Fabrizio Gatti
Sfruttati. Sottopagati. Alloggiati in luridi tuguri. Massacrati di
botte se protestano. Diario di una settimana nell’inferno. Tra i braccianti
stranieri nella provincia di Foggia
Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe
impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede
aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l’ordine e la
sicurezza nei campi. "Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca lavoro,
digli che oggi siamo a posto", lo avverte in dialetto e se ne va su un
fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla
maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: "Sei
rumeno?". Un mezzo sorriso lo convince. "Ti posso prendere, ma domani",
promette, "ce l’hai un’amica?". "Un’amica?". "Mi devi
portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare
subito. Basta una ragazza qualunque". Il caporale indica una ventenne e il
suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la
raccolta meccanizzata dei pomodori: "Quei due sono rumeni come te. Lei col
padrone c’è stata". "Ma io sono solo". "Allora niente
lavoro".
Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una
ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel
cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia
di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella
regione progressista di Nichi Vendola. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano.
Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico
segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di
San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio
al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare
da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.
Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento
preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso
di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina
Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni.
Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si
trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne
infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della
Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari
terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi,
europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove
nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li
fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando
pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di
spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge
voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché
non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li
hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker
nel film ‘Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun
altro l’hanno ucciso.
Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di
Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di
Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola.
Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal
triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza
Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come
melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di
non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni
da Bruxelles. ‘L’espresso’ ha controllato decine di campi. Non ce n’è uno in
regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza
sleale all’Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne
vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti umani.
Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell’Europa
agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del
decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di
detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile
in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio
controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra
appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio
lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi
infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di
case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa
d’Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui,
che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i
pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli
ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.
Oggi dev’essere la giornata più torrida dell’estate. Quarantadue gradi,
annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare
nell’aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno
riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono
tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione
razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I
bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. È così anche nel
reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se
vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito.
Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al
mondo gli orrori dell’apartheid. "Se sei sudafricano resta pure",
dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È
sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque
giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di
Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid
ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara,
la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia.
"In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri
per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa.
Non avevo alternative", ammette Asserid: "Ma spero di risparmiare
presto qualche soldo e di arrivare a Parigi". Adama, 40 anni, tuareg
nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in
aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l’hanno
espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla
stagione dell’oro rosso. "Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della
storia", ride Adama. Ma c’è poco da ridere. L’acqua che tirano su dal
pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e
diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in
due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta
euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i
caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta
centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il
trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il
caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica
all’inverosimile. "Davvero questo è africano?", chiede agli altri
davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. "Io pago tre
euro l’ora. Ti vanno bene? Se è così, sali", offre l’uomo, calzoncini,
canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di
schiena.
Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un
ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo
trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo
chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due
ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché
rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando
attraverso lo specchietto retrovisore: "Io John e tu?". Poi avverte:
"John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo…". Non capisce
l’inglese né il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il
pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29
anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi:
"Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo
finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro.
I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare". I tre euro
l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando
risponde dice sempre: "Noi turchi". Anche se la targa della macchina
è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. "Ti
giuro su Dio", continua il caporale, "oggi arrivano i soldi e vi
paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro
i miei colleghi". Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni
sulla destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra
stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi.
La Golf stracarica corre e sbanda sulla stretta provinciale per Lavello.
Il contachilometri segna 100 all’ora. Una follia. Alle prime aziende agricole
del paese, Giovanni svolta a destra dentro una strada sterrata. Altri due
chilometri e si è arrivati. Si prosegue a piedi, in fila indiana. Il campo è
tra due vigneti. Questi pomodori vanno raccolti a mano. Quando il padrone vede
arrivare il gruppo di africani, imita il verso delle scimmie. Poi dà gli ordini
con gli insulti resi celebri dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli:
"Forza bingo bongo". Nello stesso istante un furgone scarica nove
rumeni. Tra loro tre ragazze, le uniche nella squadra. Si lavora a testa bassa.
Guai ad alzare lo sguardo: "Che cazzo c’è da guardare? Giù e
raccogli", urla il padrone avvicinandosi pericolosamente. Si chiama
Leonardo, una trentina d’anni. È pugliese. Indossa bermuda, canottiera e occhiali
da sole alla moda come se fosse appena rientrato dalla spiaggia. Da come parla
è il proprietario dell’azienda agricola. O forse è il figlio del proprietario.
Si occupa della manodopera. Una sorta di comandante dei caporali. La sua
azienda è a una decina di chilometri, alle porte di Stornara. Proprio sulla
strada che Giovanni percorre per portare gli schiavi al campo. Leonardo si fa
aiutare da un altro italiano, il caporale dei rumeni. Uno con la maglietta
bianca, i capelli lunghi e i baffetti curati. Il terzo italiano è probabilmente
il compratore del raccolto. Magro. Capelli biondi corti. Telefonino appeso al
petto in fondo a una catena d’oro. Parla con un forte accento napoletano.
Parcheggia il suo Suv e si fa subito sentire. Qualcuno ha appoggiato per
sbaglio le cassette piene sulle piante di pomodoro. E lui grida come un pazzo:
"Il primo che rimette una cassetta sulle piante, com’è vero Gesù Cristo,
gliela spacco sulla testa". I tre italiani sudano. Ma solo per il caldo.
Oltre a sorvegliare i loro schiavi, non fanno assolutamente nulla.
Giovanni va a recapitare altri braccianti. Poi torna due volte con i
rifornimenti d’acqua. Quattro bottiglie di plastica da un litro e mezzo da far
bastare nelle gole di 17 persone assetate. Sono bottiglie riempite chissà dove.
Una zampilla da un buco e arriva quasi vuota. L’acqua ha un cattivo odore. Ma
almeno è fresca. Comunque non basta. Due sorsi d’acqua in oltre quattro ore di
lavoro a quaranta gradi sotto il sole non dissetano. La maggior parte dei
ragazzi africani non ha nemmeno pranzato né fatto colazione. Così ci si
arrangia mangiando pomodori verdi di nascosto dai caporali. Anche se sono pieni
di pesticidi e veleni. E forse è proprio per questo che sulla pelle, per
giorni, non comparirà più nemmeno una puntura di zanzara.
Leonardo vuole sapere com’è che in Africa ci siano i bianchi. Gira tra le
schiene curve come un professore tra i banchi. E dà il permesso a Mohamed, 28
anni, un ragazzo della Guinea. Per smettere di lavorare o parlare, qui bisogna
sempre chiedere il permesso. Mohamed sa bene perché ci sono i bianchi in
Sudafrica. È laureato in scienze politiche e relazioni internazionali
all’Università di Algeri. Parla italiano, inglese, francese e arabo. E risponde
rimanendo in ginocchio, davanti a quell’italiano che confessa senza pudore di
non aver mai sentito parlare di Nelson Mandela. "Avete capito?",
ripete dopo un po’ Leonardo agli altri due italiani: "In Italia quelli
chiari stanno al Nord mentre noi al Sud siamo scuri. In Africa invece al Sud
sono bianchi e questi qua del Nord sono neri".
L’incidente accade all’improvviso. Michele è il più anziano tra i rumeni. Ha
una sessantina d’anni, i capelli grigi. Sta caricando cassette piene sul
rimorchio del trattore. Il legno è troppo sottile, è secco. E una cassetta si
sfonda rovesciando dodici chili di pomodori. Michele non fa in tempo ad
abbassarsi a raccoglierli. Leonardo, con la mano chiusa a pugno, lo colpisce.
Una sventola sulla testa. "Stai attento, coglione", urla, "credi
che noi stiamo ad aspettare mentre tu butti le cassette?". Michele forse
chiede scusa. È troppo stanco e offeso per parlare ad alta voce. "Scusa un
cazzo", continua Leonardo, "devi stare più attento". Ci fermiamo
tutti a guardare. Una ragazza si alza in piedi per protesta. Quello con
l’accento napoletano accorre come una furia: "Giù, non è successo niente.
Giù o stasera non si va a casa finché non si finisce". Come se questi
ragazzi avessero una casa.
Lo stesso accade il 20 luglio di quest’anno. Il giorno prima Pavel, 39
anni, ha una discussione con Giuseppina Lombardo. Gli sono caduti quindici euro
nel negozio e lei crede che glieli abbia rubati dalla cassa. Pavel in Romania
faceva il cuoco per 150 euro al mese. Dal 20 marzo 2004, quando è arrivato in
Puglia, sopporta violenze e angherie. Lo fa per mandare quanto risparmia alla
moglie e alla sua "fata", la figlia studentessa, che ha 15 anni.
Pavel ha braccia veloci. L’anno scorso è riuscito a riempire fino a 15 cassoni
al giorno: 45 quintali di pomodori, lavorando dall’alba a notte. Con il cottimo
a 3 euro a cassone, era una buona paga secondo lui: tolti il trasporto al campo
e la tangente per il caporale, Pavel riusciva a guadagnare anche 25 o 30 euro
al giorno. Ma il 20 luglio Asis gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno
gli ha riferito che Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e per lo
sfruttamento dei braccianti. Il tunisino lo colpisce nel sonno, in una giornata
senza lavoro, alle due del pomeriggio. Pavel si protegge la testa con le
braccia. La sbarra di ferro gli rompe le ossa e apre profonde ferite nella
carne.
Lui è sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l’intervento dei suoi
compagni di stanza. Ma lo lasciano lì a sanguinare sul materasso fino all’una
di notte. Gli altri stranieri hanno troppa paura di Asis. Anche di chiamare la
polizia e correre il rischio di essere rimpatriati. Alle otto di sera qualcuno
finalmente telefona di nascosto all’ospedale. L’ambulanza e una pattuglia dei
carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore dopo. Così è
andata, secondo la denuncia.
Il 31 luglio Pavel viene dimesso dall’ospedale di Foggia. È stato operato da
appena quattro giorni. Ha quasi due mesi di prognosi. Ferri e chiodi nelle
ossa. Le braccia ingessate. Medici e infermieri lo consegnano alla polizia,
violando il codice deontologico. E in questura lo trattano da clandestino.
Anche se dal primo gennaio 2007 tutti i rumeni potrebbero essere cittadini
dell’Unione europea. Con le braccia immobilizzate, Pavel non riesce a impugnare
la penna. Il ‘Primo dirigente dottoressa Piera Romagnosi’, siglando la notifica
del decreto di espulsione, scrive che lui ‘si rifiuta di firmare’. Anche la
prefettura di Foggia va per le spicce: nel decreto di espulsione annota che
Pavel è ‘sprovvisto di passaporto’. Un’aggravante. Eppure Pavel il passaporto
ce l’ha. Alla fine, non trovando alternative, un ispettore gli dona dieci euro.
E una macchina della questura lo riporta al Villaggio Amendola. Lo scaricano
davanti al negozio di Giuseppina e Asis. Il tunisino se ne occupa subito. Vuole
dimostrare a tutti chi comanda. Minaccia Pavel e lui va a rifugiarsi in un
casolare a un chilometro dal villaggio. Qualche connazionale gli porta in
segreto un po’ di pane e da bere. Dopo nove giorni di dolori e sofferenze un
amico rumeno riesce a contattare un avvocato di Foggia, Nicola D’Altilia, ex
poliziotto al Nord. L’avvocato trova il casolare. Incontra Pavel e lo riporta
immediatamente in ospedale. Le ferite sono infette. Il bracciante rumeno è
grave. Denutrito. Viene ricoverato per setticemia. Il resto è cronaca degli
ultimi giorni. Il 21 agosto Pavel è di nuovo dimesso dall’ospedale. Va in
questura a completare la denuncia contro il caporale tunisino e la sua complice
italiana, che era riuscito a presentare al posto di polizia del pronto soccorso
soltanto il 14 agosto. Lo accompagna l’avvocato che l’ha salvato. Ma dopo una
giornata in questura, la Procura fa arrestare Pavel come immigrato clandestino:
non ha rispettato il decreto di espulsione che, così è scritto, lo obbligava a
lasciare l’Italia dall’aeroporto di Roma Fiumicino. Non importa se in quelle
condizioni comunque non avrebbe potuto viaggiare. Lo costringono a dormire su
una panca di legno nelle camere di sicurezza. Nonostante le operazioni, le ossa
rotte e le ferite ancora fresche.
Il giorno dopo si apre il processo, immediatamente rinviato a ottobre. Oltre ad
aver perso il lavoro, grazie alla legge Bossi-Fini Pavel rischia da uno a
quattro anni di prigione. Più di quanto potrebbe prendersi il suo caporale che
intanto resta libero. "Quell’uomo", racconta Pavel terrorizzato,
"mirava alla testa. Voleva uccidermi".
Qualche bracciante morto da queste parti l’hanno già trovato. Slavomit
R., polacco, aveva 44 anni quando è stato bruciato il 2 luglio 2005 in un campo
a Stornara. Un caso irrisolto. Come quello di due cadaveri mai identificati
abbandonati a Foggia. Le scomparse sono un altro capitolo dell’orrore. Nessuno
sa quanti siano i lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I caporali,
quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come si
chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce
dell’ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di Varsavia. È
dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare
come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono più tornati a casa.
L’elenco compilato in agosto dal consolato sulle ricerche delle persone
scomparse non rende onore all’Italia. Su dodici "richieste indirizzate
alla questura di Foggia", l’ambasciata ha dovuto prendere atto che per
nove casi non c’è stata "nessuna risposta da parte della questura".
Dopo mesi di inutile attesa l’appello è stato girato al Comando generale dei
carabinieri. E, attraverso gli investigatori del Ros, la Procura antimafia di
Bari ha finalmente aperto un’inchiesta.
Nessuno sta invece indagando sulla morte di un bambino. Perché quello che è
successo apparentemente non è reato. Il piccolo sarebbe nato a fine settembre.
Liliana D., 20 anni, quasi all’ottavo mese di gravidanza, la settimana di
Ferragosto arranca con il suo pancione tra piante di pomodoro. La fanno
lavorare in un campo vicino a San Severo. Né il marito, né il caporale, né il
padrone italiano pensano a proteggerla dal sole e dalla fatica. Quando Liliana
sta male, è troppo tardi. Ha un’emorragia. Resta due giorni senza cure nel
rudere in cui abita. Gli schiavi della provincia di Foggia non hanno il medico
di famiglia. Sabato 18 agosto, di pomeriggio, il marito la porta all’ospedale a
San Severo. La ragazza rischia di morire. Viene ricoverata in rianimazione. Il
bimbo lo fanno nascere con il taglio cesareo. Ma i medici già hanno sentito che
il suo cuore non batte più. Anche lui vittima collaterale. Di questa corsa
disumana che premia chi più taglia i costi di produzione.
L’industria alimentare campana paga i pomodori pugliesi da 4 a 5 centesimi al
chilo. Sulle bancarelle lungo le strade di Foggia i perini salgono già a 60
centesimi al chilo. A Milano 1,20 euro quelli maturi da salsa e 2,80 euro al
chilo quelli ancora dorati. Al supermercato la passata prodotta in Campania
costa da 86 centesimi a 1,91 euro al chilo. I pelati da 1,04 a 3 euro al chilo.
Eppure, nel ghetto di Stornara, nemmeno stasera che il mese è quasi finito ci
sono i soldi per comprare un pezzo di carne. "Donald, non te ne
andare", si fa avanti Amadou, "Giovanni è molto arrabbiato con te
perché hai lasciato il gruppo. Ti sta cercando, vado a dirgli che sei
qui". Nel fondo di questa miseria, Amadou sa già con chi stare. Tra tanti
uomini costretti a inginocchiarsi, lui ha scelto i caporali. È il momento di
prendere la bici e scappare. Nel buio. Prima che Giovanni decida di chiamare i
suoi sgherri. E di dare il via alla caccia nei campi.
I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di
abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite
per le pessime condizioni dell’acqua. Ma anche quest’anno, l’Asl Foggia 3 ha
rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli
stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell’associazione
francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione
dell’Asl Foggia 2 per l’assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della
provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra
Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di
guerra. Ci sono un medico, un’assistente sociale e un coordinatore: quest’anno
Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. "Per il terzo anno
consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto", spiega
Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: "E ancora una
volta nell’estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri
arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano
nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è
totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli
attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e
prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai
sindacati".
Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto ‘I frutti dell’ipocrisia’ sulle
drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in
Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in
Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state
diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24
mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell’agricoltura vive in edifici
abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha
elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche
forma di abuso, violenza o maltrattamento negli ultimi sei mesi. E nell’82,5
per cento dei casi l’aggressore era un italiano.
Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori
dell’agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi
aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per
la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il
compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l’ora (ai quali però vanno
tolti tutti i ‘servizi’ per il caporale). Anche per questo gli italiani sono
scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli
agricoltori interpellati da ‘L’espresso’ dice di pagare i braccianti da 4 a
4,50 euro l’ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli
un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l’ora più i contributi, se in
regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l’ora se ingaggiato in nero.
La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire
le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli
imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo
dell’8,54% che il bracciante deve dare all’Inps è rimasto inalterato. I
controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell’ultimo anno in provincia di
Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per
sfruttamento dell’immigrazione clandestina.