Dopo la vittoria di ABU MAZEN alle elezioni presidenziali dell’ANP, una trattativa reale fra ISRAELE e ANP si avrà se ABU MAZEN riuscirà ad assorbire nell’ANP gruppi più oltranzisti come Hamas, anche se incontrerà la contrarierà di ISRAELE o potrebbe frantumare ulteriormente l’ANP.
Sarà determinante il ruolo degli USA.
Tanto scontate nel risultato quanto rivoluzionarie nel messaggio politico che lanciano, le elezioni palestinesi di ieri dovranno attendere un complesso domani prima di scoprire il loro posto nella storia. Il successo del pragmatico Abu Mazen conforta la speranza di un nuovo e più costruttivo dialogo israelo-palestinese dopo la scomparsa di Arafat. Il numero dei candidati e lo svolgersi di una «vera» seppur breve campagna elettorale crea un precedente democratico che aspetta imitatori nell’intero mondo arabo. Ma in Medio Oriente la delusione è subentrata troppe volte alle iniziali euforie perché oggi non si senta il bisogno di prendere tempo e di verificare sul campo quanto vorranno e potranno fare gli stessi palestinesi, gli israeliani, gli americani e gli europei.
Abu Mazen il suo convincimento lo ha spiegato con sufficiente chiarezza: l’intifada armata e terrorista ha danneggiato la causa dello Stato palestinese invece di aiutarla, ora occorre recuperare il confronto politico con Israele senza cedere sulle rivendicazioni fondamentali. Ma il successore di Arafat sa bene che non sarà facile raggiungere questo primo traguardo. Hamas, il più potente e ramificato tra i gruppi che predicano la lotta armata contro Israele, non ha partecipato alle elezioni e potrà ora trasformare la percentuale di astensioni in consenso presunto. E cosa faranno la Jihad islamica, i martiri di al-Aqsa, gli Hezbollah che operano dal Libano?
Non potrà esserci alcuna vera ripresa del dialogo con Gerusalemme, se Abu Mazen non riuscirà a unificare sotto il suo comando le forze di sicurezza palestinesi e a far cessare la violenza anti-israeliana. Troppo lucido e anche troppo debole per affrontare un braccio di ferro che rischierebbe di degenerare in guerra civile, il nuovo presidente palestinese pensa di «smilitarizzare» l’intifada cooptando Hamas e compagni nelle strutture di vertice dell’Anp. Il che, nel migliore dei casi, richiederà compromessi sgraditi a Israele. E nel peggiore frantumerà ulteriormente la società e la dirigenza palestinesi, vanificando il potere operativo di Abu Mazen.
Ariel Sharon vuole capire esattamente questo: se i nemici giurati di Israele si lasceranno assimilare in un processo politico e se ci sarà, per conseguenza, una cessazione della violenza palestinese. Sono prevedibili gesti di incoraggiamento nei confronti di Abu Mazen, un ruolo costruttivo potrà venire dalla «grande coalizione» che proprio in queste ore nasce a Gerusalemme tra Likud e laburisti, si tenterà di coordinare il disimpegno da Gaza con le autorità palestinesi, ma pochi credono che Israele sia disposto ad aprire una vera trattativa senza che sia stata prima imbrigliata la minaccia terroristica. E dal momento che gli stessi israeliani peccano non di rado nell’uso eccessivo della loro forza di reazione, il mancato prevalere della leadership di Abu Mazen altro non produrrebbe se non il consueto e tragico rincorrersi di spargimenti di sangue sui due fronti.
Simili premesse esaltano l’importanza delle scelte che compirà l’America, unica potenza globale in grado di far sentire la sua influenza tanto sugli israeliani quanto sui palestinesi. Usciti da un volontario letargo con il superamento della scadenza presidenziale, confortati dalla scomparsa di quell’Arafat che George Bush aveva messo all’indice, amici di Abu Mazen e alleati di Sharon, gli Stati Uniti hanno ora una doppia occasione: quella di mettere in atto una energica mediazione tra israeliani e palestinesi, e anche quella di dimostrare così che la sconfortante avventura irachena qualche importante ricaduta positiva l’ha prodotta.
«Siamo già pronti a fare molto di più per dare nuovo impulso al processo di pace», assicura Powell, e non c’è motivo di credere che George Bush o Condi Rice la pensino diversamente. Tanto più che una forte iniziativa nella crisi israelo-palestinese viene vista dagli europei, per una volta compatti e anzi stimolati dal britannico Blair, come la vera cartina di tornasole dell’auspicato rasserenamento nelle relazioni transatlantiche. E come sempre, se l’America si muoverà, l’Europa la seguirà a ruota provando a far valere i suoi consolidati rapporti con il campo palestinese.
A conti fatti, il vero esito delle elezioni dipende dai rapporti prossimi venturi tra Abu Mazen e Hamas. Il rischio di un fallimento rimane. A meno che tutte le parti in causa si dimostrino tanto sagge da riportare d’attualità la vecchia ricetta di Yitzak Rabin: negoziare come se il terrorismo non ci fosse, combattere il terrorismo come se non si stesse negoziando.
Abu Mazen il suo convincimento lo ha spiegato con sufficiente chiarezza: l’intifada armata e terrorista ha danneggiato la causa dello Stato palestinese invece di aiutarla, ora occorre recuperare il confronto politico con Israele senza cedere sulle rivendicazioni fondamentali. Ma il successore di Arafat sa bene che non sarà facile raggiungere questo primo traguardo. Hamas, il più potente e ramificato tra i gruppi che predicano la lotta armata contro Israele, non ha partecipato alle elezioni e potrà ora trasformare la percentuale di astensioni in consenso presunto. E cosa faranno la Jihad islamica, i martiri di al-Aqsa, gli Hezbollah che operano dal Libano?
Non potrà esserci alcuna vera ripresa del dialogo con Gerusalemme, se Abu Mazen non riuscirà a unificare sotto il suo comando le forze di sicurezza palestinesi e a far cessare la violenza anti-israeliana. Troppo lucido e anche troppo debole per affrontare un braccio di ferro che rischierebbe di degenerare in guerra civile, il nuovo presidente palestinese pensa di «smilitarizzare» l’intifada cooptando Hamas e compagni nelle strutture di vertice dell’Anp. Il che, nel migliore dei casi, richiederà compromessi sgraditi a Israele. E nel peggiore frantumerà ulteriormente la società e la dirigenza palestinesi, vanificando il potere operativo di Abu Mazen.
Ariel Sharon vuole capire esattamente questo: se i nemici giurati di Israele si lasceranno assimilare in un processo politico e se ci sarà, per conseguenza, una cessazione della violenza palestinese. Sono prevedibili gesti di incoraggiamento nei confronti di Abu Mazen, un ruolo costruttivo potrà venire dalla «grande coalizione» che proprio in queste ore nasce a Gerusalemme tra Likud e laburisti, si tenterà di coordinare il disimpegno da Gaza con le autorità palestinesi, ma pochi credono che Israele sia disposto ad aprire una vera trattativa senza che sia stata prima imbrigliata la minaccia terroristica. E dal momento che gli stessi israeliani peccano non di rado nell’uso eccessivo della loro forza di reazione, il mancato prevalere della leadership di Abu Mazen altro non produrrebbe se non il consueto e tragico rincorrersi di spargimenti di sangue sui due fronti.
Simili premesse esaltano l’importanza delle scelte che compirà l’America, unica potenza globale in grado di far sentire la sua influenza tanto sugli israeliani quanto sui palestinesi. Usciti da un volontario letargo con il superamento della scadenza presidenziale, confortati dalla scomparsa di quell’Arafat che George Bush aveva messo all’indice, amici di Abu Mazen e alleati di Sharon, gli Stati Uniti hanno ora una doppia occasione: quella di mettere in atto una energica mediazione tra israeliani e palestinesi, e anche quella di dimostrare così che la sconfortante avventura irachena qualche importante ricaduta positiva l’ha prodotta.
«Siamo già pronti a fare molto di più per dare nuovo impulso al processo di pace», assicura Powell, e non c’è motivo di credere che George Bush o Condi Rice la pensino diversamente. Tanto più che una forte iniziativa nella crisi israelo-palestinese viene vista dagli europei, per una volta compatti e anzi stimolati dal britannico Blair, come la vera cartina di tornasole dell’auspicato rasserenamento nelle relazioni transatlantiche. E come sempre, se l’America si muoverà, l’Europa la seguirà a ruota provando a far valere i suoi consolidati rapporti con il campo palestinese.
A conti fatti, il vero esito delle elezioni dipende dai rapporti prossimi venturi tra Abu Mazen e Hamas. Il rischio di un fallimento rimane. A meno che tutte le parti in causa si dimostrino tanto sagge da riportare d’attualità la vecchia ricetta di Yitzak Rabin: negoziare come se il terrorismo non ci fosse, combattere il terrorismo come se non si stesse negoziando.