ITALIA, STORIA, AFRICA
REPUBBLICA Lun. 22/5/2006 Paolo Rumiz
1939, MILLE MORTI IN UNA FOIBA
Così nel ´39 i fascisti
massacrarono donne e bambini
Le prove della strage, a 100 km da Addis Abeba, scoperte da un ricercatore di
Torino
Avvelenati con i gas i guerrieri anti-colonialisti e i loro familiari. Trovati
documenti e ossa umane
Il telegramma del comando: "C´è ancora resistenza, trovati finora 800
cadaveri"
Il Duce ordinò l´assalto: i Granatieri usarono anche il lanciafiamme
I ribelli furono sterminati in una grotta. I superstiti gettati in un burrone
Fucilati dopo la resa o
avvelenati con i gas nella grotta dove si erano rifugiati. Mille morti, come
minimo. Peggio di Marzabotto, perché non fu rappresaglia. Peggio di Srebrenica
perché morirono anche donne, vecchi e bambini. Unico paragone possibile, le
foibe, ma con un´esecuzione concentrata in un unico luogo. Le prove di un efferato crimine italiano
riemergono in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell´impero, gettano luce
sinistra su un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da
scampagnata coloniale. Le ha trovate in queste settimane Matteo Dominioni,
33 anni, dottore di ricerca dell´università di Torino. Prima le carte,
documenti inoppugnabili. Poi le ossa umane, nella grotta dell´infamia, ancora
avvolte da fosche leggende. La conferma definitiva di quanto avvenne in quelle
ore tra il 9 e l´11 aprile 1939.
Tutto comincia per caso, con un pacco di telegrammi dimenticati in un faldone
dal titolo «Varie» all´ufficio storico dello Stato maggiore dell´Esercito.
Dentro, un manoscritto senza firma, con una mappa della zona di Debra Brehan,
100 km a Nord di Addis Abeba, nell´alto Scioa. Il contenuto, confermato da
altri documenti, è agghiacciante.
Una carovana di «salmerie» dei partigiani di Abebè Aregai, leader del
movimento di liberazione, si è rifugiata in una grotta dopo essere stata
individuata dall´aviazione italiana, e non accenna ad arrendersi pur essendo
circondata da un numero soverchiante di uomini. La sproporzione è totale: le
«salmerie» della resistenza etiope sono in prevalenza vecchi, donne e bambini,
parenti degli uomini in armi, che garantiscono la cura dei feriti e il
sostentamento dei partigiani alla macchia (ad Adua, mezzo secolo prima, dietro
ai 100 mila combattenti c´erano 80 mila persone di supporto).
L´ordine del Duce è perentorio: stroncare la ribellione che perdura sulle
montagne a tre anni dall´ingresso di Badoglio ad Addis Abeba. Ma stavolta
stanare i ribelli è impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con
bombe a gas d´arsina e con la micidiale iprite che devastò le trincee della
Grande Guerra.
L´Italia ha firmato il bando internazionale di queste armi letali, ma ormai
le usa in grande stile su autorizzazione di Mussolini. Nella grotta il
«bombardamento speciale» – gli eufemismi sulle bombe intelligenti si
inaugurarono allora – è portato a termine dal «plotone chimico» della divisione
Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più «nobili» delle nostre
Forze Armate.
La notte dopo, una quindicina di ribelli armati tenta una sortita e riesce a
scappare. Molti cadaveri vengono gettati fuori dalla grotta. Gli altri muoiono
avvelenati o si arrendono all´alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge
nel documento, che il mattino stesso vengono fucilate, «d´ordine del Governo
Generale». Come dire del generale Ugo Cavallero o dello stesso Amedeo di
Savoia, pure lui di nobile reputazione. Un massacro, contro ogni norma della
convenzione di Ginevra. Ma non è finita. Dentro c´è chi resiste ancora –
uomini, donne e animali – e i nostri chiedono i lanciafiamme per «bonificare»
l´antro, ramificatissimo. I meticolosi telegrammi degli alti comandi sono
istantanee dall´inferno. «Si prevede che fetore cadaveri et carogne
impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita
facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli.
Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et
varie armi bianche». La prevalenza di inermi disarmati tra i ribelli è ormai
chiara. In quegli stessi giorni, in un´altra grotta della zona, ne vengono
uccisi 62, di cui due donne. Ma vengono «risparmiate 62 donne et 58
bambini», poi sono «catturati 33 muli, 3 cavalli et 23 asini denutriti dal
lungo digiuno», e successivamente altri «27 uomini, 16 donne e 4 bambini».
Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato di Dominioni. Ma mancano
ancora i riscontri sul terreno, così il ricercatore organizza un blitz col
supporto dell´Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in
Italia. Va in Africa dove viene accompagnato dal giovane studioso etiope
Johnatan Sahle. Siamo a fine aprile, in tempo per evitare le grandi piogge
equatoriali. La mappa trovata allo Stato maggiore consente di individuare
facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un terreno
crivellato di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di
Ankober, 2600 metri di quota, alta sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà.
E´ dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme («non ottocento, ma
migliaia di morti») e l´indicazione delle strada giusta, fino al paesino di
Zemerò, e poi – per altri 30 chilometri fuori pista – fino al villaggio di
Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia, 180 metri a picco sopra la
bocca dell´inferno. Il nome della grotta dice già tutto: Amezegna Washa, antro
dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuol dire Fiume del Tiranno.
All´imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti
dell´esercito italiano. La gente del posto ha già elaborato magicamente
l´evento, racconta che gli scheletri trovati davanti alla grotta sono «caduti
dal cielo come monito» e poi sono stati spostati nella chiesa di Jigem, ora
irraggiungibile perché infestata di briganti.
Dentro la caverna non c´è più andato nessuno, da allora. Si dice che sia
piena di spiriti, pronti a spegnerti la candela con un soffio per inghiottirti
nel buio. Ma Dominioni ha una dotazione di torce elettriche che nessun Grande
Spirito può toccare, così molti giovani del villaggio si fanno coraggio e
decidono di accompagnarlo nella caverna, in una missione scientifica che per
loro diventa esorcismo. Dentro, un labirinto, in parte impercorribile. Ma
bastano i primi cento metri alla luce incerta delle torce per dare conferme.
«Ossa dappertutto – racconta il ricercatore – quattro teschi, di cui uno con
addosso la pelle della schiena; proiettili, vestiti abbandonati, ceste per il
trasporto delle granaglie». E poi rocce annerite, forse dai bivacchi (ma
era difficile che i ribelli accendessero fuochi il cui fumo li segnalasse
all´aviazione italiana) o forse dai lanciafiamme.
Gli italiani, raccontano i figli e i nipoti di chi vide, calarono verso
l´imboccatura della grotta dei pesanti bidoni che poi furono fatti esplodere
con i mortai. Era quasi certamente l´iprite, il gas che corrode la pelle e
brucia le pupille. E ancora: chi non fu fucilato, fu buttato nel burrone sotto
la grotta. «Fu colpa degli ascari, le truppe indigene inquadrate nell´esercito
italiano» è l´obiezione ricorrente di fronte ai massacri in Abissinia. «Ma gli
ascari – ribatte Dominioni – non si muovevano mai senza l´ordine di un
ufficiale bianco. La ferocia di queste repressioni era anche il segno
dell´esasperazione dei fascisti di fronte alla resistenza degli etiopi. La
rabbia per un controllo incompleto del territorio».
No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione
di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece
buttare i capitribù nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo.
Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al
bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai
testicoli. Fu quella la nostra «missione civilizzatrice»? L´Africa per noi non
fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito poi nei
forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di
«buono» – Italo Balbo governatore della Libia – fece frustare in piazza gli
ebrei che si rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato.
Quanti perfidi depistaggi della coscienza. «Ambaradan», per esempio. Sa noi è
una parola che fa ridere; vuol dire «allegra confusione». Ma quando sai cosa
accadde nella battaglia dell´Amba Aradam, montagna fatale dell´Etiopia, quel
termine sembra coniato apposta per coprire l´orrore. Migliaia di tonnellate di
iprite per stanare i nemici arroccati nelle grotte, cioè morte orrenda,
inflitta vigliaccamente con sofferenze inaudite. Badoglio fece agli etiopi ciò
che Saddam fece ai Curdi. Solo che Saddam è alla sbarra, e l´Italia non ha
risposto dei suoi crimini.
«C´è bisogno di parlarne – spiega Dominioni – il vuoto storico e morale da
riempire è enorme. A ottobre sarà prima volta che italiani ed etiopi
dibatteranno insieme ad un convegno, a Milano, sull´Africa orientale italiana
sotto vari aspetti, organizzato dall´Insmli. Prima non s´era fatto mai». La
cosa, ovviamente, dà fastidio. Chissà che agli etiopi non venga in mente di
chiederci danni di guerra, cosa che finora non hanno fatto.
«Gli etiopi non hanno mai capito perché l´Italia ha voluto quella guerra
dopo innumerevoli trattati di pace, fratellanza e promesse di coesistenza
pacifica» va giù duro il professor Abebe Brehanu, uno dei massimi storici di
Addis Abeba. «E che sia chiaro – insiste – la vostra non fu una colonizzazione,
ma una semplice invasione, contro tutti i trattati internazionali. Un atto
di illegalità totale di cui ci chiediamo ancora il senso».