Ennio
Caretto
«Cambiamenti o la
catastrofe». La proposta: dialogo con Siria e Iran. Bush: idee interessanti
WASHINGTON — Dall’aula del Congresso il Gruppo di studio
bipartisan sull’Iraq diretto dall’ex segretario di Stato James Baker ha
lanciato al presidente Bush la sfida di un «nuovo corso per evitare una
catastrofe in Medio Oriente». Il Gruppo ha chiesto al presidente di «cambiare
la missione militare» in una missione di appoggio alle forze irachene, per
consentire alle «truppe combattenti Usa non più necessarie» di ritirarsi entro
il primo trimestre 2008; di porre al governo di Bagdad traguardi da raggiungere
a breve e medio termine, inclusa la riconciliazione nazionale; di promuovere
«prima del 31 dicembre» un Gruppo d’appoggio internazionale dell’Iraq con i
Paesi vicini, la Siria e l’Iran compresi, oltre all’Onu e alla Ue; e di
riavviare il negoziato di pace israelo palestinese, «indispensabile per la
stabilità della regione».
LA REAZIONE — Il rapporto di 160 pagine con 79 proposte, per cui fu
ascoltato anche il nostro premier Prodi, ha riscosso il plauso della maggioranza
del Congresso e causato a Bush il più grave dilemma dall’invasione dell’Iraq.
Il presidente, che aveva ricevuto il rapporto in anteprima, lo ha definito
«molto duro» e ha promesso di «esaminarlo a fondo e agire tempestivamente». Ma non
s’è impegnato a rispettarlo. La Casa Bianca ha giustificato la cautela di
Bush, che oggi ospiterà il premier inglese Blair, con il suo desiderio di
esaminare i rapporti del Pentagono e del Dipartimento per la Sicurezza
nazionale prima di prendere una decisione «tra qualche settimana».
I COSTI — Il vice direttore del Gruppo di studio, l’ex deputato
democratico Lee Hamilton, ha lamentato che la guerra sia costata 400 miliardi
di dollari e abbia fatto quasi 3 mila vittime tra i soldati Usa e decine di
migliaia tra i civili iracheni. Hamilton ha suggerito che gli istruttori
americani vengano portati da 4 mila a 20 mila e «incastonati» nell’esercito
iracheno ammonendo che «le nostre forze devono ridursi a forze logistiche, di
intelligence, di reazione rapida, di corpi speciali», la metà circa degli
attuali 140 mila effettivi. Da parte sua, Baker ha martellato sull’apertura
alla Siria e all’Iran dicendo che la prima soprattutto è disposta a collaborare:
«In Medio Oriente non si può scegliere l’interlocutore. Noi per 40 anni
dialogammo con una potenza che voleva distruggerci: l’Urss». In risposta, la
Casa Bianca ha escluso trattative bilaterali con l’Iran, ma non trattative
indirette.
FORMULA MAGICA — L’ex segretario di Stato che sotto Bush padre gestì la
fine della guerra fredda, ed è il guardiano della dinastia, ha demolito le
varie alternative per «la vittoria» in Iraq, termine, ha precisato, che
respingiamo. Il «manteniamo la rotta» del presidente è utopico, ha
sostenuto; l’invio di altri 100 mila soldati impossibile; e la divisione del
Paese in tre parti, sunnita sciita curda, causerebbe una guerra civile. Baker
si è però opposto a un ritiro precipitoso delle truppe americane «perché
irresponsabile e foriero del caos». Ha terminato su una nota conciliante
con Bush: il rapporto «non è una formula magica», condividiamo l’obiettivo del
presidente di un Iraq capace di difendersi e governarsi. Ma se l’Iraq non si
impegnasse, bisognerebbe ridurne l’assistenza.
«TUTTI PENTITI TRANNE DUE»
«Uno per uno, dicono la verità». È il titolo dell’Independent
di ieri, che elenca tutti i sostenitori della guerra all’Iraq che hanno poi
espresso ripensamenti: Powell, Collins, Bremer, Khalilzad, Straw, Dannatt,
Perle, Adelman, Rumsfeld e Gates. Poi due caselle vuote: Blair e Bush. Ancora
per poco?
CORRIERE JAMES
A. BAKER LEE H. HAMILTON (Traduzione
di Enrico Del Sero)
MENO TRUPPE PIÙ DIPLOMAZIA
È bene non credere ai miracoli, ma il popolo ha diritto
di aspettarsi miglioramenti. Il governo iracheno dovrebbe velocizzare la presa
di controllo della sicurezza. Anche se non ci riuscisse, l’impegno dei militari
Usa non può essere illimitato
IL RITIRO Entro il primo
trimestre 2008 il grosso delle truppe Usa dovrebbe lasciare l’Iraq
LE
PRIORITA’ L’obiettivo non sarà raggiunto se non si affronta di petto il
conflitto arabo-israeliano
La situazione in Iraq è grave e si sta sempre più
deteriorando. Non esiste una via che garantisca il successo, ma le possibilità
di pervenirvi possono essere incrementate. Il presente rapporto formula una
serie di raccomandazioni quanto alle azioni da intraprendere in Iraq, negli Usa
e in tutta la regione mediorientale. Le più importanti riflettono l’auspicio
di maggiori sforzi diplomatici e politici e di un cambiamento del ruolo
principale delle truppe Usa in Iraq per cui il Paese possa consapevolmente
ritirare le proprie forze di combattimento. A nostro avviso, tali due
raccomandazioni sono parimenti importanti e l’una avvalora l’altra. Se
adeguatamente attuate, e se il governo iracheno proseguirà nella via della
riconciliazione nazionale, agli iracheni verrà offerta l’opportunità di un
futuro migliore, il terrorismo sarà debellato, si potrà garantire maggiore
stabilità a una regione importante del pianeta tutelando credibilità, interessi
e valori degli Usa.
L’Iraq ha davanti a sé sfide complesse da fronteggiare. La violenza è sempre
più diffusa ed efferata. Ad alimentarla sono l’insurrezione araba sunnita, le
milizie e gli squadroni della morte sciiti, Al Qaeda e una criminalità
dilagante. I conflitti settari rappresentano il primo ostacolo alla stabilità.
Il popolo iracheno è rappresentato da un governo eletto democraticamente;
eppure, stenta a progredire sulla via della riconciliazione nazionale e della
garanzia dei diritti e dei servizi fondamentali ai cittadini. Il pessimismo
dilaga.
Se la situazione continuerà a deteriorarsi, le conseguenze potrebbero essere
disastrose. Un’involuzione nel caos potrebbe provocare il collasso del governo
iracheno e una catastrofe umanitaria. I Paesi vicini potrebbero entrare in
gioco. Le rivalità tra sciiti e sunniti potrebbero propagarsi. Al Qaeda
potrebbe vincere sul campo della propaganda ed espandere le proprie basi
operative. La reputazione degli Stati Uniti a livello globale ne uscirebbe
ridimensionata. E la società americana diverrebbe sempre più polarizzata.
Da nove mesi a questa parte, si è presa in considerazione una lunga serie di
approcci su come muoversi in futuro. Ognuno di essi può essere perfezionato. La
soluzione che qui proponiamo non è priva di difetti, ma siamo convinti che essa
racchiuda le migliori tattiche e strategie per una svolta positiva in Iraq e
nella regione.
Approccio esterno La politica e il comportamento degli Stati vicini
dell’Iraq determinano in modo decisivo la sua stabilità e prosperità. Nessun
Paese nella regione, in una prospettiva di lungo termine, potrà trarre
beneficio da un Iraq caotico. Eppure, tali Paesi non stanno facendo abbastanza
per favorire la sua stabilizzazione. Alcuni, al contrario, ne stanno minando le
prospettive.
Gli Usa dovrebbero subito lanciare una nuova offensiva diplomatica volta a
raccogliere nella comunità internazionale il consenso per la stabilizzazione
dell’Iraq e di tutta la regione mediorientale. Tale sforzo diplomatico dovrebbe
vedere impegnati tutti i Paesi cui preme salvare l’Iraq dal caos, compresi i
suoi vicini, che devono unirsi in un gruppo di sostegno per rafforzare la
sicurezza e promuovere la riconciliazione nazionale in seno alla società
irachena. Da solo, il Paese non potrà riuscirvi.
Considerando la capacità di Iran e Siria di influenzare il corso degli
eventi in Iraq, e il loro interesse a che il Paese sia salvato dal caos, gli
Usa potrebbero coinvolgerli in modo costruttivo. Per cercare di influenzare
il comportamento dei due Stati, gli Usa possono fare leva su di una serie di
incentivi e disincentivi. L’Iran dovrebbe contrastare la corsa agli
armamenti e il reclutamento delle milizie irachene, rispettando la
sovranità del Paese e la sua integrità territoriale, ed esercitando la propria
influenza sui gruppi sciiti incoraggiando la riconciliazione nazionale.
Il dossier nucleare iraniano dovrebbe rimanere all’attenzione dei cinque
membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania. La
Siria dovrebbe monitorare le proprie frontiere con l’Iraq al fine di sradicare
il finanziamento delle cellule insurrezionaliste e terroristiche dentro e fuori
i confini iracheni. Gli Usa non potranno raggiungere il loro obiettivo in Medio
Oriente senza affrontare di petto il conflitto arabo-israeliano e l’instabilità
nella regione. Il Paese è chiamato a rinnovare il proprio impegno a
sostegno di una pace duratura tra arabi e israeliani, su tutti i fronti: dal
Libano alla Siria alle zone di conflitto tra Israele e Palestina, al cui
riguardo, nel giugno 2002, il presidente Bush si è impegnato con una soluzione
per la creazione di due Stati. Tale impegno dovrebbe prevedere negoziati
diretti tra e con Israele, Libano, palestinesi (quanti riconoscono il diritto
di Israele a esistere) e Siria.
Sviluppando tale approccio nei confronti dell’Iraq e del Medio Oriente, gli Usa
dovrebbero incrementare il proprio sostegno politico, economico e militare
nei confronti dell’Afghanistan, anche con risorse militari che, una volta
lasciato il suolo iracheno, potrebbero essere messe al servizio del Paese.
Il futuro dell’Iraq dipende oramai in larga misura dalla responsabilità del
popolo iracheno. Gli Usa sono chiamati a ridefinire il loro ruolo incoraggiandolo
ad assumere il controllo del proprio destino.
Approccio interno Il governo iracheno dovrebbe velocizzare la presa
di controllo sulla sicurezza del Paese incrementando la qualità e il numero
delle brigate dell’esercito. Nel frattempo, e per agevolare l’operazione, gli
Usa dovrebbero potenziare in modo significativo le proprie truppe. Mentre ciò
avviene, potrebbe iniziare il graduale ritiro delle forze da combattimento Usa
dall’Iraq.
L’iniziale obiettivo delle forse Usa in Iraq dovrebbe essere ridefinito come
missione di sostegno all’esercito iracheno, cui passerebbe il controllo quasi
assoluto delle operazioni di combattimento. Entro il primo trimestre del 2008,
salvo sviluppi imprevisti sul campo in termini di sicurezza, tutte le brigate
da combattimento non più necessarie alla protezione del Paese potrebbero essere
disimpegnate. Allora, le forze americane potrebbero essere utilizzate
soltanto in unità embedded con le truppe irachene e messe a disposizione per
operazioni speciali e di pronto intervento, o per l’addestramento,
equipaggiamento, consulenza, protezione delle forze e operazioni di
salvataggio. Le missioni di sostegno e di intelligence proseguirebbero.
Tali forze per operazioni speciali e di pronto intervento assolverebbero il
fondamentale compito della mobilitazione contro Al Qaeda in Iraq.
È evidente che il governo iracheno avrà bisogno dell’assistenza degli Usa per
diverso tempo a venire, soprattutto in termini di sicurezza. Nondimeno, gli
Usa dovrebbero manifestare esplicitamente al governo iracheno l’intenzione di
perseguire il proprio programma, compreso il previsto ridispiegamento delle
truppe, anche qualora quest’ultimo non riuscisse nei propri intenti. Il
consistente impegno delle truppe Usa in Iraq non può essere illimitato.
Gli Usa dovrebbero intraprendere una stretta collaborazione con i leader
iracheni volta al raggiungimento di specifici obiettivi — o pietre miliari — in
termini di riconciliazione nazionale, sicurezza e stabilità del governo. È
bene non credere nei miracoli, ma il popolo iracheno ha il diritto di
aspettarsi azioni concrete e miglioramenti. Il governo iracheno deve mostrare
ai propri cittadini — così come ai cittadini americani e degli altri Paesi —
che merita un sostegno costante nel tempo.
Il Premier Nouri Al-Maliki, di concerto con gli Usa, ha fissato una serie di
pietre militari cruciali per il proprio Paese. L’elenco che egli ha stilato
rappresenta un buon inizio, ma deve essere arricchita con altri obiettivi volti
a rafforzare il governo e favorire il popolo iracheno.
Qualora il governo iracheno dimostrasse di possedere volontà politica
compiendo passi decisivi in direzione della riconciliazione nazionale e della
sicurezza e stabilità di governo, gli Stati Uniti dovrebbero manifestare
chiaramente l’intento di proseguire la propria attività di formazione,
assistenza e appoggio per le forze di sicurezza irachene ribadendo il proprio
sostegno politico, militare ed economico. Qualora, invece, il governo non desse
prova di questi progressi, gli Usa dovrebbero ridimensionare il proprio
sostegno al governo iracheno.
Le raccomandazioni del presente rapporto investono numerosi altri ambiti: dal
miglioramento del sistema di giustizia penale iracheno, del settore
petrolifero, dell’impegno Usa nella ricostruzione del Paese al potenziamento
della pianificazione del bilancio, della formazione dello staff di governo e
delle capacità di intelligence americane.
Conclusioni Le raccomandazioni contenute nel presente rapporto aprono,
secondo i membri dell’Iraq Study Group, una prospettiva inedita quanto
all’impegno degli Usa in Iraq e in tutta la regione. Sono proposte esaurienti
la cui realizzazione deve avvenire in maniera coordinata, non isolata o
disgiunta. Le dinamiche della regione sono determinanti, per l’Iraq, almeno
quanto quelle interne al Paese.
Le sfide potrebbero apparire scoraggianti. Il Paese ha davanti a sé giorni
difficili. Ma proseguendo il cammino appena delineato, l’Iraq, la regione
mediorientale e gli Usa ne potranno uscire rafforzati.