Usa, Politica, Medio Oriente
REPUBBLICA Ven. 10/3/2006 VITTORIO ZUCCONI
Dubai rinuncia, salta la cessione dei porti americani
La World Ports si ritira dal
contratto dopo la rivolta dei repubblicani contro la Casa Bianca
Essere vicino a George è come il "bacio della morte", i deputati che
devono essere rieletti non vogliono farsi vedere con lui
Fukuyama, Andrew Sullivan, Bill Kristol e gli altri "guerrafondai" da
tempo hanno abbandonato il commander in chief
La società degli EMIRATI
ARABI che doveva gestire i porti USA rinuncia all’appalto dopo la rivolta dei
parlamentari repubblicani e democratici
TESI
di ZUCCONI: l’affare dei porti è stato solo un pretesto per i parlamentari
repubblicani per prendere le distanze da un BUSH sempre più impopolare; con la
loro rinuncia, che ha tolto la Casa Bianca da una situazione imbarazzante, gli
arabi (già soci d’affari di BUSH) hanno aumentato i loro crediti presso BUSH:
l’intenzione di BUSH di ridurre la dipendenza petrolifera degli USA non avrà
applicazione.
WASHINGTON – E ancora una volta, come nella sua vita di
petroliere in Texas, sono gli amici arabi che devono intervenire per salvare
George W Bush. Dopo l´ammutinamento in massa dei deputati del suo partito
contro la decisione di appaltare al Dubai i grandi porti americani
sull´Atlantico come New York, Filadelfia, Baltimora, gli emiri si sono
gentilmente chiamati fuori, rinunciando al contratto da 6,8 miliardi per «non
compromettere i nostri buoni rapporti».
Signorile gesto e grande respiro di sollievo del Presidente, ma gesto
inevitabile, quando i due leaders della maggioranza repubblicana nelle due
Camere, Hastert per la House e Frist per il Senato, erano andati ieri mattina
alla Casa Bianca per spiegare a Bush che l´affaire Dubai era morto e stava
scatenando la fuga dei topi dal Titanic della Casa Bianca.
Soltanto pellegrini venuti da lontano cercano ancora la benedizione di un Bush
che deputati e senatori del suo stesso partito vivono in questa brutta
primavera tra Iraq e Iran come una zavorra. La decisione di affidare i porti
a una nazione araba era stata soltanto l´occasione pretestuosa che aveva
scatenato l´ammutinamento dei repubblicani contro il loro presidente.
L´appalto dei 6 porti americani non avrebbe sollevato neppure uno sbadiglio,
neppure nel tempo del post 11 settembre, ma in questo clima di terrori
elettorali aveva offerto ai peones repubblicani e alla opposizione democratica
l´occasione per allearsi e votare contro Bush con 62 voti contrari e soltanto 2
a favore. Un plebiscito. In quel voto, vistosamente politico, era stata
inettata una dose micidiale di veleno, subordinando i nuovi finanziamenti
straordinari per la guerra in Iraq, altri 90 miliardi da buttare nella fornace,
al «no» contro il Dubai.
«Essere visti come vicini a Bush è il bacio della morte» spiegava Dick Morris,
il più cinico dei manipolatori elettorali americani. Dottrine, retorica
patriottarda, squilli di guerra non valgono un seggio in Oklahoma o in
Pennsylvania per i parlamentari vacillanti che ora si aggrappano all´uomo più
odiato dai bushisti, quel senatore McCain che ora viene guardato come al
possibile salvatore della destra e come al candidato che potrebbe salvare la
Casa Bianca da Hillary Clinton, nel 2008.
Voci del moderatismo soffocate dagli strepiti della destra neo-con e dal
ricatto morale della «nazione in guerra» stanno ritrovano forza, di fronte a
quella che ormai persino i generali americani devono ammettere è una «guerra
civile a bassa intensità» in Iraq, sotto lo sguardo di una forza americana
incapace di impedirla, che ieri ha superato i 2.300 caduti e i 20 mila feriti.
Personaggi della destra storica come William Buckley («ora dobbiamo ammettere
che la guerra non può essere vinta») o George Will sul Washington Post, per
decenni il columnist più rispettato dai moderati e poi svillaneggiato dai
«nuovi falchi» come un rottame del vecchio tartufismo realista, hanno ormai
abbandonato Bush.
Nuovi apostoli della guerra preventiva e del «cambio di regime», ci ripensano,
come Andrew Sullivan, il commentatore inglese del Times di Londra o ora di Time
magazine che dal suo seguitissimo blog ha da tempo scaricato Bush e la sua
«gang di inetti», particolarmente offeso dalle torture e dall´oscenità legale
di Guantanamo. Francis Fukuyama, uno dei convertiti al campo dei «warmongers»,
dei «guerrafondai» neo-con è ormai un critico inflessibile e persino tra i
«boia chi molla» dell´interventismo, come Richard Perle o il garrulo Bill
Kristol, direttore del Weekly Standard, la Pravda dei neo-con, hanno messo luce
fra loro e la amministrazione Bush, utilizzando il classico distinguo di tutti
gli ideologhi in difficoltà di fronte alla realtà: l`idea resta buona
l´esecuzione è stata pessima.
Ma nessuno di loro rischia il posto, come i deputati repubblicani negli stati
di frontiera politica come la California o come il senatore Rick Santorum,
beniamino dei fondamentalisti teo-con che improvvisamente si è scoperto in
difficoltà elettorali nella sua Pennsylvania e annaspa. A loro, come ai
colleghi democratici che da tempo cercavano di sbalzare Bush dal piedistallo
del «grande protettore» dell´America dal terrorismo, l´affaire Dubai aveva
offerto un contropiede perfetto quanto pretestuoso. L´opposizione aveva potuto
attaccare Bush accusandolo di avere svenduto proprio quei porti dai quali
transitano 33 milioni di containers all´anno a quella nazione araba dalla quale
transitarono i fondi per l´11 settembre. I repubblicani con il seggio
traballante avevano trovato l´inghippo all´italiana per allontanarsi dal
Presidente senza dover sconfessare il loro precedente appoggio a lui, su un
tema divenuto esplosivo e sfruttabile demagogicamente quando un rapporto della
Guardia Costiera aveva avvertito che la concessione a un gestore arabo avrebbe
posto problemi di sorveglianza. Chi gestisce i porti conosce e controlla
tutti i movimenti delle navi e i «manifesti» del loro carico. Una manna per un
gruppo terroristico.
Argomenti emozionali, superficiali e macchiati di evidente «arabofobia»,
visto che già i porti americani sono gestiti da una società straniera, ma
inglese e soltanto il 13%, dei containers è esaminato da un ministero per
Sicurezza della Patria che tormenta i turisti stranieri negli aeroporti
mentre ignora i cargo e i containers. Ma il 70% degli americani aveva fatto
sapere di non volere che i porti finissero in mani arabe, e la vecchia «arabian
connection» che George padre aveva coltivato e che George figlio aveva
sfruttato per salvarsi dal fallimento delle sue prime impesa, la «Arbusto»
(bush in inglese) e la «Harken Energia» hanno di nuovo tolto dagli impicci «W».
Un altro grosso credito che i signori dei pozzi arabi hanno acquisito con il
clan Bush. La promessa fatta da Bush nel proprio discorso sullo stato
dell´Unione, di liberare l´America dalla «tossicodipendenza dal petrolio»
resterà una frasetta in aria. La famiglia Bush è da tempo legata strettamente
al gruppo di investimenti internazionali privati «Carlysle». Dove sta la sede
centrale del gruppo? In Dubai.