Antonio
Ferrari
La missione ad Ankara del
28 novembre sarà una delle più delicate per il Papa: sotto l’attuale governo
l’ala religiosa della società ha acquisito potere ovunque
Il generale Buyukanit: «L’Islam estremista è una minaccia
reazionaria»
I militanti islamici turchi, conquistato il governo, sono
sempre più visibili e sono spesso in contrasto col presidente turco e con le
forze armate; ma hanno l’accettazione degli USA.
ISTANBUL — Quella che il prossimo 28 novembre riceverà
Benedetto XVI, impegnato nella missione più difficile e delicata del suo
pontificato, è una Turchia assai più islamizzata che nel passato. Le donne
velate, numericamente in forte crescita anche nei quartieri più laici
dell’incantevole Istanbul, ovviamente le noti subito. Ma anche in versione
maschile il look non tradisce. L’«homo islamicus» turco, che ha fatto
carriera e si è arricchito grazie ai generosi appalti statali ottenuti dal
governo di Recep Tayyip Erdogan, che intende promuovere una solida finanza
islamica, sembra indossare la divisa: abito rigorosamente marrone scuro, scarpe
color testa di moro con la punta rialzata, barba incolta, e le biro griffate
con la stella bianca che fanno capolino dal taschino della giacca. Immagine
irritante per la maggioranza della gente, che identifica l’esibizionismo
fideistico dei nuovi ricchi con lo strapotere del partito islamico moderato
della Giustizia e dello Sviluppo, che governa la Turchia dal 2002. Ma
strapotere significa pericolo. Che il capo supremo delle Forze armate, il
generale Yasar Buyukanit, ha tradotto in una denuncia allarmante: «Minaccia
reazionaria».
Quando parla (assai raramente) il primo soldato-custode dell’eredità laica
di Kemal Ataturk, tutti ascoltano e il governo trema.
Per una semplice
ragione: che il premier si chiami Bulent Ecevit, Mesut Yilmaz, Tansu Ciller,
Necmettin Erbakan o appunto Erdogan non fa differenza. I militari erano,
sono, e resteranno l’istituzione più credibile della Turchia: godono di un
sostegno popolare che non è mai sceso sotto il 70 per cento. Gradimento
confermato sia durante i tre colpi di stato del passato (veri), e quello più
recente, definito «postmoderno», quando le Forze armate non dovettero
intervenire direttamente, perché fu la società civile a mandare a casa
l’innaturale e corrotto esecutivo Erbakan-Ciller (islamici fondamentalisti e
destra liberista) nel 1997. I militari si limitarono ad incoraggiare l’arresto
di chi aveva violato le leggi dello Stato: tra questi, il futuro premier
Erdogan, colpevole di aver recitato un versetto di sapore estremista.
Ora, se il generale Buyukanit sostiene che si profila una minaccia, la
minaccia è vera o almeno viene percepita come tale. Anche se contraddice una
realtà che i sociologi si affannano a spiegare: «In Turchia l’Islam radicale
non è in crescita. È semplicemente più visibile». Negli ultimi anni le
presenze alla preghiera del venerdì, nelle 55.000 moschee del Paese, sono
salite da 9 a 13 milioni. Però non è aumentato il numero di coloro che vanno a
pregare ogni giorno. Due milioni erano e due milioni sono rimasti. Tuttavia,
la percezione dell’invadenza di un Islam sempre più aggressivo, rappresentato
da tutti coloro che negli anni dell’ estremo rigore kemalista erano mimetizzati
nelle periferie e nelle campagne, e che con l’arrivo al potere di Erdogan si
sono riversati nei centri delle grandi città, è indubbia. Per le donne, che
lottano coraggiosamente in difesa dei loro diritti e vogliono dimostrare
d’essere le più moderne dell’intero mondo musulmano, l’esibizione del velo è
una quotidiana frustata psicologica.
Ai funerali di Giovanni Paolo II, l’unica donna islamica con il capo fasciato
era la moglie del premier turco. Quell’immagine, in un mondo dove l’immagine è
sostanza, è stata più volte utilizzata per affermare che l’Islam radicale è
ormai alle porte. Il presidente del Parlamento Bulent Arinc, cioè la seconda
carica dello Stato, è arrivato a dire che «il laicismo in Turchia deve essere
ridiscusso e ridefinito». Molti l’hanno ritenuta la prova che si intende
violentare l’intoccabile eredità della rivoluzione laica di Ataturk.
Una volta all’anno si riunisce l’alto comando delle Forze armate, presieduto
del premier, per discutere promozioni, pensionamenti, emarginazioni, espulsioni
di soldati sospettati di appartenere a gruppi estremisti di destra, di sinistra
o religiosi, ovviamente islamici. Da quattro anni Erdogan firma le conclusioni,
ma appone in calce, ogni volta, la postilla: «Sottoscrivo ma non condivido». Ci
sono vice-ministri (tra cui quelli all’Educazione e agli Interni) che non sono
stati nominati ufficialmente, mancando la ratifica del capo dello Stato Ahmet
Necdet Sezer, ma lavorano e prendono decisioni.
Adesso, il timore più grande dei militari è che Erdogan, nel maggio
prossimo, si candidi alla presidenza della repubblica e vinca, togliendo ai
laici l’ombrello più prezioso. Secondo i ricercatori Binnaz Toprak e Alì
Cakiroglu, il 67,2 per cento dei turchi considera una minaccia «l’influenza
della religione nello Stato e nel sistema politico».
Sono questi gli elementi che hanno spinto il generale Yasar Buyukanit a
lanciare l’allarme. Il primo ministro ha risposto offrendo collaborazione ma
suggerendo di discutere del problema in privato. Ed è subito andato a
Washington a ricevere il plauso di Bush. «Due ore di colloquio caloroso. Il
presidente degli Usa ha chiamato il mio premier "amico e uomo di
pace"», annota Egemen Bagis, consigliere di Erdogan per la politica
estera, presente all’incontro. «Ha anche aggiunto che è nell’interesse dell’Ue
averci nell’Unione». Come dire: i primi a non credere alla crescita
dell’Islam radicale in Turchia sono proprio gli americani.
Obiettivo Europa
E nei sondaggi crollano al 32% i
favorevoli all’ingresso nell’Ue
Nel 2004, i turchi che volevano che il loro Paese entrasse
nell’Ue erano il 67,5%; nel 2005 il 57,4%. E l’ultimo sondaggio, pochi giorni
fa, dice che solo il 32,2% continua a credere nell’obiettivo-Bruxelles. I
contrari all’integrazione, che nel 2004 erano l’8,7%, sono saliti nel 2006 al
25%.