Giuseppe
Sarcina
LA GRANDE DIVISIONE
BRUXELLES — Mezza Europa oggi cancellerebbe volentieriquella notte all’«Hotel Conrad» del dicembre di due anni fa, quando, a
Bruxelles, l’ingresso della Turchia nella Ue, da ipotesi di scuola divenne
concretissima materia di trattativa. Il premier turco Recep Tayyip Erdogan
si era installato nella «suite Royal» al quarto piano, di solito riservata al
presidente francese Jacques Chirac. E diversi leader europei, da Gerhard
Schröder a Tony Blair, dal belga Guy Verhofstadt a Silvio Berlusconi, facevano
a gara per blandirlo.
Poi, nell’ottobre del 2005, partì, tutto sommato in un clima ancora di
ottimismo, il negoziato su 35 capitoli, dalle dogane all’educazione. Un anno
dopo le cancellerie che avevano scommesso su «Erdogan- il Riformatore» sono
tutte profondamente deluse. Per i «turco- scettici», invece, è il momento
della rivincita. A Berlino, la cancelliera Angela Merkel si è sempre
dichiarata contraria a fare entrare la Mezzaluna tra le stelline della Ue.
Meglio un semplice «partenariato», un accordo economico-commerciale. Una tesi
che la Merkel potrà sostenere con qualche argomento in più di fronte agli
alleati socialdemocratici, fautori della piena adesione. Le difficoltà di
Erdogan aiutano la linea di chiusura inaugurata da Chirac proprio quella sera
di due anni fa, quando il presidente rifiutò persino di incontrare il
«candidato». Negli ultimi mesi la Francia è il Paese che, insieme alla Grecia,
ha più sostenuto le ragioni di Cipro. Nello stesso tempo, il governo di
Parigi, condizionato da Nicolas Sarkozy, si è messo alla testa di uno
schieramento tenuto insieme da interessi economici e considerazioni politico-
ideologiche. La Turchia nella Ue libererebbe masse incontrollate di
immigrati, sostengono (oltre che a Berlino), nell’Austria del cancelliere
Wolfgang Schüssel, nell’Olanda guidata da Jan-Peter Balkenende, nella Danimarca
di Anders Fogh Rasmussen. Tirare dentro quasi 75 milioni di musulmani
significa contaminare l’identità storica dell’Europa, ragionano nella
Polonia dei gemelli Kaczynski, con numeri un po’ all’ingrosso, perché non
tutti i cittadini sono automaticamente dei «fedeli». E così via. Se si dovesse
votare oggi anche Slovacchia, Ungheria, Lituania e forse Repubblica Ceca
direbbero «no» alla Turchia. In tutto, compresi Grecia e Cipro, gli
antagonisti storici, sono dodici Paesi su 25. Ma al tavolo del Consiglio fanno
169 voti su 321, quanto basta per mandare all’aria il quorum (232 voti)
richiesto dalla «maggioranza qualificata» necessaria per approvare il
proseguimento dei negoziati, così come sono impostati ora. Difficile, però,
che si vada a una conta devastante per l’Europa. Il blocco formato da Gran
Bretagna, Italia, Spagna, Belgio, Finlandia, Portogallo, Svezia e altri sta già
lavorando per una soluzione di compromesso. Per esempio si potrebbe
arrivare a una sospensione parziale delle trattative sui tre capitoli più
controversi (dogane, libera circolazione delle merci, trasporti) e andare
avanti sugli altri (soluzione appoggiata da inglesi e italiani). Altri Paesi,
come Portogallo e Svezia, propongono di congelare otto capitoli (giustizia compresa).
Le varianti sono tante. Dipenderà da come si assesteranno gli equilibri un
po’ ovunque. Nell’Europarlamento il Ppe è diviso. Il presidente tedesco
Hans-Gert Pottering è allineato con la Merkel. Italiani, spagnoli e portoghesi
sono favorevoli a tenere aperto il dialogo. Così come, in media, socialisti e
liberaldemocratici. Anche la Commissione è divisa. Barroso e i commissari
Olli Rehn, Franco Frattini, Margot Wallström, Günther Verheugen, Joaquin
Almunia, Peter Mandelson sono convinti che non si possa azzerare tutto. Mentre
Benita Ferrero- Waldner, Neelie Kroes, Jacques Barrot, Stavros Dimas, Jan Figel
e Markos Kyprianou tirano il freno.