- Argentina (9) – IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-’75) – Parte terza. Dalla rielezione di Perón alla vigilia del colpo di Stato
- Argentina (8) – Il nuovo protagonismo del proletariato argentino tra scioperi, insorgenze e guerriglia (1960-’75)
- Argentina (7) IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-1975)
- Argentina (6) – L’ARGENTINA DI ONGANIA: I RETROTERRA DI UNA CRISI
- Argentina (5) – “REVOLUCION LIBERTADORA”
- Argentina (4) – LA CADUTA DI PERON
- Argentina (3) – IL REGIME PERONISTA
- Argentina (2) – L’ASCESA DI PERON
- Argentina (1) – L’ARGENTINA PRIMA DI PERON
A seguito della Grande Depressione si apre in Argentina un periodo in cui alle contraddizioni economiche del capitalismo nazionale si va intrecciando una instabilità politica endemica.
Nel 1930 i militari provano a prendere in mano la situazione attuando il primo Golpe della storia nazionale (gen.Urriburu). Con scarsi risultati pratici, segnati da frequenti cambi al vertice, da frodi elettorali, se si eccettua la messa a punto di una repressione sistematica anti-operaia (condita di anti-giudaismo) e più in generale di caccia al “nemico interno”.
Il decennio sarà ricordato come la “decade infame”.
I grandi latifondisti (frazione dominante della borghesia) cercano di reagire al crollo dei prezzi di cereali e carne appoggiandosi ai militari. Il consenso di fatto al Golpe da parte della Chiesa, dei radicali e dei socialisti, favorisce (gen. Justo,1932) l’implementazione di una larvata “dittatura militare”, la quale conserva comunque l’involucro formale della democrazia rappresentativa e dello “Stato di diritto”.
In tale contesto le FFAA iniziano ad esercitare un proprio “ruolo sociale”: teso a “mediare” tra le frazioni borghesi (in particolare con una piccola e media borghesia politicamente sotto-rappresentata), in virtù del loro essere “scala di mobilità sociale diretta verso l’alto”. (Juan E.Corradi: Una repubblica in bilico”, Edizioni Unicopli -1988)
In sostanza un apparato di potere attraverso il quale settori della declassata “classe media” possono “promuovere” i loro rampolli e aspirare ad assumere ruoli di una certa importanza.
Il quadro generale (che pur vede un + 9% della produzione nazionale tra il ’29 ed il ’38) muta decisamente con lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Scrive Anabela Di Giovanni (“Cile e Argentina, due casi a confronto”, CESPI -genn.1992) che l’economia argentina “cominciò verso gli anni ’40 ad avere una base propria, mentre nel mondo si notava chiaramente che il dominio britannico cedeva il passo a quello nordamericano. In ogni modo (ciò)… creò un vuoto geopolitico che consentì uno dei momenti di maggiore autonomia internazionale della storia argentina. Tale fenomeno fu favorito da un precedente accumulo di riserve a un livello mai conosciuto prima e da una nuova autonomia finanziaria.”
Nel 1934 era stato fondato il “Banco Central” (diretto da Raúl Prebisch), espressione di una chiara tendenza al “dirigismo economico di Stato”, seppur la Gran Bretagna tenesse ancora sotto il suo controllo il commercio estero e le più importanti infrastrutture nazionali: ferrovie, telefoni, trasporto urbano, rete elettrica).
Con la guerra prende corpo un consistente surplus commerciale dell’Argentina verso le potenze Alleate, ed anche nei confronti dei vicini Stati Sudamericani. Si accumulano dollari nei depositi del “Banco Central” e dunque risorse per accelerare sull’industrializzazione interna.
Accompagna un simile processo un “enorme flusso migratorio” (Loris Zanatta: “Il peronismo”, Carocci -2008) che renderà a sua volta estremamente “friabile” tutto il tessuto sociale.
Gli interessi della classe dominante argentina sono proiettati prevalentemente verso gli anglo-americani, ma la casta militare che tiene sotto controllo il potere è in gran parte filo-nazista.
Ciò potrebbe spiegare la “neutralità” del paese verso i due blocchi imperialisti in guerra, ma non perché avvenga comunque un altro colpo di Stato militare (giugno 1943) e con quali finalità di politica interna ed estera.
Qualche spunto illuminante a riguardo ce lo fornisce il già citato J. E. Corradi:
“La corruzione del regime civile conservatore, l’impotenza e la mancanza di prestigio dei partiti di opposizione, i pregiudizi filo-tedeschi e l’antagonismo col Brasile, provocarono l’intervento militare. Con quest’atto, gli ufficiali volevano assicurare l’egemonia argentina sul subcontinente e aspiravano a varare un programma di rigido controllo politico e di massicci investimenti industriali.”
Stavolta non si tratta solo di “restaurare l’ordine” o di supplire alle carenze della rappresentanza politica favorendo la frazione più forte della classe dominante, ma di fare politica “in proprio”, con l’ambizione di cambiare i connotati al paese, di forgiare la “Grande Nazione argentina”. E con essa “l’homo argentinus”.
Il liberalismo di matrice ottocentesca, che aveva comunque sostenuto l’emergere di una borghesia agrario-liberoscambista, non risponde più all’esigenza di una rapida industrializzazione “nazionale”, in grado di sostenere l’ambizione di conquistare il primato continentale ed un ruolo privilegiato dell’Argentina nel mondo per come esso emergerà dopo la guerra.
Alla bisogna, i militari ritengono più funzionale il fascismo, il corporativismo, una “democrazia organica” fondata su Dio e Patria, sull’argentinità”, sull’educazione cristiana, nonché sul disprezzo per i partiti, il liberalismo, le ideologie “straniere”, delle quali il comunismo è considerato la quintessenza…
Di tale nuova casta di ufficiali, protagonisti del colpo di Stato del ’43, fa parte il colonnello Juan Domingo Peron. Notare: colonnello. Lui, come altri suoi pari, appartengono ad un gruppo di ufficiali “emergenti”, il GOU (Grupo Oficiales Unidos);i quali, pur sottoposti in tale occasione ai gen. Pedro Ramìrez e Arturo Rawson, hanno in serbo grandi propositi per l’avvenire.
Perón, 48 anni, professore di storia militare alla Esquela Superior de Guerra, negli anni ’30 si è recato in Europa, rimanendo affascinato dall’organizzazione e dalla liturgia dei fascismi (italiano, tedesco e spagnolo). Ne apprezza in maniera particolare l’ordinamento corporativo, che comporta l’inserimento “totale” dei sindacati nello Stato.
Dopo il Golpe del ’43 va a dirigere la “Secretaría de Trabajo Y Previsión”, in pratica il Dipartimento del Lavoro, dal momento che non esiste ancora un ministero apposito.
Ha così modo di incontrare molti dirigenti sindacali, a cui prospetta un sindacato “nazionale” dove la classe operaia sia parte integrante dello Stato (“dentro lo Stato; non contro né fuori di esso”; concezione presa totalmente dal fascismo).
Gran parte del sindacato CGT aderisce a un progetto del genere. Il proletariato urbano è in forte crescita. Perón ne intuisce l’importanza sociale e politica puntando ad una sua manipolazione. Il sindacato a sua volta ritiene che debba essere colta un’occasione irripetibile per uscire dalla gabbia repressiva e far avanzare la condizione dei lavoratori.
Come accennato, la condizione è favorevole. Nel 1944 la produzione industriale ha già la percentuale più alta della produzione totale. Dal ’35 al ’46 gli stabilimenti industriali passeranno da 40 mila a 86 mila. Gli operai aumenteranno di oltre mezzo milione di unità. Con un grosso problema però: la bassa concentrazione dell’industria “nazionale”.
Non solo: i propositi di impiantare una consistente industria nazionale “pesante” (propositi che animano la visione peronista) non avranno successo.
L’industria nazionale argentina, fatta più che altro di produzione di beni di consumo, è poco concentrata perché la frazione dominante agrario-commerciale (l’oligarchia, legata al capitale anglo-americano) dirotta la maggior parte dei profitti verso finanza, traffici e industria della conservazione della carne (legata agli agrari e diretta in prevalenza verso l’export).
L’intento dell’oligarchia è quello di fare dell’Argentina una potenza commerciale più forte senza passare dallo sviluppo di un’industria pesante e da quello della manifattura nazionale. La crescita dei consumi interni (vitale per la “modernizzazione”) sarebbe dovuta derivare dall’importazione dai “paesi dominanti”. Che è poi il “modello” finora prevalente nel capitalismo argentino, sostenuto dai partiti “tradizionali” liberale e radicale.
Ragion per cui i settori industriali della borghesia prendono piede con fatica, sorgendo spesso dalla piccola-media industria, con una sottocapitalizzazione che non favorisce la concentrazione.
Perón individua nel declino britannico e nel rapporto conflittuale (anche se non troppo) con gli Stati Uniti l’occasione per fare dell’Argentina una potenza in grado di sopravanzare il Brasile come polo di tutto il continente sudamericano.
Ciò non va inteso che nel programma di Perón sia presente una “marginalizzazione” dell’oligarchia agraria. Piuttosto un suo ridimensionamento, soprattutto politico.
Nota giustamente J.E. Corradi come l’allevamento, la produzione dei cereali e delle materie prime agricole, nonostante siano state sorpassate come volume dall’industria manifatturiera, rimangano strategiche per la classe dominante.
Si è perciò di fronte a “una transizione senza rivoluzione sociale”. Ad un settore industriale che sostiene la propria crescita affidandosi ancora alle industrie chiave dei paesi dominanti…
“E’ un’industria ad alto costo, incapace di far fronte alla concorrenza internazionale. (Essa) non abbassa i costi di allevamento e agricoltura dai quali dipende per la valuta estera delle sue forniture…L’industrializzazione fece parte della strategia degli agrari che tentarono di abbassare le importazioni al livello delle esportazioni…L’industria, quindi, sorse come conseguenza del loro adattamento a condizioni meno favorevoli nel mercato mondiale.
Il nuovo ordine economico nacque deforme e la sua crescita successiva racchiuse una serie di punti deboli che si consolidarono autonomamente.” (Op. cit.)
A tale nodo strategico dello sviluppo del capitalismo nazionale cerca di mettere mano l’emergente colonnello Peron, affidandosi ad un “patto sociale” con la classe operaia, settori di piccola e media borghesia (delle professioni, dell’industria, dell’agricoltura), di studenti (il FUA, Federacíon Universitaria Argentina), di parte del grande capitale industriale e naturalmente delle FFAA.
Ciò avviene attraverso il legame dello stesso Perón col gen. Edelmiro Farrel, il terzo protagonista del Golpe appena attuato. L’operazione è possibile – e al contempo necessaria – in quanto manca un vero e proprio “partito industriale”.
Lo scontro tra l’ala “tradizional-conservatrice” delle FFAA e quella “nazional-riformatrice” (Ramirez- Rawson da una parte, Farrel-Perón dall’altra) non tarda ad emergere.
Nel ’44 Perón è ministro della Guerra, ministro del Lavoro e vice-presidente. Pur essendo egli ideologicamente vicino alle concezioni fasciste, non tarda a prendere prima le distanze da Germania e Giappone per giungere poi, nel marzo del 1945, a spingere il governo argentino alla dichiarazione di guerra contro l’Asse (previo “riavvicinamento” commerciale con l’URSS).
L’anno successivo si allentano le restrizioni e i divieti del regime militare, giungendo contestualmente a soluzione lo scontro interno ai vertici delle FFAA.
Un putsch dei “conservatori” (settembre ’45) porta temporaneamente agli arresti Peron, ma la pronta e vastissima mobilitazione di popolo (con gli operai in sciopero, 200 mila circa, che occupano Buenos Aires) costringe alla ritirata i “conservatori”.
Perón viene liberato e da quel momento comincia la parte finale della sua ascesa al potere.
E’ il 18 ottobre 1945; ed è il giorno in cui avviene, con numerosi scontri ed il presidio operaio a Buenos Aires in Plaza de Mayo, la “saldatura” tra il futuro presidente argentino (sarà eletto nel febbraio del 1946) e i cosiddetti “descamisados”.
Chi sono questi ultimi? E, più in generale, qual è la situazione del proletariato argentino che si “affida” alle “cure” di un militare coi precedenti che abbiamo visto?
I “descamisados” (cioè persone con la camicia aperta e senza giacca, gente disprezzata in quanto era usanza circolare per il centro di Buenos Aires vestiti elegantemente) stanno a rappresentare il proletariato più povero, quello ai “margini” della vita sociale, per nulla considerato. Un settore di classe di tal genere, in forte espansione visto anche il livello migratorio, è prontamente inquadrato da Perón come ottima “massa di manovra”, tenuto conto del sostanziale disinteresse verso di esso da parte dei vertici sindacali e la “puzza al naso” della sinistra.
Alejandro Grimson (“Che cos’è il peronismo?”, Castelvecchi -2021) parla di una cultura della sinistra argentina “importata dall’Europa”, portatrice di una concezione “aristocratica e razzista del lavoro da parte di PCA e PSA”; cosa che “consegnerebbe” le masse operaie a Peron. Una sorta di identificazione tra razza “bianca”, “civiltà“ e “progresso”.
Inoltre, essa sarebbe caratterizzata da un antifascismo “intriso di razzismo”, e – in economia – da una poco dissimulata propensione “liberista” (cosa che la spinge periodicamente ai “blocchi” con gli agrari-alimentaristi).
In poche parole: per la maggioranza dei proletari argentini riformismo e stalinismo sono portatori di sconfitta, di inconcludenza, di divisione. Diremmo di lontananza.
Nel 1942 PSA e PCA hanno spaccata in due la CGT; la quale di lì a un paio d’anni è diventata, con Perón l’unico sindacato riconosciuto dallo Stato. Investito della facoltà non solo di elaborare piattaforme rivendicative, ma anche di indire scioperi per sostenerle, con il benestare del governo e di settori della Forza Pubblica. Cose mai viste neppure lontanamente in circa 130 anni di storia patria…
A cavallo tra il XIX e XX secolo l’anarchismo e l’anarco sindacalismo svolgono un ruolo di peso nel movimento operaio argentino. Essi, insieme al PS (fondato nel 1896), hanno un seguito tra i ferrovieri, i minatori, gli edili ed i portuali. Nonché tra camerieri e domestici. Nel 1905, così come nel 1909, si registrano forti scioperi (compreso lo sciopero generale) repressi con violenza al costo di vittime, feriti e arresti da parte dello Stato.
E’ il periodo di una proletarizzazione proveniente da un’Europa investita appieno dall’avanzata delle correnti socialiste e anarchiche, oltre al fatto che l’insediamento industriale attinge gli operai specializzati prevalentemente dall’artigianato. Operai in grado di elaborare una coscienza politica, seppur frequentemente condizionata dal “mestiere”.
Si formano così le prime direzioni politiche e sindacali operaie: nel 1891 la “Federacíon de Trabajadores de la region argentina”; nel 1904 la FOA (“Federacìon obrera argentina”, anarco-sindacalista), la quale, soppressa, si ricostituisce in FORA (“Federatíon obrera national argentina”), dentro una situazione repressiva a tal punto che – con leggi specifiche – i capi operai provenienti dall’immigrazione sono soggetti alla deportazione.
Nel corso del secondo decennio del ‘900 i socialisti prevalgono (con l’UCT, “Unión Central de Trabajadores”), facendo penetrare tra gli operai posizioni interclassiste di “unione coi ceti medi”. Nel 1918 da scissione del PSA nasce il Partito Comunista Argentino, che aderirà successivamente alla III Internazionale. Anche in Argentina scoppiano violenti scontri sociali, culminanti nella “settimana tragica” del gennaio 1919 e nella strage di lavoratori in Patagonia (tra il ’20-’21 ne saranno uccisi circa 2.000).
Il proletariato argentino, in via di formazione e poco concentrato, sottoposto a repentini mutamenti al suo interno, represso duramente, senza punti di riferimento continentali, sconfitte a livello internazionale le correnti rivoluzionarie, sarà così ridotto all’impotenza a fronte del dilagante nazionalismo che preparerà la seconda guerra mondiale.
Come si può vedere da questi brevissimi cenni, il corpo sociale del proletariato su cui “affonda” Perón è già in qualche maniera “predisposto”.
Con ciò non si deve assolutamente sottovalutare l’opera di proselitismo e di penetrazione da questi compiuta.
Si parlava dei “descamisados”, ma in realtà non saremmo di fronte ad una “adesione peronista” da parte dei soli “settori marginalizzati” dei lavoratori.
J.E. Corradi si sofferma sulla presenza nelle mobilitazioni del ’45 di operai “non-organizzati e neo-immessi”, in gran parte provenienti dagli stabilimenti di lavorazione della carne, “ad ampie sperequazioni salariali e alla disoccupazione stagionale.” Lavoratori fino allora considerati poco o per nulla organizzabili dai dirigenti social-comunisti della CGT.
A.Grimson rifiuta la tesi che il peronismo sia “frutto di masse arretrate”, dal momento che molti studiosi e commentatori si limiterebbero a vedere nei migranti dell’ultima ora, privi di “tradizione politica” (“gli indigeni, per i peronisti la vera Argentina”) i veri protagonisti del nuovo movimento.
Secondo dati in suo possesso, meno del 20% dei lavoratori manuali della “Grande Buenos Aires” sono migranti. Nel 1946, quando Perón verrà eletto presidente, nella capitale il voto peronista giunge solo per l’8% dai migranti. Emergerebbero nel “peronismo” “sindacalisti giovani, di ogni provenienza”, animati dal proposito di coniugare l’emancipazione economica del paese con quella della classe operaia. Non per niente in Plaza de Mayo, il 18 ottobre del ’45, troneggia una sola bandiera: quella bianco-celeste dell’Argentina.
La forza del movimento suscitato da Perón consiste nel condurre una “manovra avvolgente, unificante, di massa” nei confronti del proletariato, contrapponendolo alla “Oligarchia”. Cioè a quelli che han sempre comandato e che ora sono costretti a fare i conti con le rivendicazioni dei lavoratori, di tutti i lavoratori. I sindacalisti peronisti chiedono aumenti salariali, diritti, “Welfare” universale.
Scrive Grimson: “L’unificazione politica della classe operaia nel ’45 avvenne in un contesto di elevata eterogeneità… E’ il timore della offensiva padronale a darle un’unità identitaria.”
Nel mentre la sinistra opportunista chiama gli operai alla lotta “per la democrazia contro il fascismo”, Perón fa appello alla lotta contro “oligarchi e padroni”.
Fa niente se poi – dietro questa lotta “anti-padronale” – vi sono pure quegli industriali “nazionali” (grandi e piccoli) i quali vedono di buon occhio una mobilitazione in grado di scalzare dal trono il blocco “agrario-commerciale”, che ha sempre tarpato le ali all’industria “di casa”!
Un appello del genere non è solamente “elettorale”. E’ materiale, tangibile. I soldi ci sono. Nei forzieri del “Banco Central” sono depositati 1 miliardo e mezzo di dollari. L’economia “tira”. La disoccupazione è ai minimi termini storici.
Vi sono le condizioni per provare a collocare il capitalismo argentino in una posizione “privilegiata”, facendo leva su un “riformismo autoritario” a base di massa operaia.
La “patente” nazionale rilasciata da Perón agli operai è incardinata sui seguenti punti: benefici economici, cittadinanza sociale, rispetto e dignità. Egli si presenta ai comizi che preparano le elezioni presidenziali in maniche di camicia, avendo a suo fianco la moglie, una ex attrice, Maria Eva Duarte.
Ella, diventata presto popolarissima tra le masse, assumerà il nome affettuoso di “Evita”, sviluppando con maestria un movimento populista aperto al protagonismo femminile.
Cosa a quel tempo inimmaginabile in un paese ancora socialmente e culturalmente sottoposto alla misoginia clericale.
Si sta aprendo un’era piena di speranze per i lavoratori argentini, per i giovani, per le donne.
Un’era che sarà risucchiata ben presto dai flussi del profitto e della stabilizzazione borghese.
(continua)
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