Lorenzo
Cremonesi
La replica al dossier
americano dal ministero dell’Informazione: «Non c’è pacificazione regionale
senza di noi». Mourad, direttore di un quotidiano: «Serve una nuova politica
Usa»
DAMASCO — Soddisfazione è ancora dire poco. «Finalmente
gli americani iniziano a capire la gravità degli errori commessi in Iraq.
Avevamo ragione noi. Ma non è affatto certo che il presidente Bush sia in
grado di valutare sino in fondo le conseguenze del documento reso noto dalla
commissione di James Baker», commentano nei corridoi del ministero degli
Esteri e in quello dell’Informazione siriani. Sono reazioni a caldo. Ancora
ufficiose. I tempi del regime non sono proprio veloci. E a Damasco nessun
portavoce azzarda un commento ufficiale senza il permesso della presidenza.
Ma il sentimento di compiacimento è diffuso, evidente. «Escludere e
isolare la Siria non serve a nulla. Ora anche a Washington si sono accorti che
qualsiasi processo di pacificazione regionale necessita del nostro
coinvolgimento», sostiene Nizar Mihoub, direttore del dipartimento Stampa
Estera al ministero dell’Informazione.
Elias Mourad, direttore del quotidiano Dar Al Ba’ath, l’organo del partito al
potere da quasi quarant’ anni, rincara la dose: «Gli americani hanno portato il
caos in Iraq, rischiano di fare lo stesso in Libano e hanno abbandonato la
causa della pace in Palestina. Se non cambiano politica non potranno che
provocare nuove catastrofi». Sarà dunque la Siria disposta a cooperare con
gli Usa per pacificare l’Iraq? Qui nessuno sembra porre vere pregiudiziali.
«Il nostro è un governo pragmatico, non ideologico», spiega Mihoub. Persino
un noto esponente dell’opposizione come il giornalista e scrittore Akram
Al-Bunni non lo esclude. «La minoranza alawita, che dai primi anni Settanta
tiene le redini della dittatura, ha un’unica priorità: restare al potere. E per
questo è disposta a tutto, con spregiudicatezza. Non a caso sostiene allo
stesso tempo l’Hezbollah sciita in Libano, ma anche la guerriglia sunnita in
Iraq. Persino l’alleanza con Teheran è fondata sul puro interesse politico
ed economico. Se gli americani offrissero di più, per Bashar el Assad non
sarebbe difficile cambiare cavallo».
Che il regime si sia ultimamente rafforzato, grazie agli esiti della guerra
in Libano quest’estate e le difficoltà americane in Iraq, è convinzione anche
di molti intellettuali perseguitati in Siria, che faticosamente cercano di
farsi sentire. Lo stesso Al-Bunni ha trascorso 17 anni in cella solo per
aver osato criticare la dirigenza del Paese. «Chi attacca il presidente o i
militari è automaticamente accusato di essere filo- americano e perde la simpatia
popolare», ammettono al Centro per la Difesa dei Diritti Umani.
Comunque la via del dialogo siro- americano è tutta in salita. Resta aperta
la questione del tribunale internazionale per l’assassinio di Rafiq Hariri. E
da sempre la Siria insiste per legare i negoziati sulle alture del Golan al
processo di pace regionale. «Mi sembra molto più facile parlare con gli
europei. Bush è un inguaribile ideologo. Non ha mai capito nulla del Medio
Oriente. Dovrebbe prendere lezioni da uno statista attento e sensibile al mondo
arabo qual è Romano Prodi», sostiene Gorge Jabbur, deputato, docente di scienze
politiche e a suo tempo consigliere dell’ex presidente Hafez el Assad.
E conclude: «Ma non sono affatto certo che sarà pronto a seguire i suggerimenti
di Baker».