal braccio destro di Perón, Lòpez Rega), i poliziotti ed i rappresentanti della destra.

PUNTI FERMI SU PARTITO, VIOLENZA E LOTTA RIVOLUZIONARIA

Su questo terreno il PRT/ERP non intende naturalmente essere secondo a nessuno, dal momento che il suo gruppo dirigente ha da tempo scelto la via della lotta armata come via privilegiata della rivoluzione: non solo argentina ma continentale. La stessa cosa che ora vanno sostenendo, con più forze all’attivo, i Montoneros. 

Morlacchi (Op. cit.) riporta la dichiarazione di uno dei fondatori del PRT/ERP, Enrique Gorriaràn Merlo, in cui questi dichiara che “già nel 1966 (il PRT nasce nel 1965, NDR) non si discuteva più se la lotta armata la si doveva fare oppure no; si discuteva di come la si doveva fare…”

D’altronde, il capo indiscusso del partito, Roberto Santucho, sostiene a più riprese che l’esigenza della lotta armata nasce dall’esperienza diretta delle masse operaie argentine “ed entra così a far parte del programma di partito.  

Non si vuole qui negare in primo luogo la necessità, per i marxisti, di prepararsi al sovvertimento violento del regime borghese. Tale sovvertimento violento prevede anche l’utilizzo della forza allo scopo di piegare il nemico di classe e istaurare il potere del proletariato. Tutto ciò non è naturalmente in discussione per il marxismo rivoluzionario.

E non si vuole neppure negare che la situazione generale, dell’Argentina (come dell’intero continente sudamericano), spingessero per certi versi alla lotta armata.

Il problema per noi viene subito dopo. E cioè: come essa viene usata dentro una strategia di lotta la quale non può mai abbandonare o subordinare quella attività politica che sostanzia l’azione del partito rivoluzionario.

Non l’azione “militare” ma l’attività politica complessiva caratterizza un partito rivoluzionario. Attività indirizzata non ad avventuristiche insorgenze di minoranze che “danno l’esempio” e “spingono all’azione le masse”, ma dall’agitazione e dall’organizzazione politica di massa che abbia questa come protagonista, dalla incessante propaganda, dalla definizione di obbiettivi di classe e non “nazional-populistici”. Come invece sono quelli che accompagnano l’attività del PRT/ERP (il perseguimento prioritario dell’indipendenza nazionale, l’interclassismo, le attese nei confronti del peronismo “rivoluzionario”).

Ragion per cui la “lotta militare” per i marxisti è sempre inquadrata nella strategia generale del partito, nella sua tattica (era sicuramente vitale organizzare, in una situazione come quella di cui ci stiamo occupando, gruppi armati di autodifesa), ma non può far parte del  programma di partito! Tantomeno se si identifica una simile lotta con la guerriglia…

Una visione del genere sfocia nel militarismo. Di “sinistra” quanto si vuole per linguaggi e riferimenti, ma pur sempre militarismo.

Ci sentiamo di esporre una simile critica al progetto del PRT/ERP senza alcuna pedanteria, portando il dovuto rispetto ai compagni caduti nella lotta, senza disconoscere come il partito, pur alla sua maniera, sia radicato in alcune importanti realtà del proletariato argentino. Come pure naturalmente negli organismi di guerriglia continentali (l’OLAS, “Organizaciòn Latinoamericana de Solidaridad”).  

Intendiamo con ciò ribadire, come già accennato nell’articolo precedente, che secondo noi quella – pur minoritaria – “tensione” operaia verso la lotta armata (che esiste ed a volte si interseca con le lotte di fabbrica) rappresenta una scorciatoia (strategicamente e tatticamente sbagliata certo, ma reale) rispetto all’esigenza di dare comunque una risposta alla feroce repressione statale. Dentro una situazione in cui – ad un certo punto – al “montare delle lotte” non corrispondono quegli avanzamenti politici tanto agognati.

Per comprendere meglio di cosa stiamo parlando conviene forse fare qualche passo indietro.

Come abbiamo visto il PRT nasce dalla fusione tra il FRIP di R. Santucho e la Palabra Obrera di N. Moreno. Siamo nel 1965. Tre anni dopo il partito si scinde in due anime, dal momento che Moreno, esponente della IV° Internazionale, la quale pure sposa le teorie guerrigliere, è messo in minoranza.

Sorge così il PRT/ “La Verdad”; che critica sì il fochismo, ma da destra, sostenendo un pansindacalismo spicciolo non scevro da tendenze parlamentaristiche, compromissorie col peronismo “buono”, a partire dalla CGT di Vandor.

Da parte sua Santucho fonda il PRT/”El Combatiente”, “più castrista che trotskysta” secondo O. Coggiola (Op. cit.)

Così, quando scoppia il “Cordobazo”, una parte cospicua della sinistra rivoluzionaria, o aspirante tale, si trova nel pieno caos teorico, politico e organizzativo. Tanto che il PRT di Santucho definirà l’insurrezione operaia un evento “difensivo, pur usando metodi offensivi…dal momento che manca…l’Esercito Popolare”!

Si lascia così passare questo fondamentale evento, potenzialmente espansivo (seguiranno infatti a breve altre insorgenze), per concentrarsi sulla formazione del suddetto “Esercito Popolare”…

Esiziale miopia politica legata a una ingenua sopravvalutazione della guerriglia, oltreché a dei riferimenti politici “nazional-populistici”.

La stessa IV Internazionale, che potrebbe disporre di un avamposto proletario di grande valore per sperimentare finalmente la sua capacità di direzione, è preda di un immobilismo immaginifico (“situazione oggettivamente rivoluzionaria”) che va a detrimento non solo della sua sezione argentina (una delle poche che ha un seguito proletario reale), ma soprattutto della credibilità operaia acquisita negli anni della ripresa della lotta.

Moreno la scavalca a destra pur adottando un linguaggio “sinistro”. Santucho la scavalca a sinistra prendendo sul serio la linea “guerrigliera” e “contadina” assunta (a parole) dall’organizzazione. Rifiutando inoltre, alla fine, di fare da referente argentino della IV°.

Un disastro.

Sempre Coggiola (Op. cit.) segnala come già dal ’67 il PRT cominci a fornire “appoggio tecnico ai sindacati” (con sabotaggi e uso di esplosivi) “senza discutere il loro orientamento”. E tutto ciò dopo aver teorizzato al suo III° Congresso il “superamento” di questi…

Ma, come si diceva poc’anzi, il fenomeno della guerriglia non va visto come staccato dalla lotta proletaria e di massa. Non è semplicemente un problema di “guerra tra apparati” (Stato contro guerriglia).

Coggiola, il quale non è di certo tenero verso il PRT/ERP, deve ammettere tra le righe che “non poche azioni dell’ERP poterono contare sulla simpatia degli oppressi”, pur riconducendo i primi successi inziali “alla forza e all’offensiva del Cordobazo”.

In seguito, secondo lui, il calo dell’iniziativa operaia avrebbe portato alla guerra di apparati (già col massacro di Trelew, 22/9/’72. Vedi articolo precedente).

Non ci sentiamo di liquidare così il dipanarsi degli avvenimenti, con le conseguenti conclusionitese a rappresentare il PRT/ERP esclusivamente come una congrega di avventuristi e di piccolo borghesi, opportunisti fino al midollo. Critica serrata delle posizioni politiche non significa disconoscere funzioni, peso, caratteristiche che coinvolgono organismi di certo non esterni alle lotte del proletariato.

Il PRT/ERP si è incamminato verso una strada senza sbocco; ma il suo agire è allo stesso tempo il frutto vuoi delle risoluzioni annientatrici dell’imperialismo USA, in combutta con le borghesie nazionali latino-americane, vuoi della mancata svolta politica a seguito delle poderose mobilitazioni di classe avvenute tra il ’69 e il ’75.

Mobilitazioni che, per ampiezza e intensità, per partecipazione e coscienza, esigono uno sbocco politico. In assenza del quale l’opzione della lotta armata non può che rimanere a galla, costituendo un aspetto particolare della più generale illusione/disillusione che attanaglia le avanguardie del movimento.  

Detto in altri termini: esiste senza ombra di dubbio l’aspetto internazionale del fenomeno guerrigliero, corredato dai suoi miti e dalla sua ritualità operativa; ma la cosa, per l’Argentina almeno, va vista pure nella sua declinazione interna. Come un frutto bacato certo, ma proveniente in parte dallo stesso ceppo di un movimento di classe sottoposto ad un durissimo attacco concentrico, a seguito di una sua imprevista e duratura sollevazione sociale e politica.

Infatti, oltre alla già richiamata DSN (Dottrina di Sicurezza Nazionale, nell’elaborazione della quale i militari argentini svolgono un ruolo di primo piano), dal ’74 si va implementando la cosiddetta “Operazione Condor”.

Mentre la DSN prevede interventi militari repressivi nel mucchio, l’Operazione Condor consiste in un intervento selezionato, sotto regia della CIA, contro oppositori sudamericani “non graditi”, comprendente tre tappe: spionaggio, rapimento del soggetto, e successiva sua eliminazione fisica, spesso dopo tortura. Vi partecipano i servizi di sicurezza argentini (il SIDE), insieme a quelli boliviani, brasiliani, cileni, paraguayani, peruviani e uruguagi.

Si formano “squadre della morte” internazionali (coinvolti anche “Ordine Nuovo” e “Avanguardia Nazionale”) pronte alla bisogna.

Supervisori dell’Operazione: il presidente statunitense Richard Nixon e il “grande diplomatico”, per noi boia di Stato, Henry Kissinger.

Tra il 1960 e il ’75, 3.676 militari argentini e 40mila degli altri paesi sudamericani vengono addestrati negli USA in nome della “lotta al comunismo”.   

Il ritrovamento nel 1992 degli “Archivi del terrore”, ha fatto emergere come le vittime di questo programma di sterminio contro militanti politici, sindacalisti, operai, studenti e chiunque si mettesse di traverso (compresi familiari, amici, conoscenti, mamme che cercavano i loro figli scomparsi) ammontino a 50mila uccisi, 30mila scomparsi, 400mila incarcerati. Non è stato reso noto il numero dei torturati, dei mutilati, dei deceduti a seguito di malattie contratte durante la detenzione.

IL “FOCHISMO” DEL PRT/ERP

Serve ricordare tutto questo per rimarcare come la guerriglia ha evidentemente favorito l’opera di repressione degli Stati del Sudamerica, e quindi dell’Argentina. Ha depotenziato la lotta di massa, deviandola con imperizia sul terreno militare: quello dello scontro armato tra minoranze (terreno più favorevole per la classe borghese).

Ma alla base vi è uno sterminio programmato e concertato approntato da imperialismo dominante e capitalismi nazionali. Il che, in una certa misura, spiega anche la guerriglia.

Nell’azione militare del PRT/ERP non manca una componente “pedagogica” che richiama i trascorsi anarchici del movimento operaio argentino. Una pedagogia della propaganda armata. Atta a mostrare quanto il potere sia vulnerabile. A far comprendere a chiunque che si può “fare come l’ERP”.

Morlacchi racconta di assalti ai camion che trasportano generi alimentari e la relativa distribuzione dei viveri alla popolazione. Senza toccare i piccoli commercianti e i negozianti di quartiere. Oppure dell’occupazione di scuole e di portinerie aziendali, seguite dal sequestro delle armi appartenenti a guardiani e poliziotti. Non mancano assalti a caserme e rapine in banca.

Miguel Benasayag e Dardo Scalvino (Per una nuova radicalità”, Il Saggiatore -2004), Autori per nulla condiscendenti con il PRT/ERP, mettono in luce il poco interesse della Direzione per la politica nazionale e internazionale. L’ interesse casomai è dirottato “sulla regione e sul fronte specifico”.

E’ diffuso un certo massimalismo, bilanciato da “concretismo e quotidianità dei quadri intermedi e della base”. L’organizzazione, ai loro occhi, è “una Comunità che traccia il cammino di liberazione, fatto di solidarietà e cooperazione”. Non conquista del potere dunque, ma “liberazione” qui e ora. Fatta con l’esempio, “con l’abitare, esprimersi, curarsi, lavorare”. Il partito, non a caso, si dota di un “Tribunale morale.” (Anche se poi non trova il giudice…moralmente idoneo a presiederlo…)

“Nelle file PRT/ERP il militante aderisce a una forma di vita, più che condividere certi orientamenti generali di partito.”

L’organizzazione è rigidamente strutturata. Coggiola valuta in 350 il numero dei militanti impegnati a tempo pieno nella clandestinità. Non è un numero elevatissimo, considerando all’incirca in 1.500 il totale degli iscritti. Il che sta a significare la presenza di un lavoro politico alla luce del sole.

“Però – dice J. Santucho – il 100% delle nostre azioni militari venivano compiute da militanti armati. Tutti dovevano essere in grado di utilizzare le armi e anche durante un semplice volantinaggio dovevamo essere armati. Non potevamo essere arrestati senza opporre resistenza.” (Morlacchi)

Come si vede, siamo di fronte a una clandestinità “parziale”, modello vietcong…pochi componenti per squadra, ”donne col fucile e il figlio al collo.”

A chi non è operaio vengono imposti cinque anni di fabbrica come condizione per l’adesione al partito.  

Dove ne coglie la possibilità, l’ERP, sull’esempio di Spagna, Cina e Vietnam, instaura “zone di doppio potere”, trattando con le autorità locali la sospensione delle azioni militari in cambio della liberazione dei prigionieri politici e sociali (Diez).

La cosa è teorizzata da R. Santucho (agosto ’74): “Il processo rivoluzionario avanza costituendo forme embrionali di potere locale. Sviluppare un forte movimento antimperialista capace di coinvolgere tutte le forze democratiche e progressiste del paese. La deriva autoritaria è inevitabile, per cui occorre una strategia unitaria. Formare l’Esercito del Popolo in grado di contendere il predominio del nemico.” (Morlacchi)

La differenza con Spagna, Cina e Vietnam invece c’è. E consiste in un particolare non di secondo piano: l’adesione fattiva delle popolazioni, la penetrazione dell’esercito rivoluzionario. La guerriglia rurale non attecchisce a fondo nel Tucumàn, pur essendo questa la regione di provenienza dei Santucho, il luogo dove è sorto il FRIP.

Per di più il rapporto coi lavoratori dello zucchero, pur non essendosi interrotto, non è quello di dieci anni addietro.   

Confidando sull’avere alle spalle la Bolivia come via di ritirata, sempre nell’agosto del ’74, la “Compagnia del Monte Ramòn Rosa Jimenez” compie la disastrosa azione di Catamarca, che costa la fucilazione da parte dell’esercito di 14 guerriglieri, sui 40 (!!!) impiegati. Come rappresaglia, la guerriglia giustizia nove ufficiali.

Così, nelle prime settimane del ’75, da Buenos Aires giungono migliaia di soldati per attuare l’opera di annientamento. Che riesce, senza dover impegnare la truppa in lunghe e snervanti ricerche sui monti. Basta individuare e isolare familiari e simpatizzanti dei guerriglieri, compiere arresti e torture, incentivare alla delazione. I militari attuano sparizioni e uccisioni sommarie e, per sovrabbondanza, il bombardamento dei villaggi. Una volta costretta ad uscire allo scoperto, la guerriglia viene circondata e rapidamente annientata.

Sempre nel Tucumàn, base operativa della guerriglia targata PRT/ERP, avviene nel dicembre del ‘75 l’episodio clou, ritenuto da Camillo Robertini (“A vencer o morir”, intervista a Cacho Narzole – Diacronie n.15, 3/2013) “la principale battaglia della guerriglia in America Latina”, quella del Monte Chingolo, costata la vita a ben settanta guerriglieri sui cento che conducono l’assalto a una caserma dell’esercito. La linea di uno dei fondatori del partito, Luis Mattini (“mai negoziare, mai retrocedere”) è puro suicidio, frutto di un volontarismo esasperato e del mito dell’offensiva permanente.

Da quel momento in poi lo Stato si dedicherà ad estirpare la guerriglia urbana modello Tupamaros.

In sostanza in Argentina l’opzione guerrigliera di tipo rurale non ha il fiato necessario.

Il contadino tucumano lavora la canna da zucchero in condizioni di semischiavitù, conosce la miseria e l’oppressione, ma non attraversa l’esperienza di grandi lotte collettive.

Cerca sì di organizzarsi in Leghe, ma non ha una storia recente a cui richiamarsi. Non ha un riferimento politico “autorevole”, che lo mobiliti dandogli una prospettiva raggiungibile. Aspira alla terra, ma non sa cosa sia una guerra contadina. L’indipendenza nazionale è per lui un evento remoto (datato mezzo secolo e mezzo) che tra l’altro non lo ha visto partecipe. Considera un privilegiato l’operaio degli zuccherifici.

Il contadino tucumano non è il campesino spagnolo del ’36, addestrato alla guerra di classe e al collettivismo da un radicale e influente sindacalismo anarchico. Non è il contadino cinese, chiamato da Mao Zedong, con la “lunga marcia” (’36-’37), alla lotta di liberazione nazionale contro il Giappone e contro la sottomissione coloniale del paese. Non è, infine, neppure il vietcong inquadrato in un esercito nazionale reduce dall’aver messo in fuga gli imperialisti francesi a Dien Bien Phu (1954).

Ogni classe esiste in quanto tale e può aspirare ad avere un ruolo nella storia solo nella misura in cui è capace di costruire una sua storia. La celebre frase di Marx che apre “Il Manifesto del Partito Comunista” per cui “la storia fin’ ora esistita è storia di lotte di classi”, può essere al meglio interpretata qualora si tenga presente che ogni classe è misurata anche in base alla “sua” storia.

Il dirigente comunista che non tiene debitamente conto di ciò è spinto a compiere clamorosi e decisivi errori di valutazione nella lotta politica. Errori che possono variare dall’attesismo meccanicista al volontarismo avventurista. Sfasando comunque il dato reale della sua classe di riferimento (che è il proletariato, non il “popolo”) e il calcolo dei rapporti di forza. Ergo la scelta degli obbiettivi da perseguire e dei metodi di lotta da adottare.

Sul fronte operaio il PRT/ERP abbina la sua partecipazione alle vertenze coi colpi di mano e gli attentati. “Si mette a fianco delle lotte, senza prevaricare” (Morlacchi); non disdegnando però al contempo, come abbiamo visto, azioni di sequestro di dirigenti aziendali che hanno l’effetto – comunque vadano a finire – di mettere in secondo piano (e di penalizzare) la mobilitazione dei lavoratori

Sembra di intravedere in un atteggiamento del genere una sorta di rapporto strumentale con la classe operaia; poco attento a raggruppare in essa una base materiale di massa attraverso cui preparare la lotta decisiva.

Se l’obbiettivo è in fondo “nazional-populista” (popolo contro dittatura; “a vencer o morir por la Argentina” è ilmotto di partito) prevale necessariamente la logica di buttare tutto nel calderone dell’”insorgenza”. Poi come viene, viene…Avventurismo politico fa rima con pressappochismo.

Certo anche il PRT/ERP ha i suoi quadri operai e la sua influenza. Degli zuccherifici tucumani abbiamo detto. Qui opera il FOTIA, sindacato dello zucchero (“Federaciòn Tucumana de la Industria del Azùcar), guidato dal già citato Leandro Fote (prima FRIP, poi PRT). C’è Negrito Fernàndez, capo operaio, membro della Direzione del partito, che sarà trucidato dai militari. Non secondario il ruolo di Augustin Tosco, segretario del sindacato “Luz y Fuerza”. Egli, pur non aderendo apertamente al PRT/ERP, fa da anello di congiunzione tra il partito ed i lavoratori. C’è inoltre da ricordare la fondazione dell’MSB (Movimento Sindacale di Base).

Il partito cerca di svolgere un ruolo nella grande lotta operaia di Villa Constituciòn (’74-’75), di cui ci occuperemo, con esiti però alquanto controversi. Morlacchi parla improvvidamente di “saldatura operai/guerriglia per la presa del potere” (!!!). Qualche consenso in tale direzione il PRT/ERP sembra ottenerlo, e le ragioni abbiamo cercato di individuarle, ma parlare di “saldatura” è ben altra cosa.

In compenso il partito, continua Morlacchi, pur non intendendo “sovra-determinare le rivendicazioni operaie orientandole” (?) “si limita a partecipare alla vertenza (nel mentre) militarizza i picchetti, compie attentati e assalta le caserme dell’esercito”

In conclusione: il PRT/ERP, pur pagando duramente le conseguenze della sua scelta “interventista” nel moto popolare di quegli anni, e rappresentando comunque la formazione più influente della sinistra estrema, non è in grado di valorizzare l’enorme potenziale di lotta messo in campo dal proletariato argentino.

POLITICA OBRERA

L’alternativa a sinistra del PRT/ERP è costituita da “Polìtica Obrera” (P.O.), la precorritrice dell’attuale Partido Obrero.

O. Coggiola riprende il filo della nascita di P.O. evidenziando come i suoi aderenti siano compagni “giovanissimi”, tra i 18 ed i 22 anni. Il fondatore, Jorge Altamira, ha appunto solo 22 anni. L’organizzazione, che si definisce “trotskysta-leninista”, entra da subito (1964) in dura polemica verso il “trotskysmo astratto” allora imperante nella sinistra rivoluzionaria, un trotskysmo “senza programma e senza strutturazione dei quadri e del partito.” (Op. cit.)

Nel far questo, P.O. non risparmia attacchi al “morenismo”, capitolardo nei confronti di Perón e del peronismo, ed a qualunque posizione illusoria su maoismo e fochismo. Poggiando tali basi, nel ’65 respinge la proposta di ingresso nel PRT proveniente direttamente da R. Santucho.

P.O. vede positivamente la nascita dell’OLAS, ma ritiene che vada indirizzata verso la lotta operaia e contadina, non verso l’indipendenza nazionale degli Stati borghesi. E’ critica verso la IV° Internazionale, caratterizzata dalle sue giravolte, dal correntismo, dalla sua indeterminatezza politica.

Fonda la sua attività su un intervento sistematico nella classe operaia. Tale intervento consiste “nella vendita dei suoi materiali alle porte delle fabbriche, nelle lunghe analisi dei conflitti industriali, nell’azione sindacale tesa alla costituzione di un fronte unico “elementare.” (Di classe, sindacale e non. NDR)

Trattasi di intervento attivo, non puramente propagandistico. Già dal 1966 P.O. partecipa a un lungo sciopero dei portuali, assumendo ruoli di direzione.

Ma tale propensione interventista sulla classe si scontra presto con i limiti dovuti alla provenienza intellettuale del suo gruppo originario. Questo infatti era sorto da un assiemaggio di gruppi politici come “Vanguardia Revolucionaria” (frazione uscita del PCA su posizione fochiste, poi confluita parzialmente in P.O.), PSAV (Partido Socialista Argentino de Vanguardia, reclutato in particolare nei suoi settori studenteschi), Bahìa Blanca (militanti cattolici di sinistra, da cui escono quadri dirigenti di primo piano come Marcelo Martìn e Christian Rath).

Il partito cresce, ma sono pochi gli operai che durano nell’organizzazione.

Nel ’67, dopo il golpe di Onganìa, vengono così varate le “Tesi sulla proletarizzazione”; che non riguardano però la dinamica delle classi sociali ma la precisa indicazione del partito di immettere direttamente gli studenti in fabbrica, come “scuola politica”.

La decisione avrà tra le altre cose l’effetto di spostare quadri del PRT/El Combatiente (Santucho) verso P.O., pure a livello dirigenziale.

Sembra la quadratura del cerchio, ma il pericolo di scivolamento verso il “sindacalismo” è reale e ben individuato appena qualche anno dopo, nel 1971. Scrive infatti P.O. in quell’anno:

“Fu (l’immissione degli studenti in fabbrica, NDR) una conquista straordinaria. L’organizzazione si struttura sulla base del rivoluzionarismo di professione, si lega alla lotta del proletariato, interviene nei sindacati, fa un enorme apprendistato nella partecipazione alle lotte di massa MA non può dar luogo alla formazione di dirigenti operai e al reclutamento e assimilazione di quadri di origine operaia, se non è inserita in una formazione basata sul programma e sulla lotta per la ricostruzione della IV Internazionale…il programma forma i quadri…se la lotta non è chiaramente per il programma, la proletarizzazione devia verso il sindacalismo…non è una panacea, ma uno strumento per la penetrazione del programma tra le masse come modo di costruzione del partito.(Ibidem)

A scanso di equivoci, qui per “programma” non si intendono solo i principi del comunismo ed i “tracciati d’impostazione”, ma la strategia politica di partito. E cioè: cosa e come perseguire politicamente nel medio-lungo termine. Come formulare obbiettivi di fase che possano legare le masse al partito.

Nel ’69, col Cordobazo, P.O. applicherà in modo adeguato tale deliberazione, cercando di prendere la testa del movimento e formulando parole d’ordine come: “Comitati di fabbrica, di quartiere e di barricata”, “Governo provvisorio operaio e popolare”, “via lo stato d’emergenza e la dittatura”, “armamento dei lavoratori, degli studenti e del popolo”, “sciopero generale nazionale”.

Si tratta non solo di abbattere la dittatura (cosa necessaria, epperò insufficiente a dare una svolta), ma di “imporre un governo operaio e popolare che espropri i monopoli e conduca a una Assemblea Costituente”. (“El Cordobazo y el Partido Obrero”, cit.)

Si tratta di preparare – dunque – le condizioni affinché, nella lotta politica successiva alla detronizzazione della dittatura e dei militari, nonché alla sconfitta della borghesia, possa emergere e affermarsi concretamente, passo dopo passo, con tempistiche e dinamiche proprie,il percorso verso quella dittatura del proletariato inscritta nel programma dei comunisti.

Non vi è traccia di avventurismo in posizioni del genere, e neppure la presunzione di fare quelli che “si accontentano di stilare per bene il compitino”, come P.O. venne apostrofata da chi credeva che la rivoluzione stesse altrove…

Certo, secondo noi la situazione non è ancora pienamente rivoluzionaria come credono i compagni della P.O.

Insurrezionale sì, ma non propriamente matura per lo sbocco rivoluzionario. Tenuto conto in primo luogo della situazione internazionale, che vediamo in maniera meno “ottimistica”.

E tenuto pure conto come, dopo il Cordobazo, non vi fu purtroppo un “Argentinazo”… 

Comunque, già dal ’67 la linea dell’andata alle fabbriche non impedisce a P.O., sull’onda della protesta studentesca, la costruzione della TERS (“Tendencia Estudiantil Revolucionaria Socialista”), che fornisce appunto i quadri per la “proletarizzazione”.

Notare come proprio dalla TERS uscirà Nestor Pitrola, poi segretario generale aggiunto del “Sindicato Gràfico”, fondatore del Polo Obrero e attuale dirigente del Partido Obrero.

Sottolineando come il Cordobazo “non fu spontaneo” ma adeguatamente preparato da scioperi, assemblee e mobilitazioni di fabbrica a Còrdoba e dintorni, proprio Pitrola ci dà l’immagine di una P.O. tesa a costruire il partito rivoluzionario nelle lotte ma non strettamente dipendente da esse. Un partito fondato sui seguenti capisaldi:

1) indipendenza di classe; 2) critica al nazionalismo; 3) internazionalismo proletario.                      

Un partito decisamente contrario alle burocrazie sindacali, al punto da formare in prima persona Gruppi Operai in grado di condurre direttamente le trattative e le lotte, “scavalcando” i vertici della CGT, della UOM ecc. Vedi “Vanguardia Metalurgica”, sorta nel ’67, oppure “Trinchera Texìl” (’68), il Comitato P.O. di Còrdoba raggruppato attorno a “Vanguardia Obrera Mecànica”, molto attivo nelle giornate del Cordobazo, insieme al gruppo sindacale delle Costruzioni di Bahìa, coadiuvato da “Avanzata de Telefònicos”, per non parlare dei Centri di attivisti in sciopero presenti alla Citroen, alla Good Year, alla GM S. Martin…

Scrive Coggiola: “Il nucleo originario (di P.O., NDR), inferiore a una decina di membri, era andato controcorrente rispetto all’orientamento di quasi tutta la sinistra, arrivando ad essere inserito nei principali centri operai del paese e con un’organizzazione di alcune centinaia di militanti.” (Op. cit.)

Un lavoro controcorrente che alla lunga, solo alla lunga, pagherà il conto. Sul momento però P.O. non riesce a capitalizzare l’ondata proletaria che si prolunga ben oltre il Cordobazo, seppur in un clima politico sempre più polarizzato dal dilemma “peronismo contro anti-peronismo”. Questo è un dato obbiettivo che va rilevato, considerando anche che i compagni di P.O. preconizzano forse troppo anticipatamente “la decomposizione storica della CGT e della burocrazia peronista”.

Non era evidentemente ancora il momento per poter affondare i colpi approfittando di tale “decomposizione”, anche alla luce di due problemi che pesano non poco: 1) la giovane età del partito (ed è veramente notevole come esso sia comunque riuscito a darsi simili coordinate di fondo, pienamente classiste); 2) la situazione disastrata della IV° Internazionale. La quale, invece di fungere da guida diventa piuttosto un freno (e che freno!) rispetto all’attività rivoluzionaria dei compagni argentini.

“RODRIGAZO” E VILLA CONSTITUCION

Il 1° luglio 1974 muore Perón. La presidenza passa a Isabelita, coadiuvata dal famigerato Lòpez Rega. Il nuovo ministro dell’Economia è Alfredo Gòmez Morales, il quale dà subito il segnale di una decisa svolta in senso liberista: rigido controllo sulla spesa pubblica e sull’emissione di moneta, aumento generalizzato dei prezzi, no alla svalutazione del tasso di cambio. La pressione del FMI sull’economia argentina si fa più pressante. La crisi petrolifera “esige” che si vada a chiedere conto alle borghesie nazionali debitrici.

Non “pacificandosi” le tensioni interne, nell’aprile del ’75 Celestino Rodrigo (uomo di Lòpez Rega) prende il posto di Morales e il 4 giugno schiaccia sull’acceleratore: liquida il “Patto Sociale” di Càmpora, liberalizza i mercati, apre ulteriormente al capitale estero, svaluta la moneta oltre il 100%, aumenta con una percentuale maggiore le tariffe pubbliche e il prezzo dei combustibili (la benzina del 180%). Conseguentemente l’inflazione schizzerà al 500% e il deficit statale al 40%. Vengono parimenti fissati i tetti salariali.

Un enorme salasso, gravante sulla popolazione e in particolare sui salariati. La manovra passerà alla storia col cognome del suo autore: “il Rodrigazo”.

J. Corradi (Op. cit.) ritiene che il problema argentino consista nell’incapacità degli “attori sociali” di trovare un “centro unificante” in grado di frenare il degrado politico, il declino frenetico verso cui ci si va incamminando. E ne deduce che in Argentina “non si possa parlare di classe dominante, bensì di una pluralità più ampia di gruppi ristretti…senza regole comunemente accettate”.

Pur non negando il gioco particolaristico delle frazioni della classe dominante, con la loro logica di sfruttamento, riteniamo che alla base di tutto vi sia il rapporto di dipendenza che lega la borghesia argentina all’imperialismo mondiale. In primis quello statunitense. Rapporto che proprio negli anni dei quali ci stiamo occupando va dispiegando tutti i suoi perversi e devastanti aspetti.

Tornando addentro agli avvenimenti, la risposta proletaria al suddetto salasso non si fa attendere. Già nel novembre del ’74 ci si trova davanti a una nuova radicalizzazione del proletariato di fabbrica (Diez). La realtà che calamita l’attenzione di tutti è quella del complesso dell’industria pesante di Villa Constituciòn.

La cittadina sorge vicino a Santa Fé, nella zona nord-orientale del paese. E’ un’area dove sono presenti importanti fabbriche metallurgiche come Acindar, Marathon, Metcon, che impiegano circa 6.000 operai. Le condizioni di lavoro sono pesantissime. Gli orari arrivano anche alle 12 ore giornaliere. Dilagano gli infortuni. Mancano i servizi essenziali.

A seguito di una elezione di delegati combattivi non riconosciuta da azienda e vertici sindacali, i lavoratori entrano in sciopero. Da notare la motivazione dello sciopero, chiaramente politica. Sarebbe come se oggi in Italia, ad esempio, i lavoratori Stellantis o Fincantieri lottassero – duramente e collettivamente – per abrogare il famigerato Accordo Interconfederale sulla Rappresentanza, firmato nel 2014 da padronato e Triplice sindacale.

Lo sciopero di Villa Constituciòn è sostenuto da tutta la popolazione, che solidarizza in mille modi. Si formano dappertutto Comitati di sostegno, un Comitato di lotta e una Assemblea permanente dei lavoratori aperta a delegati di altre fabbriche, esponenti politici, solidali, cittadini. La Acindar, cuore dello scontro, è occupata. Si indicono manifestazioni che vedono la partecipazione di migliaia di operai, molti accorsi da altre fabbriche. 

Finalmente, nel marzo del ’74, gli scioperanti la spuntano: i loro rappresentati vengono riconosciuti. La lotta ha vinto (“El premiero Villazo”), ed ha potenziale “espansivo”. L’esempio può cioè irradiarsi e rafforzare il fronte proletario già messo in moto contro la svolta a destra del governo Perón.

Occorre tener presente che dal ‘70 in fabbrica si è formato il GODA (Grupo Obrero de Acindar), oltre al GOCA (Gruppo Lavoratori Combattivi Acindar, clandestino), al MRS (Movimento di Recupero Sindacale, semiclandestino) e al MM7 (Movimento Metallurgico 7 settembre, “ampio e legale”), proiettato però elettoralmente verso la “rivincita peronista”. Tant’è che ne faranno parte esponenti della sinistra peronista, del PST (il partito di Moreno sorto nel ’72 dopo la scissione col PRT), del PCA, del PRT ed altri raggruppamenti.

Tutto questo per dire come nel movimento operaio, ancora in ascesa, la situazione politica fosse estremamente fluida, aperta a diverse opzioni, seppur contraddittoriamente incanalata nell’equivoco peronista. Tendenze “militariste” potevano allignarsi dappertutto, non essendo peraltro di per sé segno di radicalizzazione politica, e tanto meno di sedimentazione di istanze rivoluzionarie nella classe. Anche se paradigmatiche del clima che abbiamo più volte richiamato.

A Villa Constituciòn, su una base di lotta operaia ampia e radicale, coesistono così tendenze politiche riformiste di sinistra (Moreno, nella figura del leader operaio UOM Alberto José Piccinini) con quelle “petardiste” della Juventud Peronista (JTP), del PRT/ERP e simili. Rimanendo comunque “la sinistra peronista dominante nel movimento operaio” e dunque “la difficoltà a dare la svolta socialista alla situazione rivoluzionaria UOM di Villa Constituciòn…pur presenti in essa decine di migliaia di delegati combattivi e antiburocratici.” (Luis Oviedo,“El Cordobazo”, cit.)

Fatto è che il governo, soprattutto dopo la scomparsa di Perón, la virata di politica economica e le pressioni di Washington, non può più tollerare una tale situazione.

Così il 20/3/’75 Isabel Perón e L. Rega lanciano la feroce repressione contro Villa Constituciòn, denominata “Operazione Serpente Rosso del Paranà”.

All’alba, più di 4.000 poliziotti, ufficiali e aderenti alla Tre A. fanno irruzione in fabbrica e nei quartieri dando la caccia al “rosso”. Si distrugge tutto ciò che si trova, si terrorizzano le famiglie, si incarcera, si tortura, si ammazza. La direzione Acindar collabora diligentemente fornendo alla sbirraglia le liste dei “sovversivi” e pure una struttura di detenzione (e di esecuzioni sommarie) all’interno dello stabilimento.

Da segnalare come il direttore dell’azienda sia un certo Martìnez De Hoz, che diventerà ministro dell’Economia nel governo militare dopo il golpe del ’76…              

Si contano decine di morti operai (il numero è imprecisato), in prevalenza militanti, gran parte dei quali fatti “sparire” nel nulla dopo la cattura. Più di cento gli arrestati. E’ l’anticipazione della mattanza successiva algolpedel marzo ’76, la prova generale, il “modello”.

Ma l’effetto di questa brutale repressione è esattamente opposto a quanto pensato dal governo. Come risposta, tutte le fabbriche della zona scioperano, da marzo a maggio 1975, per ben 59 giorni! Si chiede la fine dello stato d’assedio in cui è tenta un’intera città operaia e il rilascio dei prigionieri politici. Aderiscono alla protesta lavoratori di altri settori e pure i negozianti. Avvengono ripetuti scontri tra scioperanti e le squadracce delle Tre A.

La lotta cessa per esaurimento delle forze (maggio ’75). E anche perché nel paese si è scatenata la repressione antiguerriglia che diffonde tra le masse la depressione e il terrore.

DALLO SCIOPERO GENERALE ALL’ATTACCO FINALE

Il ’75 vede sferrare l’attacco massiccio del governo alla guerriglia, anche in relazione al fatto del dilagare di questa dai monti ai centri urbani. E’ più che altro uno stillicidio di agguanti e di esecuzioni, dove non si fanno prigionieri. E qualora si facciano, difficilmente rimangono in vita.

Diez, che ha partecipato direttamente alla guerriglia nelle file del PRT/ERP, per poi finire in esilio, racconta di un “terrorismo esibito…corpi in strada crivellati di colpi e con le mani legate…Più vittime legate tra di loro e fatte esplodere…”  Mentre dalla sponda delle Tre A  “nessuna perdita, nessun arresto, impunità assoluta e centinaia di vittime”. (Op. cit.)

Isabel Perón assegna all’esercito il compito di combattere la guerriglia. La polizia è messa sotto il comando diretto dei militari. Il giudizio di “terroristi” e “sovversivi” è assegnato alle Corti Marziali.

La più colpita dalle forze governative e dalla Tre A è la guerriglia peronista, che è anche quella più numerosa e ramificata. Oltre ai Montoneros vi sono ad esempio le FAP (Fuerzas Armadas Peronistas), fondate nel ’73. Nell’ottobre dell’anno successivo queste entreranno nell’ERP, in opposizione alla parlamentarizzazione di parte dei Montoneros. Tale approdo parlamentare sfocerà nel P.A. (Partido Autentico), costituito per formare una struttura parallela al peronismo istituzionale. A ulteriore dimostrazione della natura “doppia” del movimento.

Ad ogni modo, tanto per rendere meglio l’idea delle proporzioni, Diez calcola come dal luglio ’74 all’agosto del ’75 si avrebbe il massimo della “concentrazione di fuoco”, con 860 scontri e/o attentati, costati 503 vittime, di cui ben 377 provenienti dai militanti di sinistra e dal peronismo. Novaro (Op. cit.) nel solo periodo di tre mesi (dicembre ‘75/febbraio ’76 compreso) calcola 256 vittime. Sia prima che dopo il picco che stiamo descrivendo il livello dello scontro – dal ’73 al ’76 – non si discosta di molto da queste crude cifre.

Il PRT/ERP, sconfitto sulle montagne del Tùcuman a fine ’75, sarà decapitato nel ’76, poco dopo il golpe. Il 19 luglio, sorpreso in un appartamento, viene sterminato dalla polizia l’intero suo Stato Maggiore.

Ma, come già abbiamo sottolineato, la sconfitta della guerriglia non è né anteriore né posteriore alla lotta e alla mobilitazione operaia.

Pur non essendoci un filo diretto tra di lotta operaia e guerriglia, va rilevato come una rapida parabola discendente (frutto della repressione ma non solo) le accomuni.

Certo, l’effetto depressivo e disorganizzante del fochismo è innegabile. Ma va considerato non da meno il fatto che non esiste, non può esistere un movimento – radicale quanto si vuole – che possa rimanere indefinitamente “all’attacco”, senza rendersi attore di uno sbocco politico che lo gratifichi. E ci sembra francamente un errore di valutazione credere che il Cordobazo potesse – di per sé – innescare un moto irrefrenabile dal punto di vista della coscienza e dell’organizzazione politica della classe. Un moto in grado di travolgere tutta l’impalcatura di sfruttamento.

Un processo del genere non maturerà neppure dopo la grande lotta di Villa Constituciòn, che pur prepara per molti aspetti l’imponente sciopero generale del luglio 1975 contro il “Rodrigazo”. Il primo sciopero generale contro un governo peronista!

Ancora una volta si muovono le grandi fabbriche, coinvolgendo stavolta pesantemente la Grande Buenos Aires proletaria, la zona de La Plata, oltre alla solita Còrdoba, per non dire le città di Rosario, di Santa Fé…

Già dal 16 giugno ‘75 la Ford e altri stabilimenti di Còrdoba vengono occupati. Il 27 giugno sono decine di migliaia i lavoratori che riempiono Plaza de Mayo, chiedendo il ritiro del “Rodrigazo” e le dimissioni del duo Lòpez Rega e Celestino Rodrigo.

Notare: non le dimissioni di Isabel Perón e la caduta dell’intero governo…

Il motivo sta nella mediazione di cui i vertici CGT e UOM si rendono partecipi, insieme alla JTP. Cercano un compromesso “ragionevole”, che riduca l’impatto della manovra senza metterne in discussione l’impianto. Si vuole salvaguardare il governo.

La presidente propone ai sindacati di stabilire un tetto salariale che arrivi ad aumenti del 50%. La risposta operaia è un secco rifiuto: via ogni tetto, vogliamo aumenti del 150%!

Ogni mediazione è travolta. La pressione della base sui vertici sindacali è fortissima, lo scavalcamento delle burocrazie evidente. Come è possibile che tutto ciò accada?

Il punto è che possono dispiegare il loro potere coagulante i cosiddetti “Coordinatori Interfabbrica”, sorti dalle lotte precedenti, i quali sono in grado di muovere circa 130mila lavoratori e 129 Commissioni Interne, per non dire i vari organi di delegati. Una grossa fetta di proletariato organizzato, da cui emergono le numerose e combattive, seppur multiformi, “avanguardie di classe”.

Dimodoché il 7-8 luglio ’75 il governo peronista è investito dallo sciopero generale nazionale, stavolta proclamato dalla CGT. La mobilitazione è vincente: Rodrigo è costretto alle dimissioni, mentre Rega deve non solo dimettersi ma fuggire precipitosamente dal paese!

Peronismo governativo impotente, massa operaia incontrollabile, saltate tutte le mediazioni…A chiusura dell’anno 1975 in Argentina si conta un numero di scioperi maggiore di quanti ne siano avvenuti in America Latina in tutto il decennio precedente!

La classe dominante, colpita ma non affondata, prepara la rivincita tornando rapidamente ai vecchi amori: i militari.

Poco dopo, Isabel Perón si dimette dalla carica “per motivi di salute” e viene relegata in una colonia dell’Aeronautica Militare di Còrdoba. Il presidente del Senato Italo Luder ne prende provvisoriamente il posto. Le FFAA accumulano più poteri, varando anche un “Consiglio di Difesa Nazionale”. In ottobre, Isabel ritorna, proprio in coincidenza con la XI° Conferenza degli eserciti americani. La Bestia è alla porta.

Per Vincent Bevins (“Il metodo Giacarta”, Einaudi -2021) non è esatto parlare di “guerra sporca”. E’ troppo poco. Non “guerra sporca” ma sterminio.       

Navigazione serieArgentina (8) – Il nuovo protagonismo del proletariato argentino tra scioperi, insorgenze e guerriglia (1960-’75) >>