- Argentina (9) – IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-’75) – Parte terza. Dalla rielezione di Perón alla vigilia del colpo di Stato
- Argentina (8) – Il nuovo protagonismo del proletariato argentino tra scioperi, insorgenze e guerriglia (1960-’75)
- Argentina (7) IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-1975)
- Argentina (6) – L’ARGENTINA DI ONGANIA: I RETROTERRA DI UNA CRISI
- Argentina (5) – “REVOLUCION LIBERTADORA”
- Argentina (4) – LA CADUTA DI PERON
- Argentina (3) – IL REGIME PERONISTA
- Argentina (2) – L’ASCESA DI PERON
- Argentina (1) – L’ARGENTINA PRIMA DI PERON
Il nuovo protagonismo del proletariato argentino tra scioperi, insorgenze e guerriglia (1960-’75)
Parte seconda. Ascesa e sconfitta del movimento rivoluzionario. Dal Cordobazo al ritorno di Perón.
Gli avvenimenti legati al “Cordobazo” (maggio 1969), con cui abbiamo chiuso il precedente articolo, ci inducono a soffermarci su di esso in quanto, per molti aspetti, trattasi dell’apertura di una fase di lotta operaia ad alto contenuto politico, di tipo pre-insurrezionale.
Il Partido Obrero, una corrente “leninista- trotskysta” nata nel 1964 col nome di “Política Obrera”, ha pubblicato, in occasione del 50° anniversario dell’insurrezione, un numero monografico in cui il Cordobazo, secondo questi compagni, fa da spartiacque tra una fase di ripresa delle lotte ed una di esplosione (“El Cordobazo y el Partido Obrero).
Nel senso che esso aprirebbe un periodo di “ascesa operaia e rivoluzionaria”, con le masse protagoniste, frenato di lì a poco dalla deriva elettoralistica peronista e, in contemporanea, da quella avventurista e militarista dei peronisti stessi e di alcuni raggruppamenti della sinistra rivoluzionaria (come il PRT-ERP).
E’ una tesi importante, che apre un preciso spaccato nella valutazione storico-politica di quegli anni cruciali. Una tesi che va certamente discussa, cercando – per quanto ci è possibile – di indagare le dinamiche sociali e politiche nella loro complessità e multidimensionalità.
La tesi è sostenuta già allora da compagni (Jorge Altamira, Marcelo Martìn, J.C. Rath) molto attivi nel “Cordobazo”; capaci di contrastare i cedimenti e gli opportunismi della CGT e di portare sulle barricate parole d’ordine classiste come: “Governo operaio e popolare! Immediato disarmo di tutte le forze repressive, armamento di tutti i lavoratori, studenti e popolazione! Sciopero generale! Abbattimento rivoluzionario della dittatura!” (Comunicato n.1, 29 maggio 1969).
Premessa fondamentale per esprimere una valutazione a 55 anni di distanza è la consapevolezza che congiuntamente imperialismo yankee e borghesia nazionale, ben prima di questi avvenimenti, avevano deciso di liquidare fisicamente ben due generazioni di militanti operai.
Il richiamo obbligato è alla cosiddetta “Dottrina della Sicurezza Nazionale” (DSN) elaborata tra gli anni ’50 e ’60 da vari governi dell’imperialismo occidentale, sulla quale lo stesso Onganìa svolge nel ’64 una relazione all’Accademia Militare di West Point. Obbiettivo: prepararsi a sterminare i “rossi”, comunque si manifestino.
Inoltre i due fenomeni (quello del movimento di massa e della guerriglia), nel loro dipanarsi, non appaiono sempre così nettamente separati tra loro, o contrapposti. Almeno fino al ritorno di Perón e alla successiva “svolta” reazionaria dopo il breve interregno di Càmpora (maggio-luglio ’73).
A volte essi si intersecano e si influenzano a vicenda dentro una situazione generale in cui la borghesia argentina, pur in affanno, non perde però l’iniziativa politica.
Ciò che manca, sul terreno della lotta proletaria, è fondamentalmente una sintesi politica adeguata, un rapporto corretto tra lotta politica e autodifesa militare, dal momento che siamo in assenza di una direzione politica rivoluzionaria egemone a livello nazionale tra le masse sfruttate.
Una simile configurazione della realtà sul versante della soggettività rivoluzionaria non è di certo imputabile ai soli compagni argentini in tale contingenza, dal momento che storicamente corrisponde – purtroppo – allo stato di tutto il movimento comunista internazionale… quasi mai adeguatamente attrezzato di fronte agli snodi focali della lotta di classe.
Cercheremo di supportare questa nostra valutazione nel corso della ricostruzione, anche cronologica (seppur sommaria) dei fatti caratterizzanti il periodo che si apre nel ’69.
Il movimento, nelle sue varie espressioni, verrà spazzato via da una feroce reazione borghese, ancor prima del “repulisti generale” attuato col Golpe del 1976.
Raúl Zibechi (“Genealogia della rivolta”, Luca Sossella Editore -2003) parla esplicitamente di “genocidio” (“eliminare la militanza operaia nelle grandi fabbriche”). A cui si aggiunge il genocidio di una leva studentesca che già dalla metà degli anni ’60 ha rotto gli argini.
ONGANIA TRAVOLTO DALL’ONDA PROLETARIA
La CGT peronista è un sindacato verticista e burocratizzato, colluso coi “poteri forti” (FFAA comprese), radicato negli Enti locali e nel parastato, ma deve fare i conti con due generazioni di proletari “allenate” alla lotta e persino alla clandestinità. Le quali si sono trasmesse la tradizione della militanza, creando organismi di fabbrica e sindacati indipendenti e alternativi alla Centrale. Lo abbiamo visto con la scissione del 1968, dove nasce la CGTA (Raimundo Ongaro). Questo va detto; seppur sia Ongaro, sia il già citato Augustìn Tosco (leader del sindacato Luz y Fuerza) non siano immuni, proprio nei giorni del “Cordobazo”, da scivolamenti e compromissioni.
Le lotte di fabbrica, oltre che dai novelli “Comitati”, sono spesso capeggiate da “Coordinamenti Interindustriali”, composti da Commissioni Interne e gruppi di delegati delle grandi fabbriche, in particolare delle industrie dell’auto (di cui Córdoba è la capitale).
Tali Coordinamenti sono organismi di vecchia data, nati nell’ottobre del 1943, quando la CGT aveva esitato a lanciare la grande mobilitazione pro-Perón.
Sempre Zibechi (Op. cit.) sottolinea come le agitazioni operaie del ’69, guidate dai lavoratori dell’auto, della metallurgia e della petrolchimica, vedano le sedi sindacali “circondate dai manifestanti per fare pressione”. Il fenomeno rende l’idea del clima sociale e del grado di partecipazione presenti in quel frangente.
Certo, il rapporto dei vertici CGT con la base operaia non va visto staticamente e in modo romantico. Fornendo opportunità di promozione sociale e carriere la CGT ha nei decenni “assimilato” quote non indifferenti di quadri sindacali, i quali intralciano con competenza le lotte dal di dentro, costituendo inoltre squadre di sicari da usare alla bisogna contro gli oppositori.
Scrive Richard Gillespie (“Soldados de Perón”, 1987): “I caporioni dei sindacati degli anni ’60 e ’70 furono, in molti casi, militanti che negli anni ’50 avevano guidato la lotta per il rilancio della CGT… Una volta giunti ad occupare posti chiave, molti di quei leader ricorsero alla proscrizione delle liste dell’opposizione, a brogli elettorali, e addirittura a un gangsterismo sindacale sullo stile degli Stati Uniti (*). Molti di loro accumularono enormi fortune e tutti erano decisamente anticomunisti.”
L’uccisione del segretario collaborazionista della CGT Augusto Vandor (giugno ’69) si colloca in una situazione dove cominciano a saltare tutte le mediazioni e dove si ritiene prossima la resa dei conti. Ormai è scontro aperto tra la parte più attiva del proletariato, le sue numerosissime “avanguardie” e il governo militare supportato delle forze repressive statali.
Si apre un’era caratterizzata da un’alta inflazione di lunga durata. In cui i governi borghesi cercheranno di “diluire” i conflitti…alimentando l’inflazione! Oppure scaricando sulla società il crescente deficit fiscale. E’ un circolo vizioso che delineerà il futuro del capitalismo argentino.
Anche uno storico “allineato” come Marcos Novaro (Op. cit.) deve ammettere che “la progressiva dollarizzazione dell’economia rafforza i settori più potenti, ma aggrava il quadro generale”.
Il ministro dell’Economia Krieger Vasena (**) è sostituito da Dagnino Pastore, considerato un “neo-corporativo”. Questi punta su un (pur parziale) ritiro dei capitali esteri e sulla brusca riduzione delle riserve valutarie. Viene inoltre ristabilita la contrattazione collettiva e sbloccati i fondi sindacali… ma è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. La CGT è stata ormai scavalcata dalla lotta di massa e non funge più da controllo sociale.
Onganía dal canto suo “cerca di recuperare il proprio progetto di corporativizzazione, ma preoccupa gli investitori esteri e pone le basi per il disordine finanziario futuro. (F. Silvestri, Op. cit.)
Si ripresenta, dentro una realtà sociale diventata però incandescente, la politica dello “stop and go” già vista col governo golpista del generale Aramburu (’55-’58, vedi articolo n.5).
E cioè: da un lato pugno di ferro verso il movimento operaio e liberismo in economia. Dall’altro “corporativizzazione” della società, clericalismo, nazionalismo, protezionismo (le FFAA sono partecipi degli affari delle aziende pubbliche).
Se tutto ciò è sostenibile, a fatica, in una situazione espansiva e non particolarmente tesa per l’America Latina (anni ’40 e ’50), quando il quadro viene a modificarsi radicalmente (anni ’60 e ’70) il tappo “salta”.
Tra l’altro, ora la novità è che “i giovani delle classi medie si affacciano alla politica utilizzando il peronismo come veicolo di identificazione con le classi lavoratrici contro il regime militare.” (F. Silvestri)
Come da manuale, dopo che nel paese l’opposizione cresce e si radicalizza, sono ancora i militari a togliere ufficialmente di mezzo Onganía ed a fargli subentrare il generale Roberto Marcelo Levingston (giugno 1970).
Ma stavolta non è un colpo di palazzo. Onganía cade grazie al poderoso movimento di operai e studenti che ha riempito le piazze e le strade argentine; i quali hanno eretto barricate, occupato fabbriche e sostenuto scontri, anche armati, con le forze della repressione al grido: “Via Onganía!”
Levingston non cambia nulla di sostanziale alla politica governativa, se non sul versante della repressione: viene infatti introdotta la pena di morte per “terroristi e rapinatori”.
Si vogliono bloccare le punte estreme di una lotta che assume forme sempre più radicali di scontro, ivi comprese esecuzioni e rapine di autofinanziamento.
Nei giorni del passaggio di consegne da Onganía a Levingston, i Montoneros (i guerriglieri della sinistra peronista) sequestrano e uccidono il generale Aramburu, artefice dell’esilio di Perón.
La decisione di scendere sul terreno dello scontro armato e dell’eliminazione fisica dell’avversario, politicamente intempestiva a sinistra e pregna di conseguenze negative per il movimento operaio (***), va però collocata anche dentro la sistematica violenza omicida contro i “sovversivi” condotta da parte delle forze di polizia, dai reparti speciali dell’esercito e dalle squadre armate “private” (incluse quelle appartenenti ai vertici della CGT).
Va da sé che la sinistra peronista attui tale linea per formazione politica, per ideologia, dentro il concreto obbiettivo di forzare e condizionare il ritorno di Perón.
Fatto è che nel marzo del 1971, Cordoba operaia insorge di nuovo. Scontri, barricate, scioperi con vittime di piazza. Il deterioramento della situazione è ben descritto da Daniela Padoan:
“Nel paese che alla fine del XIX secolo era conosciuto come “il granaio del mondo” tra i principali esportatori di carne, talmente esteso da avere ogni microclima dal confine subtropicale del Chaco ai ghiacciai della Terra del Fuoco – erano falliti più di 11.000 stabilimenti della PMI ed erano state chiuse molte grandi aziende. Il petrolio, la petrolchimica e l’elettricità erano passate nelle mani del capitale transnazionale e l’Amministrazione Pubblica aveva tagliato drasticamente il personale.” (Op. cit.)
CON LO SDOGANAMENTO DI PERÓN ARRIVA CAMPORA
A quel punto, Levingston passa la mano al suo tutore, il generale Alejandro Lanusse, il quale non può far altro che riconsiderare il rientro in patria di Perón. Solo lui può contenere e indirizzare un movimento popolare praticamente scappato di mano.
J.E. Corradi (Op. cit.) racconta di insurrezioni popolari nelle province andine di Mendoza, Rìo Negro, Tucumán. I lavoratori rurali formano leghe militari nelle province di Chaco, Corrientes, Formosa e Misiones. Le piantagioni di canna da zucchero “diventano una polveriera”. Si innesca una “spietata spirale repressione/insurrezione… Rapine, sequestri, occupazioni, esecuzioni politiche… le FFAA rispondono con rapimenti, tortura sistematica, eliminazione fisica.”
In questo frangente Perón dall’esilio “appoggia in prima battuta i Montoneros perché la CGT è compromessa col governo e non è più in grado di fare da sponda al sindacalismo di base, alla Gioventù Peronista e agli stessi Montoneros contro la dittatura militare.” (D. Padoan)
Mentre Perón vuole utilizzare la guerriglia esclusivamente per contrattare coi militari il suo rientro, i suoi sostenitori vedono questo evento tanto agognato come la ripresa di quel processo rivoluzionario interrotto quindici anni prima.
Il tragico equivoco del “giustizialismo” peronista e del corrispettivo “socialismo nazionale”, corroborato dalla guerriglia diffusa nel sub-continente, continuerà a mietere vittime tra le vecchie leve operaie e le nuove generazioni peroniste. Le prime avvinghiate al ricordo del decennio ’45-’55, le seconde illuse che l’illustre esiliato possa rinverdire gli “allori” del passato e aprire la strada al cambiamento.
In effetti col ritorno di Perón il cambiamento ci sarà, ma nella direzione esattamente opposta a quella sognata dai suoi sostenitori.
L’uomo ha “fiutato l’aria”. Nei lunghi anni dell’esilio, ospite di Francisco Franco, ha potuto rimodulare tutte le sue coordinate di nazionalista borghese, e capire che il futuro del suo paese sarebbe stato meglio garantito dall’allineamento all’imperialismo occidentale piuttosto che dagli improbabili indipendentismi terzomondisti.
Non per niente, alle trattative sul rientro, Perón cerca appoggi nella diplomazia vaticana, nella DC, e persino nella P2 di Licio Gelli. Suo segretario è diventato José López Rega, detto “El Brujo” (lo Stregone). Ex poliziotto, è dedito all’occultismo, frequenta la massoneria (si è iscritto alla P2) ed è fervente anticomunista.
Nel frattempo Perón si è risposato con l’ex cantante-ballerina Maria Estela Martinez (detta “Isabelita”), destinata, secondo lui, a prendere il posto della compianta “Evita”. Anche in questo caso, succederà esattamente il contrario.
La trattativa incrociata Perón, Vaticano, diplomazie occidentali, governo militare argentino porta alla soluzione di un graduale rientro in patria del vecchio leader, una volta assaggiato il terreno, sotto la veste di “pacificatore”. Evidentemente l’illusione sulle sue facoltà demiurgiche pervade un po’ tutti gli ambienti.
Lanusse, col GAN (Gran Acuerdo National), fa cadere la proscrizione nei confronti del peronismo, ponendo due condizioni: 1) la non concorrenza di Perón alla presidenza; 2) il suo impegno a non appoggiare movimenti clandestini armati. Accettate queste condizioni, nel novembre del 1972 Perón ottiene il permesso al rimpatrio.
Alle elezioni del marzo ’73 al suo posto si presenta Hector Cámpora, il quale raggruppa un largo fronte deciso a far dimettere il governo militare: il Frejuli (Frente Justicialista de Liberacìon Nacional), mantenendo un profilo istituzionale di “normalizzazione”. Ne fanno parte oltre ai peronisti del Partido Justicialista, i frondizisti (seguaci di Frondizi), frange dei conservatori, dei cristiano-popolari, dell’UCR e socialisti del PST.
L’11 marzo ’73 Cámpora prevale alle elezioni presidenziali sul radicale Balbin col 49% dei voti. Questi (chiamato “El Tìo”, lo zio, per la vicinanza al leader) è un peronista di sinistra, organizzatore della gioventù di partito, e raccoglie nella sua persona, in tale circostanza, gran parte della carica di opposizione che pervade il popolo argentino e la stessa sinistra (se si eccettua Política Obrera e raggruppamenti minori della sinistra rivoluzionaria… peraltro – per loro stessa ammissione – non preparati ad affrontare adeguatamente risvolti di questo genere).
E’ assurdo scomodare paragoni della storia rivoluzionaria a dir poco impropri (“dualismo di poteri”, “governo di transizione” e simili), ma in prima battuta il suo governo cerca in qualche maniera di dare soddisfazione alla radicale carica rinnovatrice che da ormai quattro anni fa dell’Argentina una polveriera sociale e politica. Se non altro per smussare e assorbire la diffusa carica “eversiva” che si respira.
Si vara l’amnistia, liberando immediatamente i prigionieri politici, i quali sono accolti ai cancelli del carcere da folle festanti. Si aboliscono i Tribunali Speciali e altre norme repressive. Il valore simbolico di questi provvedimenti è notevole.
Basti solo ricordare un episodio rimasto negli annali. Nell’agosto del ’72, a Trelew (Patagonia), a seguito di un’azione di guerriglia, sedici prigionieri politici (appartenenti ai Montoneros, all’ERP e alle FAR, tra cui Ana Maria Villarreal, la compagna di Roberto Santucho, dirigente del PRT-ERP) erano stati sommariamente fucilati dalla Marina, producendo un forte senso di indignazione e voglia di rivalsa tra i proletari.
Si proclama il monopolio statale su l’export di carne e cereali, la nazionalizzazione dei depositi bancari, il controllo sugli investimenti esteri. (J.E. Corradi)
Sul piano internazionale il governo Cámpora ristabilisce le relazioni diplomatiche e commerciali con Cuba e col “blocco socialista”, nonché con Libia e Algeria.
Ma il governo ha al suo interno, nei ministeri chiave, la rappresentazione vivente di una classe dominante che intende solo prendere tempo in attesa che si sfoghi il bollore delle masse. Il ministro dell’economia è l’industriale José Ber Gelbard (già presidente della CGE), il quale punta alla definizione di un “patto sociale” tra CGT e imprese in grado di ristabilire l’ordine nelle fabbriche. Non solo. Ministro del Benessere Sociale (tradotto: del Welfare) è il già citato López Rega…
Ci si trova così di fronte a un movimento di massa che – ingenuamente – crede, col governo Cámpora, di aver compiuto un decisivo passo in avanti verso il ribaltamento dell’ordine sociale.
Dall’altra parte la borghesia, decisa ad appoggiarsi di nuovo al peronismo per superare indenne il difficile momento, si rende conto che ciò non è ancora sufficiente. Pertanto non disdegna di frenare le punte della protesta ricorrendo al tradizionale pugno di ferro delle forze repressive. Anche perché, preso coraggio dalla vittoria elettorale, operai e studenti moltiplicano scioperi, occupazioni, manifestazioni in cui le rivendicazioni economiche si intrecciano con quelle politiche.
La situazione si fa ancora più ingarbugliata in quanto è in atto un vero e proprio regolamento di conti interno al peronismo. La “destra” e la “sinistra” del movimento peronista sono ormai arrivati al livello dello scontro armato, esasperando le rispettive connotazioni politico-ideologiche.
La destra assume un carattere apertamente e ferocemente anticomunista, che tiene insieme la tripla “A” approntata da López Rega (Alleanza Anticomunista Argentina), vere e proprie squadracce fasciste dedite all’omicidio sistematico, con il gangsterismo sindacale organizzato dai vertici CGT (José Rucci in testa, erede di Vandor).
La sinistra, decisa ad alimentare la lotta di guerriglia come via della “emancipazione di massa” (anche se non sarà l’unica strada indicata), si caratterizza ancora di più in senso genericamente anticapitalista e antimperialista, concorrendo con la maggioranza delle formazioni marxiste nell’esaltazione del Vietnam, di Cuba e delle altre esperienze anticoloniali del mondo.
Per essa l’Argentina è un paese oppresso che deve liberarsi alla stessa maniera delle ex colonie sopra citate.
Una simile connotazione, se nel fuoco della lotta contribuisce a rinsaldare i legami tra i militanti peronisti di sinistra e quelli marxisti (pur nei contrasti che via via affiorano), non facilita di certo l’elaborazione di una linea politica libera dai miti del terzomondismo e del “fochismo”; limiti che pesano su tutto il movimento rivoluzionario.
Per non parlare, per ciò che riguarda gran parte del proletariato attivo, del persistere – e per certi versi dell’accrescere – dell’equivoco Perón.
Quella “zona grigia” su cui significativamente si esprime uno dei quadri militari dell’ERP, Indio Paz: “Il grigio a volte esiste e bisogna saperlo usare. Perón non era né bianco né nero: era grigio”. (Morlacchi)
Casomai, il problema del PRT/ERP consisterà, suo malgrado, nell’essere “usato” dal peronismo.
STRAGE A EZEIZA, PERON PRESIDENTE, MILITARISMO DI SINISTRA
Col governo Cámpora, la guerriglia peronista sospende la lotta armata per unirsi al “processo di democratizzazione” in atto. Il PRT/ERP, da parte sua, vira temporaneamente sulla posizione di continuare le azioni di guerriglia ai corpi militari, “ma non al governo se non ci attacca.” (Documento del partito riportato da M. Morlacchi, Op. cit.)
Opzione tattica significativa del clima politico in atto e delle contraddizioni che esso si porta appresso. A partire da quella di ritenere quello di Cámpora un “governo amico”.
La CGT svolge un lavoro di “cerniera” assai prezioso per la borghesia: da un lato cerca di smussare le angolature più spinose del diffuso classismo, non intralciando apertamente le lotte ma separandole e alla fine boicottandole. Dall’altro cercando di fare da collante tra governo e partiti del Frejuli, dentro un’ottica di “ripristino della democrazia”, tirando così la volata a Perón.
Sempre con l’eccezione di Politìca Obrera (PO), la quale si è dotata di un programma coerentemente rivoluzionario e di una conseguente azione nella classe, quasi tutta la sinistra “trotskysta” (PRT in testa) cade in tale equivoco: rincorrendo, insieme ai ballerini vertici della IV° Internazionale, una deleteria rivalutazione del peronismo come movimento politico. Il PRT sarà tra l’altro quasi da subito in polemica con la IV°, rifiutando ad un certo punto di costituire la sua sezione argentina. Ma farà ciò sostenendo posizioni ancora più “fochiste” di essa, aumentando così sbandamento e confusione.
La lotta politica nel paese assume pertanto una forte accelerazione tra il 1973 ed il luglio del ’74. Il governo Cámpora deve solo gestire la fase più delicata inerente il passaggio di consegne a Perón. Un simile esecutivo non dura neppure due mesi (dal 25/5/’73 al 14/7/’73). Nel frattempo (il 26 giugno) è rimpatriato Perón.
E’ comunemente accettato da storici e commentatori che quel giorno siano circa due milioni gli argentini che si preparano a riceverlo all’aeroporto di Ezeiza (Buenos Aires). Sono in prevalenza peronisti di sinistra, proletari della CGT, ma anche semplici popolani. Echeggia uno slogan: “Vamos a Ezeiza! Vamos Companeros, a recebir a un viejo montonero!”
A Ezeiza la folla non troverà Perón, dirottato in un altro aeroporto della capitale, ma i fucili delle AAA di Lopez Rega e dei gangster sindacali di Rucci, che apriranno il fuoco indiscriminato. I dati ufficiali parlano di 13 morti e 360 feriti, ma altre stime e testimonianze appesantiscono di molto il bilancio.
Al di là delle reali dimensioni del massacro, il dato politico che emerge, per molti in modo traumatico, è che Perón non ha portato nessun messaggio di liberazione, ma una strage di popolo. Cosa inaudita… Al punto che molti, a partire dai Montoneros, cominciano a pensare che le fucilate sulla folla siano state il frutto di un complotto… contro Perón! Inventando la storia che quest’ultimo sia “assediato” da López Rega e soci…
Un complottismo indirizzato alle imminenti elezioni, dove il peronismo avrebbe calamitato tutte le genuine “forze nazionali”.
“Inseriti nel peronismo, oscillando dai baracchismi verbali del leader alla limacciosa politica della burocrazia sindacale peronista…senza comprendere che in politica la forma è sostanza, i montoneros fecero propria la vecchia prassi della politica dell’intrallazzo…” (Diez, Op. cit.)
Il che non esclude, anzi per certi versi implica, che il ricorso alla lotta armata da parte del peronismo di sinistra, venga utilizzato come grimaldello per forzare una situazione dove si ritiene Perón “prigioniero” dei vecchi poteri.
Poi, quando il salto del fosso del generale sarà evidente e inconfutabile, la lotta armata diverrà funzionale al “socialismo nazionale”…Ergo ad un peronismo “senza Perón”.
Come, da destra, aveva a suo tempo propugnato il duo sindacale Vandor-Rucci di fronte ad Onganìa.
Per il PRT/ERP il ricorso alla lotta armata deriva in primo luogo dalla sua impostazione ideologica: castrista, guevarista, maoista, vietcong. Sostanzialmente volontarista e soggettivista.
In sintesi: social-nazionalista, o se si preferisce stalinista di sinistra. Non divergendo di molto, in questo, dalle frange “catto-socialiste” del peronismo convertite al terzomondismo.
Il PRT/ERP non manca di agganci con la classe operaia (abbiamo già parlato della sua presenza negli zuccherifici del Tucumàn. In seguito il partito si farà promotore del Movimento Sindacale di Base MSB, ed entrerà dentro vertenze operaie importanti).
Ma il suo vizio di fondo (giusta, nel merito, la critica di PO) è quello di ritenere la lotta armata un qualcosa di elitario, utile a “dare l’esempio”, espressione massima della lotta politica. Al punto da sostituire quest’ultima.
In ciò, più che nei suoi addentellati sociali piccolo-borghesi, consiste il guasto di fondo della sua azione. Esso rappresenterà, per certi versi, le difficoltà politiche e la deriva di una radicalizzazione operaia priva di sbocchi strategici percorribili. Chiusa nell’ equivoco del peronismo (nonostante la sua evidente erosione) e in un rivendicazionismo troppo spesso scambiato per “socialismo realizzato”.
Alla base di una simile concezione potremmo aggiungere la sopravvalutazione del ciclo di lotte. Che è sì “pre-insurrezionale”, ma non pienamente maturo dal punto di vista rivoluzionario.
Mancano, ad esempio, la presenza e l’influenza capillare di un partito comunista in grado di utilizzare le contraddizioni del nemico di classe, indirizzandole verso obbiettivi di fase. Per non parlare della già citata influenza del peronismo sulla classe, del predominio CGT ancora in essere, dell’iniziativa politica ancora in mano ai partiti borghesi, della tenuta degli apparati di repressione. Problemi del genere, del resto, attraversano tutta l’area della sinistra di classe.
In tale situazione, contenuta con successo l’ondata proletaria che rischiava di tracimare, riaccorpatasi la borghesia su Perón, rassicurati i ceti dominanti sulla determinazione antiproletaria del generale, questi annulla ogni veto sulla sua persona e il 23 settembre del ‘73 stravince le elezioni presidenziali col 61,9% dei voti.
Non pochi suffragi gli arrivano da strati popolari ancora illusi sulla sua vera natura, e pure da formazioni e militanti di sinistra a loro volta illusi di poter manovrare con l’elettoralismo sulla “parte sana” del peronismo.
Due giorni dopo, il 25 settembre, Rucci è ucciso davanti casa. L’esecuzione non viene rivendicata, ma non sfugge a nessuno che sia un regolamento di conti per Ezeiza. E al contempo un preciso segnale per Perón. Il quale non ci metterà molto a raccogliere la sfida, su un terreno a lui propizio. Intanto, il PRT/ERP è messo fuorilegge.
Il problema non è l’uso della violenza nella lotta di classe e neppure la necessità, in quel frangente, della difesa anche armata delle lotte proletarie.
Il problema stava nell’indirizzo politico e nel “dosaggio” dell’autodifesa della classe e dei suoi organismi. Prevaleva nella sinistra “guerrigliera” una visione della lotta politica completamente distorta. Al punto di rovesciare il suo rapporto con la lotta militare.
In questo periodo il PRT/ERP compie mediamente due azioni di guerriglia al giorno (Morlacchi).
Riportano i compagni di PO (in: O. Coggiola, Op. cit.) che già nel 1971, da marzo a giugno, su 316 attentati ben 120 (il 38%) sono dell’ERP (che è il braccio armato del PRT)…
”Si cerca di colmare le insufficienze della classe con gli attentati”… ”l’attività politica è a zero, mentre la guerriglia è a mille” (Ibidem). Al punto che, ad esempio, viene rapito un dirigente della Esso, Victor Samuelson, al fine di condizionare una vertenza di fabbrica sui licenziamenti. Non ottenendo questo risultato si ripiega… sul pagamento del riscatto di 14 milioni di dollari in cambio del rilascio del dirigente (Morlacchi).
“I militanti del PRT/ERP non irrompevano nelle vertenze e nelle lotte con la “linea del partito”. Il loro obbiettivo era quello di partecipare alle vertenze senza sovradeterminarne i contenuti con parole d’ordine che non sarebbero stare comprese. “Se qualcuno chiedeva di entrare nell’ERP allora lo dirottavamo alla cellula militare”. (Julio Santucho, fratello di Roberto, anch’egli dirigente di partito). (Ibidem)
Dietro una simile impostazione (che ha il merito di non voler calare nelle lotte operaie “la linea di partito” dall’alto, ma allo stesso tempo il grosso demerito di affidarsi totalmente alla spontaneità delle stesse), emerge comunque assai chiaramente il timbro militarista che il PRT dà al suo intervento.
Rolo Diez (Op. cit.) parla di un PRT “impreparato”, in preda ad una crescita sproporzionata in rapporto ai quadri a sua disposizione. Una formazione che costituisce sì l’MSB e il FAS (“Frente Antimperialista por el socialismo”), cui partecipano settori del peronismo rivoluzionario e organismi di classe di Córdoba… ma che è prigioniera della “eliminazione fisica del nemico…(cosa) che mette ai margini la conflittualità sociale. La comprime. La annulla.”
Intanto l’11 settembre in Cile, con l’appoggio di Washington, si è verificato il colpo di Stato del generale Pinochet. L’evento dà inizio anche in quel paese a una terribile mattanza di proletari e militanti di sinistra. Segno che è pienamente operativo quel progetto DSN di cui si parlava all’inizio.
Il presidente Perón appoggia apertamente il boia Pinochet. Tra generali…
Pure in Argentina ci si prepara al definitivo regolamento dei conti. La “Guerra Sucia” è alle porte.
Note
*Per averne un’idea immediata si consiglia la visione del film “FIRST” di Sylvester Stallone (1978). La pellicola rappresenta assai efficacemente il clima e i metodi gangsteristici sviluppatisi dentro e attorno al sindacalismo “affaristico” degli Stati Uniti degli anni ’20 e ’30.
**Sulla figura di Krieger Vasena vedi articolo precedente.
***Ci riferiamo alle situazioni in cui l’uso della violenza rivoluzionaria di difesa o di attacco diventa decisivo per l’esito della rivoluzione stessa. L’esempio “classico” è il luglio 1917 in Russia, quando il partito bolscevico – in una situazione pre-insurrezionale – valuta comunque prematuro scatenare l’attacco al Governo provvisorio e non lancia la parola d’ordine della presa del potere. Cosa che farà tre mesi dopo, in ottobre.