FRANCO
VENTURINI
Oltraggio al militare
caduto in Afghanistan
Definire “umanitarie” delle missioni militari non ci rende
più simpatici alle popolazioni locali, ma confonde i militari e favorisce
spinte al disimpegno.
Siamo lontani dal ranger americano ucciso e trascinato per
le vie di Mogadiscio, è eccessivo anche il paragone con orribili e più recenti
immagini che ci sono giunte dall’Iraq, ma le espressioni di scherno di
alcuni civili afghani davanti al corpo straziato del caporalmaggiore Giorgio Langella,
raccontate da Marco Nese sul Corriere di ieri, pongono egualmente due questioni
alle quali non dovremmo sottrarci: come viene percepita dalle popolazioni
locali la presenza dei nostri soldati nelle aree di crisi? Ed è giusto definire
umanitarie buona parte di queste presenze?
Può essere utile rievocare la nascita delle principali missioni militari
italiane negli ultimi trent’anni. In Iraq nel ’91 andammo senza cosmetiche
inesattezze, sapendo che di guerra si trattava. In Libano nel 1982 fu detto chiaramente
che il nostro compito era di presidiare i campi palestinesi dopo le stragi di
Sabra e Chatila. E corretta è stata anche, nelle scorse settimane, la
spiegazione del nostro ritorno in terra libanese.
Ma le cose non sono sempre andate così. In Somalia, nel ’92, andammo per
assistere la popolazione mentre infuriava la guerra civile. Fummo aggrediti e
avemmo molti morti, prima di ritirarci. Nel ’95 si sostenne che la
partecipazione italiana all’attacco Nato contro Milosevic era difensiva, anche
se i nostri aerei bombardavano dall’altra parte dell’Adriatico. In Afghanistan,
nel 2002, dovevamo aiutare i civili dopo una guerra anti-talebani che si
credeva vinta. Ma era una supposizione ingenua. In Iraq, nel 2003, inviammo le
nostre forze in «missione umanitaria», tra l’altro per garantire l’incolumità
degli operatori di pace e scortare i convogli carichi di aiuti. Questo mentre a
tutti doveva risultare evidente che la guerra non era terminata e che i rischi
da correre erano, come in Afghanistan, di tipo bellico. Il problema non è
qui di giudicare se i citati interventi andassero compiuti, se abbiano avuto
torto o ragione governi e parlamenti. Quel che colpisce, in particolare nel
caso dell’Iraq, è piuttosto un frequente bisogno politico di inquadrare in termini
umanitari le missioni dei nostri soldati. Come se la cultura italiana del
pacifismo, con la sua doppia origine cattolica e comunista, esigesse una certa
ipocrisia lessicale per ottenere il consenso alla partenza di uomini in armi.
Intendiamoci, preferiamo di gran lunga un ragionevole pacifismo al grilletto
facile insito in altre e diverse culture nazionali. Ma quando un malinteso
senso di opportunità politica sconfina nella dissimulazione, non viene soltanto
disatteso un dovere di lealtà verso i militari esposti al rischio. Risulta
deformata, anche, la nostra consapevolezza di quanto può accadere, si
alimentano in anticipo sensibilità tradite, si gettano le basi di spinte al
disimpegno.
E in nulla si modifica, per contro, la percezione locale della nostra presenza.
Che può essere neutra e anche grata quando l’azione umanitaria prevale. Ma che
ci vede fatalmente come invasori o come truppe occupanti quando nazionalismi,
resistenze e terrorismi prendono il sopravvento.
Edulcorare le missioni militari con un eccesso di retorica umanitaria, in
definitiva, non serve all’esterno e ci rende meno lucidi all’interno. Per
fortuna, nessun italiano ignora più oggi i rischi esistenti in Iraq (fino al
completamento del ritiro), in Afghanistan o nella nuova missione in Libano.
Missioni, queste due ultime, della cui giustezza restiamo convinti. Ma senza
illuderci che sia davvero sorprendente, oltre che esecrabile, quel che è
accaduto ai nostri morti e feriti a sud di Kabul.