Nanterre archetipo delle banlieues

La Nanterre delle bidonvilles

La Nanterre delle bidonvilles non c’è più. Fu smantellata dalle ruspe nei primi anni ‘70, ma per vent’anni fu una delle riserve di manodopera della Parigi del secondo dopoguerra, quella della Citroen e della Renault. A metà degli anni ‘50 in Île de France vivevano più della metà degli algerini e dei nord-africani immigrati nel paese (nota 1).

Delle bidonvilles di Nanterre parlò nel 1995, tre anni prima di morire, Abdelmalek Sayad, un sociologo algerino che per tutta la vita scrisse di immigrazione. Il libro “Un Nanterre algérien, terre de bidonvilles” fu totalmente ignorato in Francia, ma permise di conservare le memorie di un luogo e un periodo di storia che la Francia dei politici e dei potenti aveva voluto cancellare per sempre, anche fisicamente, perché illustrava il vorace consumo di uomini e la brutalità del capitale durante la ricostruzione postbellica.

Nanterre 1965 – Parigi Museo dell’Immigrazione

Nanterre aveva conosciuto già dai primi del ‘900 una forte industrializzazione (fonderie, fabbriche di carta, di profumi e di prodotti farmaceutici). Lo sviluppo proseguì fra le due guerre con la nascita di uno stabilimento automobilistico che poi sarà la SIMCA, le fabbriche Lanvin, Forvil, Heudebert, Campari.

Nel secondo dopoguerra la città diventa un dormitorio al servizio di Parigi. I primi immigrati maghrebini, prevalentemente uomini, vengono ospitati negli hotel meublés, piccole pensioni di infimo livello. La pressione alloggiativa è fortissima e i più intraprendenti cominciano a costruire negli spazi liberi le baracche, soprattutto se è in arrivo la moglie con i figli. Poi molti si specializzano nel reperire i luoghi adatti, i materiali di fortuna: in due settimane si costruisce un alloggio che garantisca un po’ di intimità ai nuovi nuclei familiari.

Ma il problema è come avere dell’acqua, fornita da poche fontane pubbliche comunali. Da qui le lunghe code per procurarsela. Chi vive nella bidonville vive immerso nel fango quando piove e il rischio di incendi è quotidiano, ogni tanto un bambino viene morso da un topo. Non ci sono servizi igienici e nemmeno un servizio raccolta rifiuti. La tubercolosi è endemica. I francesi fingono di non vedere: le braccia degli immigrati servono alle industrie. La bidonville si struttura in qualche modo: si creano piccoli negozi, mercati, piccole attività artigianali, fra cui la raccolta di stracci e il riciclo di abiti usati.

La guerra d’indipendenza d’Algeria è in pieno svolgimento (1954-62). In questo “dipartimento d’Oltremare”, ipocrita formula per definire una colonia che si ritiene del tutto assimilata, fu introdotto da una legge speciale del 3 aprile 1955 lo stato di emergenza. A livello locale i prefetti possono imporre il coprifuoco, il divieto di assembramento (di assemblea), e la libertà di perquisizione anche delle abitazioni senza mandato. Il governo lo può imporre per 12 giorni. Il parlamento può prorogarlo per 3 mesi. Circa sei anni dopo la legge trova applicazione anche in Francia.

In Francia nel 1961 vivono già 350 mila algerini, sono indispensabili per lo sviluppo industriale. Sono persone che hanno la cittadinanza francese, ma che ovviamente vengono percepiti e trattati come indigeni. Sono una risorsa ma anche un pericolo. Occorre “tenerli al loro posto”.

Anche prima dello scoppio della guerra, il Fronte Nazionale di Liberazione (FNL) algerino si insedia su tutto il territorio francese nelle bidonvilles, organizza gli immigrati algerini, raccoglie fondi. Il FNL è concentrato sull’obiettivo della liberazione del paese, gli immigrati sono uno strumento utile ma sacrificabile. In nessun modo si impegnerà mai a organizzarli in Francia. Nel 1951 circa diecimila algerini sfilano a Parigi chiedendo l’indipendenza. Nel ’53 sfilano ancora appoggiati da parte della sinistra francese, la polizia spara e uccide 7 immigrati. Per contrastare questo «contro-potere», lo stato francese inasprisce ulteriormente le misure repressive in particolare con la creazione di corpi speciali di polizia preposti al controllo dei «francesi musulmani». Nel marzo 1958 viene nominato a prefetto di Parigi Maurice Papon. Costui è stato, fra il 1942 e il 1944, prefetto nella Bordeaux occupata dai tedeschi e ha collaborato alla deportazione di 1.600 ebrei della Gironda. Nel ’44 prende contatti con la Resistenza per traghettarsi impunito nella futura Francia liberata. Prosegue la sua carriera nel Ministero dell’interno, con incarichi in Algeria e Marocco. In Algeria crea per la repressione nelle baraccopoli reparti speciali composti da harkis (arabi lealisti), che utilizzano sistematicamente la tortura e la brutalità più spinta. Da prefetto di Parigi riproduce il modello: crea un’unità speciale, la Forza di polizia ausiliaria (FPA), composta da 300 algerini che hanno combattuto contro il Fronte in Algeria e sono avvezzi alle tecniche della «guerra contro-rivoluzionaria». Ne vengono trasferiti anche i metodi: le cantine del commissariato del quartiere della Goutte d’Or, al nord di Parigi sono tristemente famose per le torture e i pestaggi. Chi non si piega viene internato per semplice via amministrativa, senza alcun procedimento giudiziario, in campi di detenzione. Il primo ministro Michel Debré e il ministro dell’Interno Roger Fey sono pienamente informati.

Nell’autunno del 1961 il FNL organizza alcuni attentati contro le FPA (22 poliziotti morti). Papon risponde con la cattura e l’uccisione di decine di militanti algerini, i cui corpi cominciano ad essere restituiti dalla Senna. Viene istituito il 5 ottobre il coprifuoco per gli algerini (dalle 20,30 alle 5,30).

Il FNL organizza per il 17 ottobre (sono in corso i negoziati per l’indipendenza) una manifestazione a Parigi che deve essere “rigorosamente pacifica”. I manifestanti sono per lo più operai delle bidonvilles, con mogli e figli. Non tutti sono aderenti al FNL, ma non hanno scelta. Vengono da tutta la Francia, la polizia ne aspetta 30 mila. Molti non raggiungono il punto di concentramento. La polizia li attacca preventivamente con i manganelli; in molte situazioni spara sui gruppi che si spostano. I pestaggi e le violenze continuano anche nei commissariati e nei bus che portano gli algerini verso gli stadi della città adibiti a centri di detenzione. Il comunicato della polizia parla di “regolamenti di conti fra bande algerine” e cita 2 morti. Gli storici inglesi Jim House e Neil MacMaster ricostruiranno l’uccisione di almeno 120 algerini, altrettanti sono “scomparsi”. In seguito. Nel 1991 Jean-Luc Einaudi, studiando i registri dei cimiteri e intervistando i sopravvissuti, ricostruirà un elenco di 400 morti. Gli arrestati furono 14 mila (nota 2).

La repressione contro civili inermi creò un solco fra la comunità algerina e quella francese, radicalizzò la prima e rimase come un marchio nella memoria collettiva degli immigrati maghrebini.

Abitare le bidonvilles

Del resto essere abitanti delle bidonvilles è già un marchio indelebile, condanna a una definitiva esclusione sociale. I nuovi arrivati non hanno scelta, entrando nelle baracche, camminando nel fango delle sue strade sono destinati a una marginalità prolungata. La repressione del 1961, registra Sayad, porta i più vecchi alla rassegnazione e al fatalismo, mentre nei più giovani cresce la rabbia e il risentimento. I maghrebini sono in fondo alla scala salariale, spesso non hanno contratti regolari. Per tutti gli anni ’50 sono soggetti agli arbitri delle autorità che da un lato incoraggiano l’immigrazione su pressione degli industriali, dall’altro a volte deportano gli operai in Algeria temendone il potenziale di ribellione. Solo dal ’54 gli arrivi sono superiori alle deportazioni. Ancora negli anni ’60 le autorità francesi deportano l’8% dei residenti algerini in Francia. Nel ventennio la stampa francese dipinge costantemente l’arabo come aggressivo, incline alla violenza, un vero “barbaro”; si derideva la loro dieta che ne faceva dei lavoratori deboli, afflitti da numerose e a volte innominabili malattie. Ancora più complessa la situazione degli immigrati di seconda generazione, di cultura francese, ma considerati “arabi” dai francesi e viceversa spesso considerati francesi (e “traditori”) nella patria d’origine.

La rottura del ’68 e lo sciopero contro il razzismo

Ma il ’68 introduce una novità importante. Da poco è stata aperta a Nanterre l’Università 10, un’estensione della Sorbona. Gli studenti si recano nelle bidonville. Gli immigrati diffidano ma in ogni caso c’è una contaminazione che dà i suoi frutti, cioè il coinvolgimento degli immigrati nella vita sindacale e politica. I militanti della sinistra sono spesso o si definiscono internazionalisti, i più vecchi si sono opposti alla guerra d’Algeria, sono anticolonialisti e vedono nell’immigrato una doppia vittima del colonialismo e del capitalismo. La partecipazione agli scioperi degli immigrati, precedentemente sporadica, diventa attiva e consapevole. La legge francese scoraggia l’adesione degli stranieri al sindacato (solo nel 1982 verranno definitivamente eliminate queste clausole). Le centrali sindacali, in particolare la Cgt d’altronde hanno come principio base che si deve difendere il lavoratore francese dalla concorrenza sleale. Dopo il ’68 molti lavoratori maghrebini aderiscono ai Comitati di lotta; molti sono maoisti o troskisti e appoggiano la causa palestinese. Nell’ottobre 1971 la manifestazione di protesta per l’uccisione di un quindicenne algerino, Djellali Ben Alì, raccoglie migliaia di lavoratori arabi, usciti dall’annichilimento dell’esperienza del 1961.

Fra il 1972-73, a Parigi e a Marsiglia nasce il Mouvement des travailleurs arabes, come punto di riferimento per affrontare i problemi degli immigrati arabi, per emanciparsi dai comitati dei vari organismi assistenziali creati dai regimi reazionari dei paesi di provenienza per esercitare su di loro un controllo politico. La parola d’ordine è “i lavoratori immigrati sono lavoratori come gli altri”. Ma il PCF invita i suoi aderenti a diffidare. L’Mta ha una struttura associativa, riunisce gruppi locali autonomi, una delle sue rivendicazioni è la regolarizzazione dei sans papiers. Un altro obiettivo è la lotta contro la Sonacotra, un società che costruisce alloggi per stranieri noti come “focolari caserma” (nota 3).

Nello stesso periodo la politica del governo francese si indurisce, come effetto della nuova politica dei paesi arabi sul petrolio (nel 1971 l’Algeria nazionalizza la sua industria petrolifera). La situazione economica d’altronde sta peggiorando. I maghrebini sono i primi ad essere licenziati. La stampa francese legittima e banalizza il razzismo, cresce un’ondata xenofoba, alimentata dai rancori dei pieds-Noirs cacciati dall’Algeria. E’ il 1973 noto come “l’anno di sangue”. Un conducente di autobus francese viene ucciso da uno squilibrato algerino. Si scatena la caccia all’arabo. In questo clima l’Mta di Marsiglia proclama uno sciopero contro il razzismo, vi aderiscono 30 mila lavoratori a Marsiglia e alcune migliaia a Parigi. Negli anni successivi il movimento ripiega su una attività culturale e associativa. Fra il ’73 e il ’74 l’Algeria restringe fortemente la possibilità di espatrio e molti algerini lasciano Nanterre per far ritorno in patria (nota 4).

Le ruspe e le “città di transito”

Nei primi anni ’70 Parigi vuole espandersi verso le periferie, occorre cancella re l’obbrobrio delle bidonvilles. Le ruspe cominciano a lavorare a Nanterre. Lo stesso avverrà nelle altre città. Gli immigrati vengono trasferiti d’autorità nelle “cité de transit”, ufficialmente una soluzione temporanea per le famiglie che “non possono” trovare posto nelle case popolari (nota 5). Il governo ha cura di segregare gli immigrati trasferiti (algerini e marocchini a Nanterre, ma in altre zone portoghesi, spagnoli o jugoslavi) in altre comunità chiuse. Le abitazioni, rigorosamente più piccole delle case popolari destinate agli operai francesi, sono ovviamente più decorose delle baracche, ma assolutamente isolate dal centro urbano francese. A guardia dei vari nuclei è messo d’abitudine un ex militare e l’amministratore che riscuote l’affitto e garantisce le manutenzioni è sempre un dipendente degli Affari Interni. Nei Consigli di Amministrazione che gestiscono questi centri ci sono ex prefetti, preferibilmente con esperienza coloniale, e rappresentanti dei datori di lavoro, una forma di doppio controllo.

La motivazione ideologica fornita dal governo gollista di Messmer, una carriera nella legione straniera, è che bisogna rieducare gli immigrati, dargli un periodo di adattamento prima dell’integrazione vera e propria. Nel frattempo devono essere rigorosamente segregati. Tra il 15 giugno e il 10 luglio 1971, oltre 350 famiglie di Nanterre sono state ricollocate. Un giovane di origini algerine rievoca così negli anni ’80 la tenuta Gutemberg, a Genevilliers, presso Nanterre: “Ci siamo presto resi conto di essere stati messi lì per separarci dai francesi. Da un lato c’era la terra desolata; dall’altra una cartiera; dietro, la Senna; e davanti, una caserma della polizia antisommossa. Nessun francese osa avvicinarsi, hanno paura, chiamano il posto Algeri la Bianca”

Le citè de transit come è logico non sono affatto una soluzione temporanea. Costruite al risparmio, diventano velocemente fatiscenti come le baracche, i servizi si rompono, le facciate si scrostano. Ancora negli anni ’80 ci abitano 120 mila persone, suddivise in 200 comunità.

Grands Prés Nanterre

Ossessionate dalla sicurezza, le autorità fanno scelte del tutto incompatibili con l’integrazione, quasi a sottolineare la “temporaneità” di questa presenza. Ma assieme al disagio sociale alimentano l’ostilità verso lo Stato francese. Le cité de transit diventano i nuclei fondanti delle banlieues come sono oggi. Nell’82 un omicidio proprio nella tenuta Gutemberg porta allo scoperto una situazione insostenibile. Ma solo dopo molte pressioni gli Istituti delle case popolari accettano il ricollocamento di maghrebini e stranieri in genere nei loro edifici (nota 5).

Questa politica di segregazione non impedisce che nell’insieme la partecipazione sindacale e politica degli immigrati aumenti esponenzialmente. Un aspetto che va oltre lo scopo di questo articolo.

Ci limitiamo a ricordare che nel 1983 si tiene la “Marcia per l’eguaglianza e contro il razzismo”. Protagonista la seconda generazione di immigrati, i figli di coloro che hanno vissuto l’esperienza del 1961, ne conservano la memoria e chiedono verità e giustizia. Organizzati in associazioni e collettivi denunciano gli abusi della polizia nei quartieri poveri abitati principalmente da francesi non bianchi, posti ai margini dei grandi agglomerati urbani. Ci vogliono però ancora 14 anni, le pubblicazioni di Einaudi e Sayad perché si tenga il processo contro Maurice Papon sia per le deportazioni degli ebrei, sia per la repressione del 1961. La borghesia protegge fino alla fine i suoi carnefici (anche oggi del resto: cfr. https://www.combat-coc.org/la-lezione-delle-periferie-francesi-in-fiamme)

Negli anni ’80, comunque, si ha una importante presa di coscienza “del razzismo strutturale” che caratterizza tutte le pratiche repressive nei quartieri popolari. Il che modifica di poco la “tradizione” della polizia francese. Il risultato è stata la rivolta delle banlieue nel 2005, lo stillicidio di giovani morti.

La Francia non è gli Stati Uniti, ma ancor oggi un giovane nero ha nove possibilità più di un coetaneo bianco di essere fermato dalla polizia. Questi «controlli d’identità» avvengono dunque in base a criteri etno-razziali discriminanti. Nove volte su dieci i controlli si concludono con un niente di fatto. Il fermo è quasi sempre per «resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale», che è poi lo scopo che i poliziotti si ripropongono, cioè creare un precedente.

Questo è il retroterra storico della morte di Nahel e dei disordini di questi giorni, che mette a nudo la violenza sistematica e razzista dello stato borghese che si dice erede degli ideali di égalité e fraternité del 1789, e che spiega perché gli immigrati, soprattutto di origine araba anche dopo tre generazioni si sentono “diversi” dai francesi doc, e vittime collettive di ingiustizie contro cui ribellarsi. Questa mancata integrazione sociale è il terreno sul quale i comunisti devono lavorare per far crescere l’”integrazione” tra lavoratori autoctoni e immigrati nella lotta contro la classe dominante e il suo Stato, per una società senza sfruttamento e discriminazioni.

Angela Marinoni


NOTE:

  1. L’immigrazione degli algerini in Francia avvenne in più ondate: dal 1913 al 1921, dal 1922 al 1939 e dal 1940 al 1954. L’afflusso più significativo si ebbe fra il 1947-1953, In tutto begli anni ne sono arrivati 740 000.
  2. https://fondazionefeltrinelli.it/17-ottobre-1961-a-sessantanni-dalla-repressione/
  3. cfr Sara Alianelli – La legione straniera: il caso del Movimento dei lavoratori arabi – cfr anche https://www.cjl.ong/2019/01/07/le-mouvement-des-travailleurs-arabes-et-la-greve-generale-contre-le-racisme-de-1973/
  4. Cfr. Les travailleurs immigrés des bidonvilles de Nanterre et leur retour en Agérie. Une enquête orale dans la région du Souf Marie-Claude Blanc-Chaléard, Muriel Cohen in Le Mouvement Social 2021/1 (N° 274), pp. 137 -167 – Éditions Presses de Sciences Po.
  5. https://metropolitics-org.translate.goog/Cites-de-transit-the-urban.html?_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc

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