SEBASTIANO MESSINA
Il pessimismo del presidente del Censis che nel ´77 ha
svolto la prima ricerca sul tema in Italia
De Rita: il paese non è pronto all´integrazione vera
effetto mimesi
Le banlieu in fiamme non le avremmo mai avute, perché gli stranieri sono
dispersi tra ottomila comuni
la rimozione Il fenomeno non è stato assimilato: lo abbiamo sempre
rimosso perché pensavamo che fosse di dimensioni limitate
ROMA – Pochi conoscono le mille pieghe della
società italiana come il presidente del Censis Giuseppe De Rita. Fu proprio
lui, nel 1977, a compiere la prima ricerca sociologica sugli immigrati in
Italia. Dunque nessuno meglio di De Rita può rispondere alla domanda che molti
italiani si sono posti, ieri sera, ascoltando dal telegiornale la notizia che
il governo vuole concedere la cittadinanza agli stranieri che risiedano nel
nostro Paese da almeno cinque anni, e si siano effettivamente integrati.
La domanda è questa, professor De Rita: è pronta, la società italiana, a
considerare cittadini al 100 per cento gli uomini e le donne che ancora oggi
chiamiamo con un certo distacco «extra-comunitari»?
«Ho l´impressione che ci siano tante realtà italiane che sono
pronte, e qualche altra no. Ma prima mi permetta di fare una riflessione
storica. Questo è un fenomeno che comincia in Italia alla fine degli anni
Settanta. Parliamo di trent´anni fa».
E in questi trent´anni lei pensa che il fenomeno dell´immigrazione sia stato
assimilato dalla società italiana?
«No. Perché l´abbiamo continuamente rimosso. Non ci interessava
approfondirlo fino in fondo. Perché avevamo paura. Perché pensavamo che fosse
un fenomeno di dimensioni limitate. Perché per noi gli immigrati erano i
lavavetri o gli albanesi. L´abbiamo rimosso, punto. La cultura
collettiva italiana è stata sollecitata ad affrontare questo problema? La
risposta è no».
Probabilmente perché abbiamo sempre visto gli immigrati come un problema, se
non come un incubo.
«Già. Una volta Donat Cattin disse: arriveremo a cinque milioni di
immigrati! La cosa fece grande impressione. Il problema vero è che noi
abbiamo sprecato trent´anni. Adesso arriva Amato e dice: diamo la
cittadinanza. Si capisce che l´opinione pubblica si senta all´anno zero: perché
la cultura italiana non è pronta per un evento del genere».
Vuol dire che la società civile, su questo tema, è più avanti dei suoi
opinion leaders?
«La società? Qui dobbiamo usare il plurale. Ci sono tante realtà
sociali. Se uno gira l´Italia, vede che in tutto il Nord metà delle nuove
aziende sono di proprietà degli extra-comunitari. Se va a Fano, nelle Marche,
trova che ormai l´8 per cento degli abitanti sono extracomunitari. Se va a
Parma, trova la signora anziana che guida l´azienda, mentre i figli vanno in
giro con la Ferrari e venti senegalesi fanno il parmigiano. Se legge le
ultime ricerche del Censis, scopre che il 50 per cento degli extracomunitari –
almeno nelle zone più sviluppate – ha il conto corrente bancario, e il 40 per
cento usa il bancomat».
Insomma, se non si sono integrati si stanno integrando velocemente.
«Eppure l´integrazione è avvenuta non per cittadinanza ma per assunzione
del modello italiano: la piccola impresa, il sommerso, l´azienda personale,
l´indotto eccetera. Magari senza la casa, purtroppo, e senza la scuola per i
bambini. E´ lì che oggi scatta il problema della cittadinanza: nel campo
sociale, non in quello economico».
Questo vale per l´Italia del Nord e semmai del Centro. Ma al Sud
l´integrazione è avvenuta nel sommerso più profondo, con gli extracomunitari
nelle mani del caporalato che raccolgono pomodori in nero e per paghe misere.
«Già, al Sud il contrasto è più forte. Però anche lì l´integrazione
è avvenuta per mimesi: loro si sono adattati al nostro modello, assumendo gli
aspetti positivi e naturalmente anche quelli negativi. Ma sempre mimesi è
stata. Per dire, noi le banlieu in fiamme non le avremmo mai avute, perché
gli immigrati sono dispersi in ottomila comuni».
E questo ci fa arrivare al cuore del problema, che è quello dell´integrazione.
Il disegno di legge Amato prevede che alla fine dei cinque anni lo Stato
accerti la «reale integrazione» dell´immigrato nella società. Ma chi, e come,
riuscirà ad accertarlo?
«Certo non può essere l´insegnante di scuola. C´è uno spazio di ambiguità e
dunque, diciamo così, di fregatura. A sinistra si tende a vedere la
cittadinanza solo come un diritto soggettivo. E invece è un processo che deve
compiersi. Non è che uno, per il solo fatto di stare qui da cinque anni, ha il
diritto alla cittadinanza. Si è integrato o non si è integrato? Questa deve
essere la domanda fondamentale».
E come si fa a evitare che tutto si risolva con un quiz sui colori della
bandiera italiana o sul tempo di cottura degli spaghetti?
«Così, su due piedi, non saprei darle una risposta. Certo anche i più
cattivi, che sono gli Stati Uniti, hanno fatto passare di tutto attraverso le
maglie delle loro leggi, dai mafiosi italiani ai disperati messicani. Il
problema è che i grandi processi migratori non sono facilmente controllabili, né
dalle leggi né dalla volontà umana. Sono eventi che hanno dentro una potenza
biblica. Non pensiamo di risolvere con una legge un problema che se viene messo
sul piano giuridico rischia di essere ammazzato dalle furbizie e dalla
stupidità degli uomini. Dobbiamo sapere, e far sapere agli italiani, che se non
riusciamo a creare un collegamento tra integrazione economica e integrazione
sociale, per arrivare alla cittadinanza, noi andiamo dritti verso il caos».
Eppure è possibile che si vada a uno scontro molto duro, su questa legge: il
leghista Calderoli ha annunciato grandi manifestazioni di piazza, contro «la
legge che concede cittadinanza e voto ai bingo-bongo».
«Conosco Giuliano Amato da quarant´anni, e so quanto ha studiato questo
problema. Se lui ha fatto questo passo, significa che ha annusato l´aria. E sa
di potercela fare».