Che la NATO e la Russia siano in guerra aperta dal 24 febbraio di due anni fa è perfino banale. Lo è almeno per noi che dal primo momento abbiamo sostenuto che quando si dice Ucraina, si deve in realtà leggere NATO – questo, per somma sventura delle ucraine e degli ucraini convinti (sono ogni giorno di meno) di stare combattendo una guerra per la propria auto-determinazione. Altrettanto banale è che la prima fase della guerra si sta chiudendo con la secca sconfitta militare della NATO sul territorio ucraino. La Russia non ha difficoltà a tenere ed estendere le posizioni conquistate nel Donbass, e sta saggiando le difese di Kharkiv/Kharkov, la seconda città ucraina.
Non è soltanto una sconfitta militare, è una sconfitta su tutti i piani – anche se, come vedremo, tutt’altro che definitiva per la furiosa reazione del blocco occidentale. L’Ucraina come nazione è stata spinta al suicidio dai cinici oligarchi di Washington, Bruxelles e Kiev – pienamente complice l’Italia di Mattarella, Draghi e Meloni. L’Ucraina è oggi il terzo paese più indebitato al mondo con il FMI, uno stato fallito. La rete delle sue infrastrutture è a pezzi, come lo è la sua economia, inclusa la sua agricoltura un tempo fiorente, e oggi boicottata anche dai coltivatori polacchi. Gran parte delle sue fabbriche – parliamo di quelle scampate ai bombardamenti di Mosca – sono state private di personale, quindi disorganizzate, per le imperiose esigenze del reclutamento. Tant’è che si comincia a parlare di “spingere le donne e i bambini” (sì, i bambini) verso le fabbriche a corto di personale. Le perdite di soldati al fronte sono spaventose. La sempre più estesa fuga dal reclutamento rende ormai difficilissimi il rimpiazzo e la turnazione dei soldati esausti. La montagna di morti, 500.000 è una stima attendibile, la dilagante corruzione ai vertici dello stato e negli apparati del reclutamento dove chi ha migliaia di euro cash è esentato facile, i rastrellamenti brutali per strada o sugli autobus hanno fatto crollare il ‘morale della nazione’ (e di conseguenza anche dell’esercito), nei primi tempi alto. Nonostante le ingentissime forniture dall’estero, pari ad almeno 200 miliardi di dollari, l’esercito ucraino è al collasso. Mancano aerei, carri armati, artiglieria, mezzi di difesa antiaerea, munizioni. Filtrano notizie di ammutinamenti su ampia scala (di intere brigate, per intenderci). Dopo aver venduto alla sua gente e in mondovisione la prospettiva della piena vittoria sul campo con la riconquista della Crimea, il governo Zelensky, prossimo al tracollo, è pronto a lanciarsi in qualsiasi avventura pur di cercare di mettere in salvo la pellaccia. La disperazione spinge lui e il suo entourage a richiedere oltre gli F-16 (che stanno per arrivare) i missili a lunga gittata per colpire in profondità dentro la Russia. Colpire le basi di lancio dei missili, ed altri obiettivi ancor più vitali per la Russia. Portare la guerra in Russia è la loro unica speranza di sopravvivenza.
I comandi e i paesi della NATO non sono da meno. Anzi!
Per coprire la bruciante sconfitta finora incassata, appaiono disposti a tutto, salvo che a riconoscere il verdetto del campo. E perciò hanno rilanciato il loro impegno di guerra contro la Russia con due opzioni: 1) inviare truppe NATO in Ucraina; 2) dotare l’esercito ucraino di armi più potenti e letali (soprattutto, appunto, i missili a lunga gittata) per produrre danni alle reti energetiche e agli apparati militari del nemico in Crimea, Donbass e in tutto l’enorme territorio della Russia – in ogni caso, prolungare a tempo indeterminato la guerra contro la Russia con l’obiettivo di debilitarla.
La prima opzione l’ha sdoganata Macron: la Francia ha pronti 2.000 soldati, sostiene, con funzioni di addestramento, però, non di combattimento. Senonché è proprio la carne da cannone da addestrare che scarseggia in Ucraina. Con ciò si tocca con mano l’inconsistenza di questa prima opzione. Per fermare l’avanzata russa, e tanto più per preparare una controffensiva, servirebbero centinaia di migliaia di soldati pronti a combattere. Al momento, però, sembrano esserci solo quelli polacchi. Forse, e non si sa esattamente in quale entità. Infatti l’isteria bellicista che si è impossessata dei vertici dell’Unione europea non trova adeguato riscontro né nella struttura dei loro eserciti, né nelle società europee, ad oggi silenti, passive, ma non certo entusiaste di entrare in guerra contro la Russia in prima persona. Esistono inoltre molteplici ostacoli a un efficace coordinamento operativo tra i 32 paesi appartenenti alla NATO. Il solo nucleo già addestrato per una funzione direttiva è quello statunitense. Ma finora gli Stati Uniti hanno escluso il loro diretto coinvolgimento. Per i loro scopi lo svolgimento degli eventi ucraini come si è dato finora è l’ideale, dal momento che gli ha portato enormi incassi economici e politici senza spese e danni di sorta (salvo, si capisce, la sconfitta sul campo che va a tutti i costi evitata prolungando e allargando la guerra verso il territorio russo).
Benché sia esagerato parlare degli eserciti NATO come fossero fantasmi (magari!), è vero che la Russia ha finora mostrato sul campo una capacità di definire e rimodulare i propri piani strategici e operativi nettamente superiore a quella dei comandi NATO. Costretta dagli eventi degli anni passati – l’avanzamento di 1.000 chilometri delle basi NATO verso i propri confini! – e indubbiamente favorita dal combattere alle porte di casa, la Russia si è preparata per tempo alla guerra, e dà prova di temerla assai meno dei paesi dell’Europa occidentale. In ogni caso la storia, con le sue dure sedimentazioni, conta. Mentre è in grave difficoltà sul piano della competizione economica con i paesi occidentali nei settori produttivi di avanguardia, sul terreno bellico la Russia ha importanti punti di vantaggio su di loro: la enorme profondità strategica del suo territorio; la più completa autosufficienza alimentare ed energetica; la forza del suo complesso militare-industriale (supportato dalle forniture di tecnologia cinese); uno spirito patriottico tuttora vivo nella popolazione “grande-russa”. Lo si è visto nella guerra civile in Siria, e poi in diversi paesi africani: le truppe russe sanno il fatto loro, sia quelle di stato che quelle delle varie compagnie private mercenarie (la Wagner è solo la più famosa). Per contro, un eventuale contingente combattente della NATO in Ucraina (altra cosa dai consiglieri militari e addestratori occidentali presenti in Ucraina da decenni) andrebbe incontro a diverse incognite: l’assenza di un piano strategico comune, l’inesperienza a combattere fuori dal proprio territorio (finora han pensato a tutto gli yankee, eanche lorocon risultati a dir poco mediocri), fino all’eterogeneità dei sistemi di arma e di comunicazioni a loro disposizione.
Ecco perché delle due opzioni sopra indicate, quella su cui Washington, la NATO e la Unione europea puntano con più decisione è la seconda. Tra questi tre centri di potere non c’è coincidenza di vedute e di interessi. Ad esporsi di più è stato il comando NATO, con il socialdemocratico Stoltenberg nella parte (non cinematografica) del dottor Stranamore. Non a caso Putin, di solito prudente, gli ha dato in pubblico del demente. Non si tratta, però, di demenza, così come Putin non è il “pazzo” della propaganda bellicista occidentale. Si tratta di grossi blocchi di interessi capitalistici in urto frontale tra loro, sotto l’impulso di una crisi complessiva del sistema che né gli uni né gli altri sono in grado di controllare, e sta imponendo ad entrambi, con una sorta di cieco automatismo tipico del modo di procedere del capitale, una dinamica di continuo innalzamento dei livelli di scontro. In un simile processo è naturale, per la divisione delle funzioni, che i poteri militari direttamente messi in discussione dall’esito fin qui nefasto della guerra per procura in Ucraina, premano per soluzioni sempre più estreme, bruciando l’una dopo l’altra le cosiddette “linee rosse” da non oltrepassare, in realtà oltrepassate l’una dopo l’altra come nulla fosse – prima gli Abraham, poi gli F-16, quindi gli Atacm, e si può star certi che, all’occorrenza, cadrà anche il vincolo (posto che ci sia mai stato) di colpire in Russia solo obiettivi militari.
Per converso, nell’Unione europea i settori capitalistici che in Germania, in Italia, in Spagna, hanno molto da perdere dalla rottura dei legami economici con la Russia, la Cina e il ‘mondo dei Brics’ fanno resistenza alla rapida precipitazione del conflitto diretto con la Russia. Ma il potere di ricatto e di condizionamento degli Stati Uniti è stato finora vincente su un’Unione europea che resta, ad onta delle sue istituzioni unitarie e delle sue velleità, una caotica giungla di nazionalismi. Quasi tutti i paesi dell’Est Europa hanno verso la Russia un’attitudine particolarmente aggressiva fino a toccare vette di autentica comicità (tipo: “L’Estonia farà tutto il possibile per mettere in ginocchio la Russia”, parola del presidente estone Karis) – esito di vicende storiche molto risalenti nel tempo di non volontaria sottomissione alla Russia che ha portato le classi dirigenti di questi paesi alla sottomissione volontaria ai padroni dell’Ovest. Il governo della Cechia esulta in modo infantile per essere stato il primo ad obbedire al comando della Casa Bianca di appropriarsi di ricchezze russe e destinarle alla guerra contro la Russia – l’eccelsa “libertà” di servire. La Polonia di Tusk, in questo simile alla Polonia dei fratelli Kaczyński come lo sono due gocce d’acqua, freme dalla brama d’incorporare a sé una quota dell’Ucraina quale premio del suo ruolo in questa guerra. La Francia di Macron, scacciata a pedate dall’Africa occidentale e soppiantata spesso proprio dalla Russia, agita davanti al resto dell’Europa il suo ombrellino nucleare come estrema risorsa per conservare lo status di grande potenza che ha già perduto definitivamente – all’improvviso ha rovesciato il suo approccio “dialogante” verso la Russia e avaro di “doni” verso l’Ucraina, proprio per inseguire questo sogno “bello e impossibile”. Per quel che sta in loro (poco), Ungheria e Slovacchia cercano di frenare il corso catastrofico avviato, temendo di finire stritolate nella morsa come nuove Ucraine. L’Ungheria, in particolare, sta stringendo sostanziosi e privilegiati legami commerciali, industriali e finanziari con la Cina tali da costituire, con la Serbia, un cuneo cinese nell’Est europeo e nei Balcani.
In mezzo a questo furioso agitarsi di interessi nazionali e monopolistici conflittuali tra loro la Germania frena, soprattutto con i suoi grandi gruppi industriali, ma ad ogni puntata finisce per cedere alla pressione bellicista. E la sua industria degli armamenti sta prendendo una corsa tale che – se non ci sarà un’insorgenza proletaria e popolare molto forte contro la tendenza alla guerra totale alla Russia – la borghesia tedesca sarà di nuovo tentata di mettersi alla testa dell’intera Europa occidentale in armi contro l’orso russo. Resta comunque il paese in cui due forze politiche di una certa consistenza, Alternative für Deutschland e il neonato partito personale della ex-leader della Linke Wagenknecht, con argomenti paralleli, provano a smarcare gli interessi nazionali di dominio dal tracciato di Washington. Anche in Francia e in Italia sono presenti opzioni politiche differenti dal supino allineamento a Washington. Ma il Rassemblement National di Le Pen e i Fratelli d’Italia di Meloni, il primo recalcitrando, i secondi al trotto, hanno molto ammorbidito le proprie riserve sulla linea dei comandi NATO dettata da oltre Oceano, pur senza arrivare al completo allineamento. Nell’ambito dei partiti che si presentano come “sovranisti”, almeno in questa campagna elettorale, c’è anche la Lega di Salvini che si professa contraria alla “sovranità europea” e alla decisione di Macron di inviare truppe in Ucraina.
Scambiare però le prospettive tracciate da queste forze, o quelle di formazioni come La France insoumise di Melenchon, per “fattori di pace”, sarebbe prendere lucciole per lanterne. Le loro linee ideologiche e d’azione, sia che chiedano maggiore autonomia dell’UE dal capo-bastone statunitense, sia che la pretendano per la loro nazione nei confronti dell’UE, accatastano altra legna sul fuoco degli scontri inter-capitalistici. La stessa cosa vale per il basso profilo, in apparenza tra i più moderati, adottato dal governo Meloni e dall’Italia come stato. Il capitalismo italiano ha le mani in pasta in tutte le guerre della NATO da sempre, ma poiché non è in grado di avere un ruolo militare di prima fila sul campo (tutt’altra cosa è la sua efficiente industria bellica), si muove con astuta diplomazia per riuscire a garantirsi comunque i propri lauti ritorni dal saccheggio del mondo.
Nel caotico contesto di nazionalismi concorrenti e mediazioni sempre più complicate tra loro, giorno dopo giorno conquista posizioni all’interno della Unione europea la linea dell’oltranzismo bellicista che vuol colpire in modo sempre più deciso la Russia nella sua possente macchina militare per provocarla a mosse di ritorsione che possano essere vendute all’opinione pubblica come la “vera causa” di un conflitto sempre più diretto. La maxi-esercitazione Steadfast Defender 2024, la più massiccia da decenni ai confini della Russia (90.000 militari coinvolti, portaerei, decine di mezzi navali e di bombardieri, 1.100 mezzi corazzati, etc.), cui l’Italia ha partecipato con 1.700 soldati, conclusa il 31 maggio, ha svolto la funzione di rassicurazione e propulsione a favore del partito amerikano e multinazionale dell’oltranzismo antirusso – “siamo tanti, forti, e uniti”.
Non disponendo di accessi privilegiati ad informazioni segrete, non siamo in grado di dire se è stato l’esercito ucraino o direttamente qualche struttura della NATO a fare strike, ma la cosa è certa: nei giorni scorsi ci sono stati diversi attacchi alla catena di radar che costituiscono l’ombrello nucleare della Russia. Almeno ad Armavir, nella regione di Krasnodar (appena a nord del Caucaso), questa catena è stata gravemente danneggiata, con il parziale accecamento per un lungo periodo di tempo del sistema di rilevazione delle minacce nucleari in arrivo sul territorio russo. Mosca, in forma non ufficiale, punta il dito sull’Ucraina. Ma per quanto disperata sia la banda intorno a Zelensky, un attacco del genere non può essere stato portato a termine senza la regia del Pentagono. Se un esponente della gerarchia politico-militare russa di alto livello come è Rogozyn (già vice ministro della Difesa, ambasciatore presso la NATO e direttore dell’Agenzia spaziale Roscosmos) è arrivato a dichiarare: “siamo sull’orlo del baratro. Se queste azioni nemiche non verranno fermate, inizierà un crollo irreversibile della sicurezza strategica delle potenze nucleari”, significa che il colpo per la Russia è stato duro, durissimo. La coltre di silenzio che in Occidente copre l’accaduto è essa stessa indicativa dell’estrema gravità del momento – si attende la reazione russa, prevedibilmente, per scaricare su Mosca e su Putin la responsabilità di questa escalation decisa dalla NATO. Ed appare evidente la difficoltà della Russia ad assecondare l’escalation dato che la guerra in Ucraina si combatte alle sue porte, ed è sul suo territorio che cominciano a piovere, oltre che droni, missili potenti e precisi lanciati a pochi chilometri dai suoi confini pre-bellici. Gli importanti successi militari della Russia, infatti, sono stati conseguiti in una guerra che è rimasta, finora, una guerra per procura, combattuta dall’Ucraina e dagli ucraini (soprattutto proletari) nell’interesse degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Ma quando ci fosse la virata verso la guerra diretta, la conversione bellica porterebbe alla schiacciante superiorità amerikana ed europea, se la Cina non entrasse direttamente anch’essa nella mischia. Solo dei fan da tastiera della Russia possono essere fessi al punto da non capire che l’indefinito prolungamento della guerra creerà non pochi problemi economici e sociali al blocco putiniano (la sostituzione di Shoigu con l’economista Belousov alla testa dell’apparato militare è già un segnale), e di assai più drammatici ne creerebbe lo scontro frontale con la NATO.
L’abisso non è solo l’uso delle armi nucleari in sé (gli Stati Uniti le hanno già usate in Giappone e, a quel che pare, in Iraq; Israele ha già scaricato l’equivalente di varie bombe nucleari su Gaza), crimini comunque incancellabili. L’abisso è l’innesco di uno scontro totale tra NATO e Russia che non è mai stato tanto vicino com’è oggi. In data odierna il capo della difesa norvegese Kristoffersen ha stimato in 2-3 anni l’arco di tempo che ci separa dal fausto evento, che avrebbe inevitabili ripercussioni su scala mondiale. Non a caso Zelensky è uscito allo scoperto attaccando la Cina perché “vuol far fallire la conferenza di pace” prevista in Svizzera in luglio senza e contro la Russia, quindi come conferenza di guerra. Non a caso il ministero della difesa cinese ha fatto, per l’occasione, la seguente solenne dichiarazione: “L’esercito cinese è pronto insieme all’esercito russo a proteggere la giustizia nel mondo”; le forze armate cinesi “sono pronte a collaborare con l’esercito russo per l’attuazione completa dell’importante consenso raggiunto dai capi dei due Stati. Il personale militare dell’EPL è pronto, insieme ai colleghi russi, a proteggere la giustizia e l’imparzialità internazionale e a impegnarsi al massimo per garantire la sicurezza internazionale e regionale”. Senza dubbio un potente freno al precipitare degli avvenimenti bellici, ben più potente dei balbettii di Berlino, Roma e Madrid. La Cina si prepara alla guerra, ma vuole tempo.
Il tempo non è dalla parte degli Stati Uniti, la cui società è in preda a molteplici processi di polarizzazione ed è crescentemente attraversata da rischi di guerra civile, con i candidati alla futura presidenza che si accusano l’un l’altro di fascismo. Perfino il trono dell’imperatore-dollaro comincia a vacillare, mentre i Brics accelerano la trattativa per una nuova moneta alternativa, e nelle more espandono di continuo l’uso reciproco delle proprie monete. Il tempo non è dalla parte dell’Unione europea che continua a perdere quote di mercato, coesione e fiducia in sé stessa e nel proprio futuro. Né è dalla parte del loro avamposto sionista in Medio Oriente, che non è mai stato delegittimato com’è oggi nella sua supposta funzione civilizzatrice agli occhi delle masse oppresse e sfruttate della Palestina, del mondo arabo-islamico e del mondo tutto, e messo in seria difficoltà sul piano militare dalla resistenza palestinese.
Il tempo è dalla parte delle potenze capitalistiche ascendenti, la Cina prima di tutte. Checché ne pensino certi “teorici” abbagliati dal feticcio della moneta sovrana, nella competizione tra capitali e capitalismi il fattore decisivo di ultima istanza è la produzione di valore, l’economia reale. Dopo mezzo secolo di sviluppo dei più grandi paesi ex-colonie del “Sud” del mondo e di delocalizzazione produttiva da parte dei paesi dominanti, il centro pulsante della produzione di valore si è dislocato sempre più fuori dall’Occidente. Questo processo materiale ha corroso l’egemonia a stelle e strisce sul mondo, che poggiava su un indiscusso primato industriale. E non è più possibile tornare indietro. Certo, le transnazionali con base in Occidente sono in grado di mantenere il controllo su aziende e capitali dislocati nel mondo e, grazie all’assetto imperialista che le sostiene, intascare lussuosi sovra-profitti. Sennonché la Cina o l’India non sono il Costarica o la Tunisia, e nel corso degli ultimi 30-40 anni si sono a tal punto sviluppate in potenza capitalistica da scalzare le transnazionali di cui sopra da crescenti aree del mercato mondiale (incluse quote del mercato interno degli Stati Uniti). Contro l’eternità del dominio occidentale e del sognato livello dei sovra-profitti ha giocato poi un’altra variabile: le aspettative e le lotte del proletariato dei continenti “di colore”. Perché una cosa è se il rapporto dei salari cinesi con quelli dei paesi occidentali è 1:10, ben altra è se è sceso in modo verticale a 1:3, 1:2 (con tutti gli effetti di rimando sugli altri paesi asiatici). Riportare allora in Occidente i capitali usciti? Più facile a dirsi che a farsi. Il reshoring, il rientro a casa delle imprese che avevano in precedenza delocalizzato, ha avuto effetti molto limitati. Il friendshoring, la formula-Yellen, il produrre e l’approvvigionarsi solo da paesi alleati, può al più modificare i rapporti di forza interni al blocco occidentale, ma paradossalmente sta favorendo la formazione di un contro-blocco, o almeno di un contro-campo, via via più ampio intorno alla Cina. A parte l’allargamento dei Brics, basterebbe osservare l’andamento del recente vertice Cina-paesi arabi per intendere con quanta velocità avanzano i processi che erodono le basi del dominio statunitense sull’economia mondiale.
Il Pentagono aveva fissato al 2017 il traguardo finale entro il quale scatenare l’attacco alla Cina per impedirle di prevalere. Il successivo aggiornamento al 2025 sembra già arrivare in ritardo. Molti “consiglieri del principe” lo avvertono, dividendosi tra i realisti che sono per la riduzione del danno, e i fondamentalisti favorevoli ad andare il prima possibile allo scontro frontale. Negli Stati Uniti, e ormai anche in Europa, la bilancia pende da quest’ultima parte. Una febbre di guerra sale apparentemente irresistibile nelle classi dominanti in Italia (perfino un individuo dalla lingua robotica come Monti evoca la necessità di versare sangue, quello dei proletari s’intende, non dei suoi figli agenti di borsa), in Europa (vedete qui lo spot elettorale della von der Leyen), e tanto più negli Stati Uniti, dove il favorito alle prossime elezioni Trump fa comizi promettendo di risolvere tutti i problemi bombardando Mosca e Pechino, e la sua vice in pectore Haley si precipita in Israele per eccitare i sionisti a farla finita con i palestinesi – per tacere del bellicismo forsennato dell’amministrazione Biden.
Allo scoppio della guerra tra NATO e Russia in Ucraina sostenemmo che segnava “un punto di non ritorno nel passaggio delle contraddizioni inter-capitalistiche alla scala mondiale da un piano economico-commerciale ad uno strategico-militare”. E aggiungemmo che ci appariva ridicolo, da principianti ignari delle leggi regolatrici del capitalismo, e politicamente pericoloso, inquadrare quel conflitto come la porta d’ingresso in un pacifico, equilibrato, “mondo multipolare” che sarebbe stato di sicuro preferibile al mondo sottoposto alla dittatura del dollaro, essendo fuori dalle possibilità l’avvento della rivoluzione anti-capitalista. Passati appena due anni, siamo alla rinascita del più aggressivo militarismo giapponese; alle esercitazioni militari più massicce della storia della Cina intorno all’isola di Taiwan; alla stampa taiwanese che minaccia l’attacco coi missili alla Diga delle tre gole; alla Corea del Nord e alla Corea del Sud che si accusano a vicenda di soffiare sul fuoco; ad uno stato di Israele che, oltre al massacro di Gaza, saggia il terreno per una grande guerra regionale; ad una generale, sfrenata corsa al riarmo; a discussioni serrate in quasi tutti i paesi europei sulle vie e le forme del reclutamento militare di massa. Vedete tracce del pacifico ed equo mondo multipolare?
A fronte di questi sviluppi incalzanti, è scioccante l’inerzia della classe lavoratrice in Italia e in Europa che “si finge morta per non intendere la voce del suo tempo” – così Rosa Luxemburg descrisse l’attitudine del lavoratore tedesco davanti alla prima guerra mondiale in corso già da quattro anni, prevedendo (al giugno 1918) che avrebbe comunque dovuto far ricorso alla rivoluzione sociale, come avvenne di lì a pochi mesi. Vale la pena di ascoltarla perché indica magistralmente il modo in cui i rivoluzionari internazionalisti debbono inquadrare i grandi avvenimenti storici e rapportarsi a una classe lavoratrice che resta inerte davanti a una catastrofe incombente che la sta chiamando direttamente in causa:
«Il destino storico si compie con logica implacabile. Il proletariato tedesco, che non si è saputo opporre al vortice dell’imperialismo tedesco, è ora trascinato da questo ad abbattere il socialismo [il riferimento è alla rivoluzione d’Ottobre] e la democrazia in tutta Europa. L’operaio tedesco calpesta le ossa dei proletari rivoluzionari russi, ucraini, baltici, finnici, calpesta l’esistenza nazionale dei polacchi, dei lituani, dei rumeni, calpesta una Francia in piena rovina economica, avanza guadando profondi torrenti di sangue, per piantare ovunque il vittorioso vessillo dell’imperialismo tedesco.
«Ma ogni vittoria militare che la carne da cannone tedesca contribuisce a conquistare all’estero, significa un nuovo trionfo politico e sociale all’interno del Reich. Ad ogni attacco alla guardia rossa in Finlandia e nella Russia meridionale, cresce il potere degli Junker all’Est dell’Elba e del capitalismo pangermanico. Ad ogni città bombardata delle Fiandre la democrazia tedesca regredisce di un passo.
«Già ora, in piena guerra, la classe operaia tedesca viene ricompensata a frustate e staffilate, e se lo merita. (…)
«Il lavoratore tedesco – per quanto resista all’idea e si finga morto per non intendere la voce del suo tempo – dovrà quindi ricorrere all’arma della rivoluzione, quanto prima e comunque immediatamente dopo una ipotetica ‘vittoria tedesca’. Il boia delle libertà altrui, il gendarme della reazione europea dovrà ben presto ribellarsi contro la sua stessa opera poiché le immutabili leggi storiche non si lasciano aggirare. Con le proprie mani, con la propria ubbidienza cadaverica, con la sua ‘vittoria’ al servizio della reazione, il proletariato tedesco prepara, proprio in questo momento, la rivoluzione in Europa e, quindi, in Germania.»
Non suggeriamo banali paralleli storici, né vogliamo sottolineare – è superfluo – il penetrante sguardo sugli sconvolgimenti imminenti di questa aquila del movimento comunista. Solo accoglierne l’incrollabile fiducia nella necessità della rivoluzione, e raccoglierne l’invito a denunciare la passività, l’inerzia e perfino la complicità – attraverso l’apatia, l’indifferenza alle tragedie vissute dai propri fratelli di classe – di un proletariato italiano (e europeo) che davanti al genocidio in Palestina, davanti alla carneficina in atto in Ucraina, si volta dall’altra parte come se non si trattasse del suo stesso destino. Un “destino” che oggi ha la veste dell’inflazione, dei tagli alle spese sociali per finanziare le spese militari, delle misure di disciplinamento sul lavoro, dei veleni contro i “nemici esterni” che lo paralizzano davanti al vero nemico di classe interno. E domani esigerà di pagare con la vita il prezzo dell’allineamento alle “proprie” classi dominanti, quando le guerre al momento “localizzate” verranno a congiungersi in un incendio generale di devastazione e morte, una Gaza, un’Ucraina mondializzate.
I rivoluzionari – se sono tali – non si adeguano allo stato della classe. Né si mettono a fare del populismo operaista. Hanno l’obbligo di parlare chiaro. L’abbiamo fatto al momento dell’invasione russa dell’Ucraina, incuranti di essere tra i pochi a sostenere il disfattismo da ambo i lati. L’abbiamo fatto dopo il 7 ottobre, incuranti del fracasso assordante della propaganda islamofoba e arabofoba (e delle punture di spillo di un falsissimo “internazionalismo puro”). Scontando in ambo i casi l’indifferenza della quasi totalità dei proletari con l’eccezione di una piccola sezione del proletariato di immigrazione organizzata con il SI Cobas (e non solo). A maggior ragione – quale che possa essere l’eco immediata della nostra iniziativa – non possiamo tacere ora che, mentre a Gaza prosegue in un mare di sangue e di devastazione sociale e ambientale il genocidio sionista-occidentale di palestinesi, la guerra tra NATO e Russia in Ucraina compie un balzo in avanti in direzione di uno scontro diretto su grande scala, per scatenare il quale basta un qualsiasi “incidente” (come ha notato la volpe Prodi).
Neppure siamo corrivi con quanti, giovani e meno giovani, si stanno mobilitando come noi al fianco del popolo e della resistenza palestinese. A loro stiamo chiedendo con insistenza di allargare lo sguardo, di intendere che l’eccidio di Gaza per mano dello stato di Israele, lungi dall’essere una vicenda a sé stante, risolubile a sé, è parte della reazione dell’imperialismo occidentale preso nel suo complesso al proprio declino. E che per vincere, la lotta di liberazione palestinese richiede la sollevazione generale delle masse oppresse del Medio Oriente contro i propri regimi borghesi dittatoriali, che sono il puntello arabo della macchina coloniale sionista. A loro che si battono giustamente per la causa palestinese, chiediamo di andare oltre la Palestina e abbracciare la prospettiva di un’Intifada globale dei proletari e degli oppressi che regoli i conti definitivamente con il capitalismo globale – senza nessuna illusione sull’aiuto e sull’amicizia dei capitalismi ascendenti, quali che siano le sirene “anti-imperialiste” che vengano suonate dai concorrenti borghesi degli Stati Uniti e dell’UE.
Due anni fa abbiamo iniziato un cammino di organizzazione delle forze disponibili a battersi con coerenza per far vivere di nuovo anche in Italia l’internazionalismo vero, militante. Lungo questo tracciato siamo arrivati a stabilire rapporti di unità d’azione a scala internazionale con una prima giornata comune di lotta contro le guerre del capitale e l’economia di guerra il 24 febbraio scorso. La drammatica accelerazione dello scontro in corso tra la NATO e la Russia ci spinge a proporre quanto prima un nuovo confronto a tutto campo con quanti hanno condiviso in tutto o in parte questo cammino, per programmare nuove iniziative. La battaglia di classe contro il nemico in “casa nostra” – il governo Meloni e gli apparati dello stato che sono al servizio degli interessi capitalistici – non può certo essere appaltata al pacifismo di facciata del circo-Santoro che, all’occorrenza, scopre che la Nato ci è “provvisoriamente” utile, guai a scioglierla subito; né a quanti scambiano Putin per Lenin e un reazionario della portata di Ali Khamenei per un Ali Shariati. Dobbiamo lavorare a favorire, per quel che sta in noi, una nuova e decisamente più vasta mobilitazione proletaria contro la guerra, che avrà nei sacrifici richiesti dall’economia di guerra in via di strutturazione, e nella resistenza ad essi, un’essenziale e non eludibile scuola di esperienza. Tanto quanto lo sarà la resistenza all’applicazione di misure repressive e punitive delle lotte operaie e delle lotte sociali da parte degli apparati dello stato.
Da partitisti convinti quali siamo, accompagneremo passo dopo passo questo percorso delle masse lavoratrici e giovanili (ottimo segnale, per noi, le mobilitazioni di giovani, proletari e non, a sostegno della causa palestinese) come la componente più radicale del “movimento reale”. Lo faremo con l’attitudine non codista che Luxemburg suggerisce, certi che per le classi sfruttate e oppresse del mondo non c’è salvezza dalle catastrofi del capitalismo, e quella che si profila è la più apocalittica d’ogni tempo, se non nella rivoluzione sociale. Riannodiamo i fili con la grande tradizione rivoluzionaria che fece tremare il mondo borghese un secolo fa. Il tempo di avvenimenti sorprendenti si avvicina.
4 giugno
Tendenza internazionalista rivoluzionaria