- Argentina (9) – IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-’75) – Parte terza. Dalla rielezione di Perón alla vigilia del colpo di Stato
- Argentina (8) – Il nuovo protagonismo del proletariato argentino tra scioperi, insorgenze e guerriglia (1960-’75)
- Argentina (7) IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-1975)
- Argentina (6) – L’ARGENTINA DI ONGANIA: I RETROTERRA DI UNA CRISI
- Argentina (5) – “REVOLUCION LIBERTADORA”
- Argentina (4) – LA CADUTA DI PERON
- Argentina (3) – IL REGIME PERONISTA
- Argentina (2) – L’ASCESA DI PERON
- Argentina (1) – L’ARGENTINA PRIMA DI PERON
Non è possibile comprendere la politica argentina senza comprendere il peronismo. Non è possibile comprendere il peronismo senza approcciarsi al suo mito.
Come abbiamo visto nei precedenti articoli, nell’affermazione del peronismo vi sono delle concrete basi di classe, in cui il capitalismo “nazionale” argentino circuisce il proletariato col welfare e il corporativismo.
Nel particolare, quando un movimento politico di quella portata libera gli ormeggi e naviga in mare aperto non lo si può interpretare semplicisticamente coi meccanismi di “causa-effetto”. Arrivato ad un certo grado di sviluppo e di radicamento sociale, esso – per un periodo più o meno lungo – continua a veleggiare anche per “motu proprio”, in virtù della sua sedimentazione nel “comune sentire” delle masse.
E qui entra il campo il “mito”. Inteso come sublimazione di determinati “input” trasmessi da una politica e/o da un personaggio; assimilati dalle masse lavoratrici come “avanzamento”, “dignità” e “promozione sociale”.
Il fenomeno investe appieno il peronismo, nonostante gli ultimi anni di regime, per gli operai, siano andati per certi versi in controtendenza rispetto agli esordi.
Ma il mito va anche contro l’evidenza.
Tra l’altro, nel caso specifico, non si parla del solo Juan Domingo Perón, ma anche e diremmo soprattutto di sua moglie Eva Duarte, detta familiarmente “Evita”.
Sui muri di Buenos Aires si possono leggere scritte come questa: “Perón cumple, Evita dignifica” (“Perón attua le promesse, Evita dà dignità al popolo”).
Per il popolo argentino ella è più o meno una santa.
Negli anni del sodalizio politico col marito “Evita” non si era risparmiata ad incitare alla riscossa gli strati più umili della società, arrivando a organizzare un movimento peronista femminile e spendendosi a più non posso in opere benefiche e di assistenza .
Tutto questo, in linea coi propositi del peronismo, non mutava nella sostanza la subordinazione sociale e politica del proletariato argentino. Anzi, ne era in un certo senso propedeutica. Ma infondeva una enorme fiducia tra i diseredati e contribuiva a creare tra di essi il mito dell’”anima popolare” peronista.
Quando ella viene prematuramente a mancare (1951) la sua “santificazione” presenta un corpo inanimato da un lato da evocare e dall’altro, perché no…su cui recriminare.
“Se non fosse morta Evita…” diventerà il ritornello che accompagnerà la parabola del peronismo da quel momento in poi. In molti identificheranno la scomparsa di Evita col declino e la fine del primo regime di Perón, del “vero” peronismo.
Nora Sigman (“L’invenzione dell’Argentina”, in “Panamerica Latina”, Limes, 4 -2003) nel narrare le procedure delle infinite esequie di “Evita” si sofferma sulle due giornate di astensione dal lavoro nelle fabbriche e negli uffici del paese, sull’esposizione per ben due settimane della salma nella sala del Ministero del Lavoro, sull edificazione nei quartieri popolari di piccoli altarini con la sua foto attorniata da ceri… Un vero e proprio culto di massa.
Dopo il Golpe del settembre 1955, che costringerà Perón all’esilio, uno degli sfregi che il popolo riterrà più odiosi sarà proprio la profanazione del cadavere di Evita da parte della Giunta golpista e il suo segreto espatrio verso l’estero (l’Italia). Come a dire: il peronismo deve sparire totalmente dalla faccia della terra… Perché questo sarà l’intendimento che animerà la Giunta golpista guidata dai generali Pedro Eugenio Aramburu e Isaac Rojas.
Ma quale rivoluzione?
La “revolucìon libertadora” (rivoluzione liberatrice) come viene definito dai golpisti il periodo da loro inaugurato con la cacciata di Perón (settembre 1955), per Rolo Diez (Op. cit.) consiste nell’ “annientamento della borghesia nazionale e nel super-sfruttamento della classe operaia…riportando in auge uno Stato elitario e classista, senza “giorni peronisti”, senza “Santa Eva” e senza cabecitas negras che si lavassero le “zampe” nella fontana di Plaza de Mayo.”
Il riferimento dell’autore è allo “storico” 17 ottobre del 1945, quando Perón chiama a raccolta i lavoratori, e le strade centrali di Buenos Aires vengono invase – con grande scandalo dei benpensanti – da centinaia di migliaia di “reietti”, in gran parte meticci, interdetti fino allora dal “salotto buono” della capitale.
Riteniamo però che si debba parlare più correttamente di “ridimensionamento” e non di “annientamento” della borghesia nazionale (in primis quella industriale), dal momento che, come nota Marcos Novaro (Op. cit.), le leve dello statalismo, del deficit pubblico e dei sussidi fanno parte dell’armamentario governativo anche nel decennio 1955-’65.
Sul piano dei rapporti inter-borghesi si può casomai notare una ripresa della ribalta da parte della oligarchia e delle industrie ad essa collegate (multinazionali estere) nonché il tentativo dei “libertadori” di cooptare settori del Partito Peronista (nel mentre viene messo fuorilegge l’intero movimento peronista) rilanciando al contempo, sotto ferreo controllo, il ruolo delle correnti conservatrici e del Partito Radicale (UCR).
E’ palese comunque la messa al bando del peronismo in contemporanea al feroce attacco scagliato contro la classe operaia. Per milioni di lavoratori tale equazione di primo grado porta a fare loro ritenere con più forza ancora che: attaccare Perón significa attaccare loro stessi!
Infatti la Giunta militare chiude il parlamento, scioglie la Corte Suprema di giustizia, commissiona i sindacati, impone lo Stato d’Assedio. La Costituzione peronista del ’49 è abolita. Il nome di Perón (Decreto 4161) non si può neppure pronunciare pubblicamente, pena l’arresto…
La risposta dell’opposizione non si fa attendere: scioperi, attività clandestina, attentati. Seguono migliaia di arresti. Manolo Morlacchi (“La linea del fuoco”, Mimesis -2019) calcola che nel solo biennio ’55-’57, oltre alle lotte sindacali, vi sia stata in Argentina una “strabiliante quantità di attentati anti-governativi”, più di 7.000, “superiori a quelli di tutto il conflitto coloniale tra Francia e Algeria”!
Nel giugno del 1956 il peronismo (incitato dal suo leader in esilio) fa il primo tentativo di riprendere il potere mediante una rivolta militare con qualche appoggio civile attivo (vedi: Rodolfo Walsh “Operazione Massacro”, Sellerio Editore – 2002).
Il generale Juan José Valle lancia un proclama in cui si denuncia la “mostruosità totalitaria” dell’operato del governo in carica, chiedendo tra l’altro il ripristino della Costituzione peronista, che impediva di “cedere al capitale internazionale i servizi pubblici e le ricchezze naturali del paese”. Si denunciano inoltre il “regime coloniale” instaurato col Golpe, il “cedimento” al capitale internazionale, “l’assalto” di quest’ultimo ai sindacati.
Per i rivoltosi solo il ritorno di Perón e le libere elezioni possono salvare l’Argentina dalla catastrofe, pur concedendo essi “totali garanzie ai capitali stranieri investiti o da investire”.
Il 9 giugno del ’56 scocca l’ora “X”, ma l’insorgenza dei peronisti è molto approssimativa, diremmo avventurosa. Si crede di poter “sollevare il popolo” con una sola Compagnia di ammutinati, tre carri armati e 300 civili a sostegno, partendo dalla città di Santa Rosa e irradiando la rivolta nel paese. Sarà un disastro.
Walsh valuta in una trentina di esecuzioni, sei morti negli scontri di strada e 20 feriti il bilancio della repressione di Aramburu. Lo stesso autore, intellettuale peronista, verrà a sua volta ucciso dalle squadre della dittatura militare a seguito del Golpe del 1976.
Secondo J.E. Corradi (Op. cit.) il Golpe del ’55 ha come scopo quello di “contenere le tensioni di classe, restringere la partecipazione politica ai partiti delle classi medie e alte, stabilizzare l’economia rafforzando il tradizionale settore dell’export riducendo salari, spese, servizi pubblici e burocrazia statale…per attrarre prestiti e investimenti stranieri diretti.”
Detto in sintesi: “stabilizzazione e denazionalizzazione contro la classe operaia”; implementazione di un “pluralismo conservatore e semi-liberale” dopo aver sbaragliato insieme operai e peronismo.
Un programma di “stabilizzazione” foriero di nuova e ulteriore “instabilità”: non foss’altro per il fatto che non si può debellare il vasto elettorato peronista, legato a sua volta alla persistente influenza operaia della CGT. Per non parlare della polarizzazione politica tra peronismo e anti-peronismo che il Golpe sta esacerbato.
Siamo alla riproposizione del Golpe come misura politica di “riequilibrio” del sistema delegata ai militari da parte della classe dominante (misura che si riproporrà tragicamente, a più riprese, negli anni a venire), ma non si può ancora parlare di “terrorismo di Stato” sistematico e pianificato..
E questo perché l’obbiettivo della “revolucíon libertadora” è sì liquidare il peronismo (assorbendone le parti “riciclabili”), ma al contempo si prova a “stabilizzare” in un moderato liberismo (e nel rinnovato patto con Washington) le misure conservatrici già presenti nella politica economica dell’ultimo Perón. E cioè: fiato all’export, trasferimento di quote di reddito dai settori urbani a quelli rurali, ricorso al capitale straniero, disciplina della forza-lavoro).
Trattasi, per certi aspetti, più che altro di un “riaggiustamento” del peronismo…senza Perón, cercando di tagliare le gambe a quel “protagonismo sociale operaio” messo in moto a suo tempo dal “Caudillo” argentino.
Nel triennio della “revolucìon libertadora” il sistema sprofonda nella recessione.
Cresce il debito pubblico, si formano enormi disavanzi nella Bilancia Commerciale. La nuova struttura industriale, dal momento che si è “aperta” verso l’esterno, abbisogna di maggior credito rispetto alla vecchia. Un credito che serve per l’acquisto di materie prime, carburante, pezzi di ricambio, nonché nuovi macchinari richiesti dalla domanda internazionale.
La “riapertura” alle multinazionali porta a dover dipendere nuovamente, in tutto e per tutto, dall’imperialismo anglo-americano (più dal secondo che dal primo a dire il vero), nonché dal Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Si delinea una situazione fatta di “orge inflazionistiche, arrestate con la deflazione e la svalutazione monetaria imposte dai creditori internazionale” (Corradi), in cui però “la recessione non necessariamente ferma l’inflazione e qualsiasi tentativo di promuovere la crescita economica produce inflazione; e le politiche atte a regolare l’inflazione arrestano la crescita…” (Ibidem)
In sostanza il ciclo mondiale capitalistico di ripresa, le dinamiche internazionali e, forse, l’”azzardo” capitalistico-statale “indipendentista” del peronismo, mettono rapidamente la borghesia argentina nel “cul de sac” di una spirale recessiva che non può trovare soluzione con i Golpe militari; dietro ai quali cercare l’implementazione di una politica economica “ibrida”, raffazzonata.
Dentro una crisi politica che si avvita su sé stessa.
Sempre il Corradi (Op. cit.) nota come in Argentina “più il sistema politico restrittivo è corroso dalle sue contraddizioni interne, più esso diventa vulnerabile all’intervento militare.” E a sua volta: più l’intervento militare va in profondità, più la struttura economica alla fine si indebolisce e mostra le sue crepe.
Un dato politico decisivo va individuato nel rapporto tra golpisti e piccola-media borghesia.
Quest’ultima, per il peso crescente che ha nella società argentina, in maggioranza “sostiene nel ’55 la revolucìon libertadora” (Almeyra), trovando sponda a sinistra nel PCA e nel PSA, nonché in esponenti dell’anarco-sindacalismo (“liberali con la febbre a 40°” direbbe Trotsky): i quali partecipano all’Assemblea Costituente aperta da Aramburu, nonostante questa, interdicendo la presenza del Partito Peronista (Giustizialista), metta praticamente fuori gioco tutto l’elettorato popolare peronista.
Resistenza operaia e C.G.T.
Il divario tra proletariato e “sinistra ufficiale” si allarga sempre di più, radicando tra i lavoratori l’idea che l’unico vero soggetto anticapitalista sia il peronismo; naturalmente “depurato” da politici, amministratori e sindacalisti “corrotti”, che già si sono prestati al compromesso con la Giunta militare.
Fino a quel momento comunque la CGT, pur diversificata al suo interno, è ancora in gran parte sul fronte di lotta. Nel 1957, col Programma di La Falda (rafforzato nel 1962 da quello di Huerta Grande) il sindacato peronista si muove non solo per il ripristino del peronismo, ma anche nel solco del potenziamento dei suoi primi postulati: controllo statale del commercio estero; liquidazione dei monopoli stranieri; indipendenza economica; sviluppo dei consumi interni con innalzamento dei salari; salario minimo; politica energetica nazionale; meccanizzazione dell’agricoltura; controllo operaio della produzione con la partecipazione effettiva dei lavoratori…
Scrive Almeyra: “Erano programmi di governo nazionalisti ma operai, e risentivano fortemente dell’influenza del PdT (Partido de los Trabajadores, NDR) della IV Internazionale trotskysta, che aveva anche ispirato in Bolivia il Programma di Pulacayo della Federazione dei Minatori e quello del patto tra minatori e studenti degli anni ’40.” (Op. cit.)
Sconfitta, divisa, lacerata, la massa peronista inizia una “lunga marcia clandestina” (Corradi) che porterà alla forgiatura di quadri operai intermedi a loro modo “politicizzati” nella CGT; la quale mantiene (anzi, rafforza), pur tra polemiche e scontri interni, l’influenza territoriale a Córdoba, Rosario, Tucumàn, nel Conurbano di Buenos Aires.
Si sedimenta così una educazione all’organizzazione…ma anche al verticismo di stampo localistico legato alla singola realtà, dal momento che un sindacato come quello peronista non può essere scevro da localismo e aziendalismo…
Le caratteristiche storiche del movimento operaio argentino vengono evidenziate da Almeyra (militante rivoluzionario e attivista di fabbrica) nel sunto che egli ne fa agli esordi del XXI secolo:
“Del passato argentino del secolo scorso restano, naturalmente, le tradizioni di organizzazione e intervento diretto che il peronismo ha ereditato dall’anarchia e dall’anarco-sindacalismo, la creatività popolare al di fuori della mediazione degli apparati, evidente durante la resistenza alla cosiddetta “revolucíon libertadora”, oltre alla creazione per mezzo secolo di una rete capillare di dirigenti, dal momento che centinaia di persone sono state delegati sindacali.” (Op. cit.)
Conviene soffermarsi su questo passaggio: la formazione di quadri operai “intermedi” e di base con impostazione “politico-sindacale”, legata strutturalmente alla CGT e non ad un partito politico.
Questa cosa, nei risvolti tortuosi e tormentati della lotta di classe che si vanno preparando, fornirà un solido retroterra di “radicalismo operaio” nelle fabbriche e pure nei quartieri, senza però avere mai un saldo punto di riferimento politico in grado di “unificare” un simile “radicalismo operaio”.
Dobbiamo considerare inoltre come già da quel periodo venga formandosi una leva operaia in netto contrasto col burocratismo e la conciliazione di parte dei vertici della stessa CGT.
I quali da un lato non vogliono essere schiacciati; ma dall’altro, proprio per questo, non disdegnano il “dialogo” con i militari. Si costituisce così un “Comitato Intersindacale” (peronisti di sinistra, stalinisti, trotskysti) che comincia a tessere una rete organizzativa la quale porta nel ’57 ad uno sciopero generale di due ore contro il governo a cui aderiscono più di due milioni di lavoratori.
La pratica di autorganizzazione, di formazione di dirigenti “ad hoc nella lotta e per la lotta” (Almeyra) diventa parte integrante della coscienza collettiva…”a prescindere dal fatto che i lavoratori continuassero a sperare nel ritorno di Perón e a dare legittimità alla riorganizzazione della burocrazia sindacale peronista.” (Ibidem)
La “lunga marcia peronista” darà i suoi frutti, se nel 1960 (A. Rouquié, Op. cit.) su un totale di popolazione attiva pari a 8.122.400 unità, gli iscritti al sindacato sono 2.576.186, pari al 31,7%. Facendo un confronto coi paesi più sviluppati dell’area abbiamo il Brasile con 23.419.000 attivi e 2.500.000 iscritti al sindacato (il 10,6%), il Messico con 11.332.000 attivi e 2.101.945 iscritti al sindacato (il 18,5%).
Il “nuovo” vento imperialista
La situazione sta sfuggendo di mano ai militari. Il peronismo è radicato nel paese, in particolare tra le masse operaie, che non ci stanno a sottomettersi. Inoltre, la situazione internazionale sta volgendo verso la ripresa del protagonismo dell’imperialismo statunitense. Questi cerca nella “collaborazione” l’arma di penetrazione nel subcontinente latino americano.
L’America Latina conta 150 milioni di abitanti, 2/5 dei quali di età inferiore ai 15 anni, col 30% destinato a morire prima dei 50 anni, il 50% in condizioni di analfabetismo, mentre il 2% detiene la metà della ricchezza a fronte del 70% che vive in miseria (A.Schlesinger: “I mille giorni di Kennedy”).
Come abbiamo visto, la seconda guerra mondiale porta l’imperialismo britannico ad un ruolo di second’ordine in America Latina, a tutto vantaggio di quello statunitense.
Quest’ultimo, dopo essere stato assorbito per quasi tutti gli anni ‘50 in Europa e nel S/E asiatico (guerra di Corea), sul finire del decennio cerca di rilanciare tale predominio in America Latina con un piano di intervento che sfocerà nel ’61 (sotto la presidenza di J.F. Kennedy) nella “Allenza per il progresso”.
Un programma di investimenti americani che dovrebbe spingere i governi dell’America Latina a “sistemare i loro conti interni” allo scopo di rilanciare commerci e infrastrutture.
Il “do ut des” previsto dal piano americano è però nettamente squilibrato a vantaggio di Washington (80 miliardi di $ in 10 anni richiesti ai paesi del Sud America contro appena i 20 degli USA…
Dal momento che l’America Latina è fortemente indebitata e i profitti degli investimenti ritornano agli USA, tutta la costruzione è evidentemente tesa a riprendersi con gli interessi, seppur “democraticamente”, i capitali impiegati come prestiti.
Nel Piano si ricerca la “stabilità dei prezzi contro inflazione e deflazione”, si auspica la riforma agraria, la pianificazione economica e sociale, la progressività fiscale, “l’incremento annuo del 2,5% degli introiti pro-capite. Tutti obbiettivi andati rapidamente in fumo.
Di certo, una “svolta” di questo genere del principale imperialismo mondiale e d’area impone un cambio di passo alla politica dei singoli Stati. Visto specularmente, è anche vero che un simile Piano viene varato per contro-arrestare il pericolo proveniente dalla rivoluzione cubana (1959); la quale sta già innescando movimenti simili in vari paesi del continente.
Si deve sottolineare come l’imperialismo vada valutato in primo luogo per la sua forza economica e politica; la quale sfocia certamente nella violenza, anche la più efferata, ma non si fonda esclusivamente su di essa.
L. Incisa di Camerana (“Il terzo Occidente”, Limes 4-2003) nota come il FMI abbia “accompagnato” l’Argentina fin dal 1956 con 34 prestiti concessi “mentre i governi hanno fatto liberalizzazioni, privatizzazioni, ancorando il peso al dollaro, svendendo tutto il sistema bancario e facilitando la fuga dei capitali all’estero.”
Tutto ciò non deve allo stesso tempo far dimenticare che, nel mentre l’imperialismo interviene, in paesi come l’Argentina ed il Brasile si sviluppa il capitalismo nazionale!
Nel 1960 si andrà a formare l’ALAC (Asociaciòn Latino Americana de Libre Comercio) composta da Argentina, Brasile, Cile, Messico, Paraguay, poi da Colombia, Ecuador, Venezuela, Bolivia, la quale porterà – piuttosto che a un piano di industrializzazione su base regionale – ad una temporanea (ma significativa) “zona di libero scambio”.
E il fatto che dopo poco gli Stati interessati litighino su grano e petrolio (V. Giannattasio in: R. Nocera-P. Wulzer, Op. cit.) dimostra a sua volta l’esistenza di un rapporto (contraddittorio) non solo tra imperialismo e borghesie nazionali ma anche tra queste ultime.
Paesi dipendenti, dunque, che sviluppano capitalismo e una classe dominante nazionale in tutte le sue articolazioni: la quale può entrare in contrasto con l’imperialismo (cosa che apre al proletariato delle questioni tattiche che vanno affrontate); ma non per questo il paese in questione viene a rappresentare in automatico un modello di socialismo e di lotta rivoluzionaria.
Sarà tale l’equivoco di fondo che, prendendo spunto dalla rivoluzione democratica e antimperialista cubana (paese non paragonabile socialmente e politicamente con i capitalismi d’area più sviluppati come l’Argentina), trascinerà nella confusione politica i partiti trotskysti latinoamericani, e non solo.
Peggio ancora: trascinerà nella confusione una leva numerosa e determinata di militanti e quadri operai sinceramente rivoluzionari, convinti che la “lotta nazionale” facilitasse di per sé la lotta per il socialismo. O addirittura ne costituisse il fondamento inderogabile.
Riecco i partiti: Frondizi e il “desarrolismo”T
Tornando alla questioni interne dell’Argentina, la borghesia si vede costretta a cambiare le carte e rispolverare quella del radical-liberalismo dell’ Uniòn Civica Radical (UCR).
Questo partito, vagamente progressista, diremmo di centro-sinistra per stare ai canoni italiani, nato nel lontano 1891, è un coacervo di correnti e di fazioni, anche locali e personalistiche.
Nel ’56 si è spaccato in due componenti principali: quella “moderata”, liberal-conservatrice e socialdemocratica di Ricardo Balbìn, collusa con la “revolución libertadora” dei generali (UCPR), e quella “intransigente” di Arturo Frondizi, che sta approcciandosi a Perón.
Da notare che Frondizi è un vecchio oppositore di Perón (pure incarcerato per questo sotto il regime), ma è anche quello che si mette in sintonia con le novità che arrivando dagli USA , sostenendo il “desarrolismo”. Il termine sta a indicare una linea di crescita industriale portatrice di per sé stessa di progresso e civiltà (senza bisogno di riforme sociali). Una linea “sviluppista”, “tecnocratica”, che dovrebbe, secondo Frondizi, “unificare” le classi sociali del paese. L’uomo comprende benissimo che tutto questo non è proponibile senza un rapprochement dichiarato con Peron e col suo movimento ancora fuorilegge.
Alle elezioni presidenziali del febbraio 1958 Frondizi, infatti, si allea coi peronisti, riuscendo così a prevalere (4 milioni di voti contro i 2,5 di Balbín).
Cerca subito l’appoggio fattivo di industriali e operai, indicando nella proprietà fondiaria il nemico da ridimensionare. Riforma in senso “privatistico” l’Università. “Apre” al capitale monopolistico firmando accordi con compagnie estere petrolifere, energetiche, manifatturiere (auto), sempre sotto l’attenta vigilanza del FMI. Incrementa i trasporti pubblici ma anche il debito pubblico. Non nasconde delle “timide simpatie cubane” (Corradi). Legalizza il movimento peronista, provocando l’ira di gran parte delle FFAA.
Su queste basi, la stabilità politica rimane un sogno. In quattro anni di mandato (1958-’62) “il governo subisce 32 atti di insubordinazione da parte dei militari” (D. Padoan, Op. cit.),trovandosi al contempo a dover reprimere la resistenza peronista: la quale ha ripreso la sua campagna di attentati agli impianti industriali e civili, di sabotaggi e scioperi.
L’appoggio a Frondizi, per i peronisti, è stato solo un espediente allo scopo di ritornare a galla e rivendicare con più forza il ritorno del “Capo”.
Tra un tentativo e l’altro di buttare giù Frondizi con un nuovo Golpe, si giunge alla riedizione di un governo politico più “moderato”: tocca all’ UCPR di Arturo Umberto Illia (1963). Non prima che il generale Juan Carlo Onganìa abbia di nuovo messo fuorilegge il movimento peronista. Non a caso, alle elezioni provinciali del 1962 il P.J. (Partido Justicialista) aveva preso 1/3 dei voti (!), conquistando 45 degli 86 seggi alla Camera dei deputati, e 10 dei 14 governatori.
Dopo otto anni dalla cacciata di Perón il suo movimento rimane la spina nel fianco della politica argentina. Anzi, con questa forza rinnovata il peronismo ora non solo può condizionare ancor di più il governo “radicale” di Illia, ma – in cooperazione con raggruppamenti minoritari di estrema sinistra e indigenisti – scatenare il “focos” della guerriglia nel N/O del paese.
L’intento è di saldare tale guerriglia con le durissime lotte operaie degli zuccherifici di Tucumàn. Si vuole accelerare il ritorno di Perón disarticolando il blocco di potere incentrato sull’asse oligarchia-militari. Il voto che sancirà la rivincita di Perón è visto dai peronistri come il terminale di un vasto movimento di massa in grado di imporre l’ordine sociale e politico “violato” nel ’55.
L’equivoco della “sinistra rivoluzionaria”
Dal canto loro i gruppi della sinistra rivoluzionaria più attivi, dopo aver “scartato” ogni possibilità di collaborazione coi “filo-russi” del PCA, cercano di innescare nella suddetta “saldatura di lotta” un processo di “sommovimento continentale”, sposando: guevarismo, marxismo e indigenismo (molti degli operai tucumani hanno ascendenza quechua, ancora di più i montanari).
Gli zuccherifici del Tucumàn rappresentano fisicamente l’intreccio tra lo sfruttamento economico-sociale e quello coloniale (per di più sotto il controllo delle multinazionali USA).
Nel 1961 nasce il FRIP (“Frente Revolucionario Indoamericano Popular”), che sulle montagne del Tucumàn si mette alla testa dei guerriglieri “Uturuncos” (Uomini Tigre).
In quella zona è già attivo Mario Roberto Santucho (detto “Roby”). Partendo dalla riscoperta della cultura indigena (al punto che impara la lingua quechua, quella del “pueblo antiguo”), Santucho comincia a rafforzare il FRIP nella zona, avendo come suoi maestri José Carlos Mariàtegui (tra i fondatori del PC peruviano, considerato uno dei più grandi pensatori marxisti del Sudamerica) e José Gabriel Condorcanqui “Tupac Amaru”, condottiero del sollevamento anticolonialista del XVIII° secolo. Sentiremo ancora parlare di lui.
L’attrazione della rivoluzione cubana è fortissima. La “chiusura anticomunista” di Washington aveva favorito colpi di Stato in Venezuela e Perù (’48), a Cuba (’52), in Colombia (’53), una “democrazia tutelata” in Brasile; la defenestrazione di Perón (’55) e la messa al bando del PC in Cile.
Dopo la rivoluzione, Fidel Castro annuncia un nazionalismo “popolare” che si sgancia dai dettami USA per guardare al modello URSS. Nikita Kruscev, dal canto suo, orienta la politica estera russa verso il “Terzo Mondo” e i movimenti anticoloniali in funzione antiamericana.
Nell’aprile del ’61 Cuba proclama il “carattere socialista” della sua rivoluzione…”per la prima volta dal 1823 un paese Latino Americano violava in modo lampante i postulati della dottrina Monroe.” (V. Pettinà in: R. Nocera-P. Wulzer. Op. cit.)
Anche se “Mosca è contro il foquismo latino americano”; quello stesso che in tutto il Centro e Sudamerica viene invece assurto a simbolo della lotta rivoluzionaria da partiti e movimenti di estrema sinistra, seguendo le orme del “Che” e di Régis Debray.
In sintesi: dal piccolo gruppo armato (il “focolaio”) all’insurrezione di popolo.
Cuba, nonostante il suo progressivo allineamento alle “ragioni di Stato” dell’URSS, rimane per anni una base ideologica e pratica della guerriglia (campi di addestramento, armi, “esperti militari”, reparti militari).
Anche dall’Argentina i rivoluzionari fanno proprio il motto di Guevara “il dovere di ogni rivoluzionario è fare la rivoluzione”. L’indicazione è indiscutibile. Si tratta poi di vedere in cosa consista quel “fare”.
Cosa importante, perché l’equivoco della “lunga marcia del peronismo” non per mettere di sciogliere alcuni nodi politici dirimenti. Uno di questi è riferito alla “natura” del nazionalismo argentino targato Perón.
G. Almeyda, espressione del travaglio di quella generazione politica, vede in esso un “nazionalismo che si sposa col continentalismo”, tanto da sorreggere le mobilitazioni sociali latino americane da parte della “Centrale Sindacale Continentale Peronista” ATLAS.
“Quel” nazionalismo argentino, per Almeyda, sarebbe “escludente e xenofobo” ma “antimperialista” (contro USA e Gran Bretagna), contro la Chiesa sui diritti civili (divorzio), finendo “per coincidere col nazionalismo “popolare”, influenzato dall’anticolonialismo e dall’URSS.” (Op. cit.)
In conclusione: un nazionalismo di questo genere, se per Perón si traduce in “Potenza dell’Argentina”, per gli operai peronisti diventa “Patria Socialista”. Una cosa per nulla negativa.
E invece per noi è negativo che la sinistra rivoluzionaria non sia stata in grado di elaborare, o di elaborare a sufficienza, tutta la pericolosità insita in un simile connubio Patria-Socialismo.
Stavano di certo sul tappeto i problemi inerenti ad un paese “dipendente” come era l’Argentina. Cosa che comportava anche l’appoggio tattico del proletariato ad alcuni momenti dello scontro del peronismo contro l’imperialismo (nazionalizzazioni, politica sociale, diritti politici e civili…). Così come comportava il dovere per i rivoluzionari di lavorare nei sindacati di massa peronisti e negli organismi di lotta prodotti dalla classe.
Tutto ciò però avrebbe dovuto portare, al contempo, alla netta presa di distanza politica dalle organizzazioni peroniste e dalla ideologia peronista.
A dire il vero, come accennato in precedenza, qualcuno agli esordi degli anni ’60 inizia pur a prendere questa distanza…appoggiandosi però sul nuovo “verbo” della guerriglia guevarista…quando proprio dal 1950 fino al 1970 “esplode” l’urbanizzazione nell’intera America Latina.
La popolazione cittadina, nel periodo suddetto, passa infatti dal 39% al 54% della popolazione complessiva. (A. Rouquié) Per il movimento rivoluzionario si impone una maturità d’analisi, di prospettiva strategica e di forme di lotta consone alle dinamiche della mutata realtà di classe.
(Continua)