Mara Gergolet
I sindacati palestinesi dei servizi pubblici, controllati
da Fatah, scioperano contro il governo di Hamas reclamando gli stipendi non
pagati da sei mesi.
GERUSALEMME — Le scuole non riaprono. I netturbini
non spazzano. Gli statali non vanno in ufficio. Da sabato l’Autorità
palestinese è paralizzata: il Paese che non c’è si ferma per il suo primo
sciopero nazionale.
Tutta colpa di Hamas, o meglio dei soldi che non ci sono. È da sei mesi che il
governo islamico non paga gli stipendi ai dipendenti pubblici. Acconti, due
volte finora, ma niente che possa chiamarsi salario. Da quando l’Europa e
gli Stati Uniti hanno bloccato i finanziamenti all’Autorità palestinese, dopo
la vittoria elettorale degli islamici, che non rinunciano al terrorismo e non
vogliono riconoscere Israele, da quando Israele ha deciso di strozzarli non
versando più le rimesse fiscali che raccoglie per conto dell’Anp, il governo di
Haniyeh non è riuscito a trovare una risposta al (cruciale, perfino
esistenziale) rebus delle finanze: ossia, come pagare i 165 mila dipendenti
pubblici dell’Autorità palestinese.
Lo sciopero più grave è quello degli insegnanti. Sabato doveva iniziare
l’anno scolastico per 800 mila alunni. Invece, da Gaza a Tulkarem, aule chiuse.
A oltranza. «Il governo Hamas — dice Awwad Barghouti, mentre porta il figlio
Saed alle medie a Ramallah — è in una difficilissima posizione. O cede alla
comunità internazionale o se ne dovrà andare». Il politologo Hani Al Masri:
«Noi palestinesi non abbiamo niente tranne l’educazione. Lo sciopero creerà
enormi pressioni sul governo: se funziona ne accorcerà la durata. Se fallisce,
l’allungherà». Ed è così — come uno scontro tra Hamas e il Fatah del presidente
Abu Mazen (che controlla il sindacato) — che gli analisti leggono la protesta
nazionale. Una sfida a Hamas. Lo dice chiaramente il ministro degli Affari dei
rifugiati, Atef Adwan, che gruppi «stranieri e interni stanno cospirando per
rovesciare il governo». Che Hamas sia in grande difficoltà lo provano le
dimissioni, ieri, del ministro Judal Khudari. E mentre il premier Haniyeh si
prepara a tenere un discorso alla nazione giovedì, dall’ufficio di Abu Mazen si
diffondono voci che il presidente pensi sempre meno al governo di unità
nazionale e preferisca indire invece nuove elezioni.
È attorno all’organizzazione e prevenzione di questo sciopero, però, che si
mobilitano i due schieramenti. A Gaza i miliziani armati di Hamas circondano le
scuole, spingendo a forza gli insegnanti a entrare. In Cisgiordania quelli del
Fatah alzano barricate anti-crumiri. Il sindacalista Bassam Zakarneh (Fatah)
canta vittoria: «Un’adesione dell’85-90%».
Non solo professori. A Gaza le strade sono inondate di sacchi d’immondizia e il
premier Haniyeh, per dare il buon esempio, s’è presentato con la scopa in mano.
Si sciopera negli ospedali e negli uffici pubblici, 80 mila persone in tutto.
«La struttura della società palestinese rappresenta un enorme problema — spiega
al Corriere il politologo Sattar Kassem —. L’errore capitale, io l’ho chiamato
il tradimento, di Arafat». Spiega: dagli anni ’90 nei territori sono stati
persi 250 mila posti di lavoro, commercio e piccola industria. Li ha sostituiti
Arafat, creando 100 mila nuovi statali. Una base clientelare pagata dal denaro dei
donatori internazionali, Usa e Ue, che coprivano quasi tutto il bilancio
dell’Autorità. «Non ha capito, Arafat, che così si metteva in mano alle potenze
straniere che possono aprire o chiudere i rubinetti a loro piacimento». Lo sta
vedendo Haniyeh.