I paesi ricchi di risorse energetiche stanno aumentando il prezzo per l’ammissione degli stranieri

Energia, Paesi Produttori,  Paesi consumatori        Nyt                        05-07-05

<1360664"><1360665">I paesi ricchi di risorse energetiche stanno aumentando il prezzo per l’ammissione degli stranieri

Juan Forero

Forti del prezzo record  raggiunto da petrolio e gas, i paesi latino-americani produttori, ultima dei quali la Bolivia,  vogliono una quota maggiore della ricchezza prodotta, fino ad annullare in certi casi contratti a lungo termine molto favorevoli per le compagnie dell’energia.

Molti dei maggior produttori mondiali di energia, tra cui Arabia Saudita, Kuwait, Iran e Messico, non rientrano nel caso dato che le compagnie petrolifere statali controllano pienamente o predominano nella produzione.

Tra i paesi che stanno inasprendo le condizioni vi sono Russia,Venezuela, Kazakistan, Nigeria e Algeria. La loro produzione – pari al 20% del rifornimento mondiale – dipende da società private estere o nazionali.
I prezzi in crescita hanno fatto registrare profitti record alle compagnie petrolifere: 44% per Exxon Mobil, pari a $7,86 md. nel primo trimestre 2005; per Royal Dutsch-Shell 28%.
Il profitto netto combianto delle 4 maggiori compagnie petrolifere, Exxon Mobil, BP, Shell and ConocoPhillips, è aumentato del 39% sul 2004. per un confronto: i profitti di Exxon Mobil del primo quadrimenstre, $82,05md, si avvicina ai $107md. del Pil venezuelano, che fornisce al maggior parte del suo petrolio grezzo agli Usa.

Bolivia: il saccheggio spagnolo del suo oro, nel XIX sec., poi i baroni dell’alluminio, e infine le multinazionali dell’energia che nel decennio 1990 hanno sfruttato il secondo maggior giacimento sudamericano di gas naturale.

Ora la popolazione chiede di avere una quota maggiore di profitti, alcuni gruppo chiedono l’espropriazione; il governo ha aumentato le royalty e le tasse a livelli tra i maggiori dell’America Latina. Le proteste popolari hanno fatto cadere due presidenti in 20 mesi, l’ultimo dopo che il Congresso boliviano aumentò fortemente le tasse per le compagnie estere, senza però soddisfare le richieste di alcuni gruppi.

Il gigante spagnolo Repsol Ypf, le cui holding in Bolivia sono solo una piccola parte della sua produzione mondiale, sta pensando di fare causa al paese per aver modificato i contratti vigenti.

Le società petrolifere stanno iniziando ora a fare investimenti in Bolivia; al gruppo TransBoliviano partecipano anche Shell, Petrobras e British Gas.

Le grandi società che hanno fatto forti investimenti in aree tecnologicamente difficili da sfruttare, come la cintura dell’Orinoco in Venezuela o la regione del Mar Caspio, stanno intascando ora i profitti e non intendono abbandonare questi progetti; le possibilità d’investimento si sono ristrette dato che molti dei maggior paesi produttori limitano gli investimenti esteri.

La Russia, uno dei paesi con una nuova politica più rigida (Cfr. Yukos…), nel 2004 ha aumentato le imposte sulla produzione del 15%, e portato la tassa sull’export di petrolio grezzo a oltre i $25 al barile, manovrando per conferire un maggior controllo sulle risorse energetiche del paese alla statale Gazprom, il maggior produttore mondiale di gas naturale. I legislatori russi stanno discutendo se limitare le partecipazioni estere in determinati progetti di larga dimensione.

Una nuova legge del Kazakistan stabilisce che al quota del governo su tutti i profitti con il petrolio oltre i $27 sia del 90%, e la partecipazione statale nei progetti sia almeno del 50%.

Nigeria: il maggior esportatore africano di petrolio, sta imponendo nuove royalty; i nuovi contratti offshore saranno molto più restrittivi dei precedenti accordi.

Venezuela: il suo presidente Hugo Chavez sta progettando di utilizzare  $4md. del budget della società petrolifera statale Petróleos de Venezuela, in una serie di programmi che vanno dagli ospedali all’istruzione a sussidi di mercato. Le società estere, che producono 1,1 mn. di b/g su 2,6mn., sono necessarie per produrre queste entrate. Nei primi anni ’90 il governo aprì il settore energetico agli investimenti esteri offrendo allettanti accordi a società come ConocoPhillips, Chevron, la francese Total e la norvegese Statoil, che pagavano una royalty dell’1%; lo scorso ottobre il governo Chavez ha innalzato le royalty della regione dell’Orinoco al 16,6%.

Il Venezuela spera di aumentare l’aliquota di reddito sui progetti nell’Orinoco dal 34 al 50%.

In altre parti del paese sono stati inaspriti i termini, con la richiesta di oltre $3md di tasse arretrate, un aumento delle imposte e l’imposizione della maggioranza dello Stato nella proprietà.Juan Forero

Forti del prezzo record  raggiunto da petrolio e gas, i paesi latino-americani produttori, ultima dei quali la Bolivia,  vogliono una quota maggiore della ricchezza prodotta, fino ad annullare in certi casi contratti a lungo termine molto favorevoli per le compagnie dell’energia.

Molti dei maggior produttori mondiali di energia, tra cui Arabia Saudita, Kuwait, Iran e Messico, non rientrano nel caso dato che le compagnie petrolifere statali controllano pienamente o predominano nella produzione.

Tra i paesi che stanno inasprendo le condizioni vi sono Russia,Venezuela, Kazakistan, Nigeria e Algeria. La loro produzione – pari al 20% del rifornimento mondiale – dipende da società private estere o nazionali.
I prezzi in crescita hanno fatto registrare profitti record alle compagnie petrolifere: 44% per Exxon Mobil, pari a $7,86 md. nel primo trimestre 2005; per Royal Dutsch-Shell 28%.
Il profitto netto combianto delle 4 maggiori compagnie petrolifere, Exxon Mobil, BP, Shell and ConocoPhillips, è aumentato del 39% sul 2004. per un confronto: i profitti di Exxon Mobil del primo quadrimenstre, $82,05md, si avvicina ai $107md. del Pil venezuelano, che fornisce al maggior parte del suo petrolio grezzo agli Usa.

Bolivia: il saccheggio spagnolo del suo oro, nel XIX sec., poi i baroni dell’alluminio, e infine le multinazionali dell’energia che nel decennio 1990 hanno sfruttato il secondo maggior giacimento sudamericano di gas naturale.

Ora la popolazione chiede di avere una quota maggiore di profitti, alcuni gruppo chiedono l’espropriazione; il governo ha aumentato le royalty e le tasse a livelli tra i maggiori dell’America Latina. Le proteste popolari hanno fatto cadere due presidenti in 20 mesi, l’ultimo dopo che il Congresso boliviano aumentò fortemente le tasse per le compagnie estere, senza però soddisfare le richieste di alcuni gruppi.

Il gigante spagnolo Repsol Ypf, le cui holding in Bolivia sono solo una piccola parte della sua produzione mondiale, sta pensando di fare causa al paese per aver modificato i contratti vigenti.

Le società petrolifere stanno iniziando ora a fare investimenti in Bo
livia; al gruppo TransBoliviano partecipano anche Shell, Petrobras e British Gas.

Le grandi società che hanno fatto forti investimenti in aree tecnologicamente difficili da sfruttare, come la cintura dell’Orinoco in Venezuela o la regione del Mar Caspio, stanno intascando ora i profitti e non intendono abbandonare questi progetti; le possibilità d’investimento si sono ristrette dato che molti dei maggior paesi produttori limitano gli investimenti esteri.

La Russia, uno dei paesi con una nuova politica più rigida (Cfr. Yukos…), nel 2004 ha aumentato le imposte sulla produzione del 15%, e portato la tassa sull’export di petrolio grezzo a oltre i $25 al barile, manovrando per conferire un maggior controllo sulle risorse energetiche del paese alla statale Gazprom, il maggior produttore mondiale di gas naturale. I legislatori russi stanno discutendo se limitare le partecipazioni estere in determinati progetti di larga dimensione.

Una nuova legge del Kazakistan stabilisce che al quota del governo su tutti i profitti con il petrolio oltre i $27 sia del 90%, e la partecipazione statale nei progetti sia almeno del 50%.

Nigeria: il maggior esportatore africano di petrolio, sta imponendo nuove royalty; i nuovi contratti offshore saranno molto più restrittivi dei precedenti accordi.

Venezuela: il suo presidente Hugo Chavez sta progettando di utilizzare  $4md. del budget della società petrolifera statale Petróleos de Venezuela, in una serie di programmi che vanno dagli ospedali all’istruzione a sussidi di mercato. Le società estere, che producono 1,1 mn. di b/g su 2,6mn., sono necessarie per produrre queste entrate. Nei primi anni ’90 il governo aprì il settore energetico agli investimenti esteri offrendo allettanti accordi a società come ConocoPhillips, Chevron, la francese Total e la norvegese Statoil, che pagavano una royalty dell’1%; lo scorso ottobre il governo Chavez ha innalzato le royalty della regione dell’Orinoco al 16,6%.

Il Venezuela spera di aumentare l’aliquota di reddito sui progetti nell’Orinoco dal 34 al 50%.

In altre parti del paese sono stati inaspriti i termini, con la richiesta di oltre $3md di tasse arretrate, un aumento delle imposte e l’imposizione della maggioranza dello Stato nella proprietà.Nyt                 05-07-05
<109188770">Energy-Rich Nations Are Raising Price of Foreign Admittance
By JUAN FORERO

LA PAZ , Bolivia – For centuries, this country made it easy for prospectors to mine – from the Spaniards who plundered gold to the tin barons of the 19th century to the multinational energy companies that flocked here in the 1990’s to develop Latin America’s second-largest natural gas deposits.

But like many energy-producing countries these days, Bolivia has pulled back the welcome mat. With an angry population demanding a larger share of the benefits, and some groups even calling for expropriation, the government recently raised royalties and taxes to among the highest levels in Latin America.

It might appear to be an exceptional episode of revolutionary zeal translated into energy policy. But Bolivia is just the latest of several oil-and-gas-producing countries in Latin America and beyond that are squeezing energy companies as never before.

With prices of crude oil and natural gas at record highs , and ideology increasingly propelling government policy makers, producing nations are demanding a larger part of the mineral wealth. In some cases, they are canceling long-term contracts that gave energy companies highly favorable terms.

"They think that since there is more revenue coming in, they can take a much harder line in negotiations," said Lawrence J. Goldstein, president of the Petroleum Industry Research Foundation, an industry-financed analysis group in New York. "In some cases, they don’t even need to negotiate."

Many of the world’s giant energy producers, among them Saudi Arabia, Kuwait, Iran and Mexico, play no role in the trend because their state-owned companies either fully control or dominate production. But Russia, Venezuela, Kazakhstan, Nigeria and Algeria, together accounting for 20 percent of the world’s supply but dependent on foreign and private domestic companies, are another story.

They are among the countries that are tightening the terms – sending a message that has reverberated in the industry at a time when supplies are tight. Some industry representatives call the new terms a chokehold that will slow investments, just as consuming nations need more oil to reduce prices.

"Both the tighter terms and the fluidity of contract terms will cause companies to second-guess further investment," said Michelle Billig, director of political risk at the PIRA Energy Group, a New York consulting firm. "The willingness of countries to change the terms halfway through the project complicates any type of investment decision because you don’t know what terms you’re going to have at the end of the project."

To governments, though, the squeeze is justified because of the huge amount of money that oil companies are generating. A barrel of oil traded above $60 last week, before settling Friday at $58.75. Natural gas, which has doubled in price in the United States in five years, is in high demand the world over.

"They’ve never had earnings of this order," said Victor Poleo, a left-leaning oil economist in Venezuela. "So this awakens an insatiable appetite in governments for that income."

The increasing prices have been a windfall for oil companies, which are registering record profits.

The Exxon Mobil Corporation saw profit jump 44 percent to $7.86 billion in the first quarter this year, while Royal Dutch/Shell’s profit climbed 28 percent. The combined net income of the four biggest oil companies – Exxon Mobil, BP, Shell and ConocoPhillips – increased 39 percent from a year earlier, the companies reported in April.

Measured another way, Exxon Mobil’s revenue for the first quarter – $82.05 billion – is nearly as much as the $107 billion gross domestic product in Venezuela, which supplies much of its crude oil to the United States.

The big profits are not lost on people like Abel Mamani, the leader of Fejuve, an influential antiglobalization group in Bolivia that has fought oil companies. Angry protests against the country’s energy policies have already led two presidents to resign in 20 months.

The latest resignation came last month after the Bolivian Congress sharply raised taxes on foreign energy companies, but not enough to placate some groups – the protests continued and talk of nationalization was in the air.

"This is a necessity," Mr. Mamani said in an interview. "We are tired of these companies taking advantage of our resources."

Energy analysts say such a hard line could backfire in struggling
countries like Bolivia or Ecuador, where energy reserves are large, but the industry still needs to be developed.

Repsol YPF, a Spanish energy giant whose Bolivia holdings account for a small part of worldwide production, has publicly said that it is considering legal action against Bolivia for changing contracts.

"The problem in Bolivia is companies are just now making investment," said Ed Miller, the president of Gas TransBoliviano, a pipeline group owned in part by Shell, Petrobras and British Gas, adding, "This is going to have disastrous effects in the long term."

That may not be the case in most countries that are tightening terms. "Countries like Venezuela, which are in a class on their own, can be more demanding in pushing for a government take," said Roger Tissot, director of countries and markets at PFC Energy, a consultant group based in Washington.

In a sense, companies are captives of their own success. Big oil may have invested billions in technologically challenging areas, like the Orinoco Belt of Venezuela or the Caspian Sea region, but now they are reaping the benefits, with oil flowing out and petro-dollars flowing in.

They are not about to abandon those projects now. Nor do they have unlimited options for new investments, since many of the world’s top energy-producing countries restrict foreign investment.
"There are very few countries with attractive reserves that are open to foreign investment," Ms. Billig of PIRA Energy said. "Those which are open recognize their bargaining power."
PIRA, which has completed a report on the trend, says some of the toughest new policies are in Russia, by some accounts the world’s second-largest oil exporter. In its drive to assert control over the industry, the Kremlin aggressively sought back taxes last year against Yukos, the country’s largest private oil company, leading to its sale in a state auction.
The move stifled the political ambitions of Mikhail B. Khodorkovsky, the founder of Yukos, who was sentenced in May to nine years in prison.
In 2004, Russia increased the production tax rate by 15 percentage points and raised the export tax for crude oil that sells for more than $25 a barrel, while maneuvering to give state-run Gazprom, already the world’s largest producer of natural gas, greater reach over the country’s energy resources.

More ominously for oil companies, Russian legislators are discussing whether to limit foreign participation in certain large-scale projects.

Kazakhstan , a former Soviet republic, is also toughening terms, with a new law calling for a 90 percent minimum government share of all profits when oil is selling above $27 a barrel and at least a 50 percent state participation in projects.
In Nigeria, Africa’s largest oil exporter, the government is levying new royalties, and its new offshore contracts are expected to be far more restrictive than past agreements.

No country’s energy policies have attracted as much attention as those of Venezuela, whose government has turned the state oil company, Petróleos de Venezuela, into an engine for social change, while increasing taxes and royalties and changing long-term contracts with foreign multinationals.

Venezuela’s government, led by its leftist president, Hugo Chávez, is planning to spend up to $4 billion of the oil company’s budget this year on a range of programs, from clinics to literacy programs to subsidized markets. Foreign companies, which produce 1.1 million barrels a day out of a total of 2.6 million barrels daily, are needed to help generate that revenue.
The shift could not be in sharper contrast to the early 1990’s, when the government opened the energy sector to foreign investment and offered sweet deals to companies like ConocoPhillips, Chevron, Total of France and Statoil of Norway. In the vast Orinoco Belt, companies paid only a 1 percent royalty, a level intended to overcome concerns about drilling for heavy, poor-quality oil.

That all changed last October, when Mr. Chávez’s government increased the royalties in the Orinoco region to 16.6 percent, ending a virtual tax holiday. Venezuela is now hoping to raise the income tax rate on the projects in the Orinoco to 50 percent from 34 percent, the country’s energy minister, Rafael Ramírez, told reporters recently.

In other parts of the country, the government has also toughened terms, seeking as much as $3 billion in back taxes, raising taxes and requiring majority state ownership. Companies are still welcome, officials say, while making clear that the state is in charge.

"The higher prices permit countries to have the higher revenues for development," said Nicolás Maduro, president of the National Assembly in Venezuela. "Even with the higher royalties and taxes, the oil company earnings are still enormous."

Copyright 2005 The New York Times

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