LULA NON RECIDE LE RADICI PROFONDE DEL BOLSONARISMO

Le elezioni in Brasile hanno confermato già dal primo turno la corsa a destra del paese e un maggior radicamento istituzionale delle forze reazionarie di estrema destra, sconfessando ogni prognostico.

La vittoria di Lula non significa la sconfitta di Bolsonaro e del bolsonarismo.

Sia il Senato che la Camera sono in mano alla destra di Bolsonaro. Il Senato viene occupato da 15 senatori affiliati all’ex presidente, guadagnando il primato come coalizione, mentre la ‘bancada’ di Lula è al quinto posto, con 9 senatori.

La destra moderata, rappresentata dall’ MDB (Movimento Democratico Brasiliano), perde senatori; ma il grande sconfitto è il PSDB (Partito Socialdemocratico Brasiliano, centrodestra), che da forza di primo piano nel panorama politico che va dalla fine della dittatura ai governi PT (1985-2016), rimane oggi con soli 4 senatori. Nello stato di São Paulo il PSDB è sparito del tutto.

Alla Camera il risultato per l’ex presidente è storico: tra i 20 deputati federali eletti con più voti solo 5 rientrano nel campo lulista, mentre Bolsonaro ha guadagnato 23 deputati.

Il suo partito, il Partito Liberal, è quindi sia in Senato che alla Camera il maggior partito e quello in maggior crescita.

La configurazione del Parlamento ricalca quella dei governatori degli stati della federazione, con l’estrema destra bolsonarista che assorbe la base sociale della vecchia destra tradizionale del MDB e del PSDB.

La federazione tra PSOL (Partito Socialismo e Libertà) e Rede Sustentabilidad (partito della borghesia che spazia tra centrosinistra e centrodestra e si definisce ‘umanista e ambientalista’) cresce da 10 a 14 deputati e il leader del PSOL, Guillermo Boulos è stato il secondo deputato federale più votato nel paese.

Il PSB (Partito Socialista Brasiliano) e il PDT (Partito Democratico Laburista), considerate forze di centro-sinistra, sono ridotti al minimo: il primo mantiene meno della metà i parlamentari, il secondo ne perde 11 rispetto al 2018. Infine il PCdoB (Partito Comunista del Brasile), se non si fosse associato al PT, si sarebbe estinto.

Si delinea quindi il Congresso più conservatore della Nuova Repubblica, ancor più di quello del 2018 che vide l’elezione di Bolsonaro.

E’ per questo motivo, e indipendentemente dal risultato delle presidenziali, che il mercato finanziario è galvanizzato, sicuro che le riforme antipopolari e reazionarie avviate in questi ultimi anni come la Riforma Amministrativa, quella del Lavoro, la Riforma Previdenziale, la Legge del Tetto di Spesa, non verranno toccate.

In questo quadro istituzionale e politico Lula si è impegnato a governare in nome della ‘pacificazione nazionale’.

Già dal primo turno era chiara la ‘non sconfitta’ di Bolsonaro: sia i governatori a lui fedeli, soprattutto del Centro-Ovest, Sud e Sudest, che tutti i candidati che erano nel suo Governo sono stati eletti.

“L’assedio elettorale è un crimine. I padroni vogliono scegliere chi il lavoratore e la lavoratrice devono votare.”
Durante la campagna elettorale, impresari -soprattutto negli stati a vocazione agraria -hanno minacciato di licenziamento i lavoratori se non avessero votato per Bolsonaro.

I destini dell’Amazzonia sono segnati: nove stati che compongono l’Amazzonia Legale, Acre, Mato Grosso, Roraima, Tocantins e Rondônia sono conquistati dalla destra di Bolsonaro, i cui programmi incentivano l’agribusiness, lo sfruttamento minerario e la trasformazione delle foreste in “una potente fonte di reddito” (Marcos Rocha, candidato per União Brasil).

Ma anche dove la vittoria è andata al candidato sostenuto da Lula, il futuro di quei territori non si preannuncia roseo: in Amapá Clécio Luis propone il rafforzamento del settore minerario; in Parà il governatore riconfermato Helder Barbalho ha consentito un tasso di deforestazione ai più alti livelli ed è in ottimi rapporti con imprenditori favorevoli al ritiro del Brasile dalla Convenzione 169 dell’ILO per la protezione dei popoli indigeni.

Sia il primo che il secondo turno non hanno rispettato le previsioni dei sondaggi.

Al ballottaggio Lula ha conquistato 60,3 milioni di voti, pari al 50,90% delle schede valide e Bolsonaro ha accorciato lo svantaggio fino a 58,2 milioni di voti (il 49,10%).

Su 156 milioni di elettori l’astensione è stata del 20,59%, distribuita equamente nelle varie regioni del paese. Vale ricordare che in Brasile il voto è obbligatorio, il limite di età è 16 anni e l’astensione è sanzionabile. Solo nel Nord l’astensione è stata più elevata, sia per le difficoltà di trasporto e comunicazione, sia per la decisione di alcuni prefetti di sospendere i mezzi pubblici, impedendo agli indigeni, notoriamente ostili a Bolsonaro, di raggiungere le sedi elettorali.

Ma anche nel Nord-Est del paese, roccaforte del PT, numerosi sono stati i blocchi delle strade di accesso ai seggi da parte della polizia stradale (PRF).

L’ondata finale di voti conquistati da Bolsonaro si deve principalmente all’elettorato anti-PT, composto prevalentemente dalla media borghesia che si vede minacciata dal ritorno di Lula al governo.

Ma un fattore determinante per il successo dell’ex presidente è stato anche l’introduzione di bonus e di contributi economici versati a pioggia alle famiglie più disagiate (è il caso di Auxilio Brasil, per esempio, un bonus che ha esteso la platea dei beneficiari a ridosso delle elezioni, benché senza copertura finanziaria), che gli ha avvicinato settori del proletariato sempre più impoveriti dalla pandemia, dalla crisi economica, dall’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità.

La pandemia, che ha causato in Brasile circa 700.000 morti, ha avuto un effetto duplice e contraddittorio sugli indici di gradimento di Bolsonaro: in parte l’ex presidente ha accusato l’allontanamento della popolazione contraria al suo negazionismo, in parte proletari, soprattutto precari, e sottoproletari hanno apprezzato la sua opposizione al lockdown e l’erogazione di aiuti economici. Ma si è schierato con Bolsonaro anche chi ha un reddito da 2 a 5 salari minimi (un salario minimo è di 1100 R$=212 euro).

Il Nordest e la città più grande ed economicamente più importante che è São Paulo hanno invece segnato una netta sconfitta per l’ex presidente.

L’estrema destra ha dimostrato una grande capacità di radicamento sociale, sia attorno all’agribusiness, che ha sempre più un peso nella formazione del PIL, sia alle chiese neopentecostali, asse portante del sistema politico-istituzionale brasiliano.

Il PT ha pesanti responsabilità: in primo luogo per la politica di passivizzazione dei movimenti di massa e di paralisi delle lotte.  Anche durante la pandemia, sindacati e movimenti sociali diretti dal PT si sono astenuti dall’organizzare lavoratori e settori di proletariato e hanno cercato di controllare e neutralizzare le proteste, ad esempio contro il negazionismo del presidente, di canalizzare l’odio sociale verso soluzioni istituzionali.

Svuotare le lotte e bloccarne lo sviluppo indipendente fa parte della politica di ricomposizione di classe del PT: in vista delle elezioni Lula ha stretto alleanze con Alckmin e Meirelles (1), conquistato la simpatia della FIESP (Federazione dell’Industria dello Stato di S.Paolo), della FEBRABAN (Federazione delle Banche Brasiliane), e del governo Biden, con le credenziali di chi meglio può contenere lo scontento sociale e guidato dall’idea che per sconfiggere l’estrema destra sia necessario ampliare l’alleanza con la grande borghesia del paese.

In secondo luogo il PT ha da tempo coltivato e rafforzato settori economici e sociali che hanno in mano il destino del Brasile: il potere agrario e le chiese evangeliche, che sono ora la forza motrice dell’estrema destra. Durante i precedenti governi le chiese evangeliche hanno goduto di un’ampia crescita e la Chiesa Universale e l’Assemblea di Dio hanno aumentato la loro ingerenza politica.

Lula ha posizionato la sua candidatura facendo ogni sforzo per conquistarli: i media lo hanno ritratto riunito in preghiera con gli evangelici e hanno riportato le sue affermazioni contrarie ad una legge sull’interruzione volontaria di gravidanza e per la repressione nella lotta contro la droga.  Dilma Rousseff in campagna elettorale scrisse la “lettera al popolo di Dio”; prima di essere eletto Lula ha indirizzato un documento di impegni al settore evangelico, fra i quali c’è la promessa di finanziare le ‘comunità terapeutiche’ da loro dirette, benché note per i loro metodi repressivi e punitivi, e l’esenzione fiscale per le loro chiese.

Concluse le elezioni ci si attendeva una reazione decisa e radicale da parte di Bolsonaro, che invece ha fatto pesare il suo silenzio.

Il silenzio di Bolsonaro in realtà, svanita ogni possibilità di avvalersi della denuncia di frode elettorale, cela una fitta agenda di incontri con i deputati e i senatori a lui più fedeli e con il presidente del suo partito per negoziare e garantirsi un futuro stabile e sicuro: denaro, un alloggio di tutto rispetto e avvocati che lo difendano nelle decine di processi a suo carico.

Ma il silenzio è servito anche a prendere tempo per permettere il pieno dispiegarsi della forza delle sue truppe.

In dieci stati si sono organizzati più di 200 blocchi stradali con in prima fila i camionisti, da anni megafono della propaganda presidenziale; centinaia di migliaia di persone sono scese nelle piazze, di fronte alle caserme e ai quartier generali, chiedendo l’”intervento federale”, cioè un golpe militare.

La polizia con difficoltà e solo parzialmente è riuscita a scioglierli; secondo alcune testimonianze ha appoggiato più o meno direttamente la sollevazione dei sostenitori dell’ex presidente.

Il 7 novembre il bolsonarismo ha indetto il blocco generale di tutte le attività, una sorta di sciopero generale, che è stato un colossale fallimento ed ha impegnato la polizia contro schiere di gruppi armati in scontri sempre più violenti.

Ma più che la polizia sono stati i lavoratori (metalmeccanici, portuali), i giovani delle periferie e persino i tifosi che non volevano rinunciare a vedere la partita di calcio, che hanno assalito i camion e i trattori e li hanno messi in fuga, liberando le strade.

Dopo qualche giorno il suo intervento di tre minuti, ambiguo e scarno, è quello di un leader dell’opposizione.

Bolsonaro non condanna le proteste ma chiede di interromperle. Non riconosce la vittoria di Lula ma sa che mancano i rapporti di forza per un golpe e si appella alla legalità costituzionale e al rispetto delle regole democratiche.

Un Bolsonaro inedito, esito di interessi personali (i suoi figli, uno deputato e l’altro senatore, hanno già fatto richiesta della cittadinanza italiana) e delle pressioni ricevute dai suoi consiglieri politici e dai settori più potenti che lo sostengono, tra cui l’esercito, ma anche dalla consapevolezza del suo isolamento politico internazionale.

La ‘bancada’ dell’agribusiness non è compatta a suo favore: una buona parte denuncia le perdite economiche dovute ai blocchi stradali, soprattutto il settore della macellazione delle carni ma anche la logistica e i trasporti, per le mancate consegne e l’esaurimento delle scorte di benzina.

Gli unici a non riconoscere apertamente l’esito delle urne sono stati i gruppi evangelici, che hanno una grande influenza sul proletariato delle favelas.

Gli avvenimenti seguiti al risultato elettorale sono un breve saggio di quale assetto politico e sociale stia sotto la vittoria di Lula: un congresso sempre più reazionario, fedelissimi di Bolsonaro nei posti chiave del quadro politico e una base militante di estrema destra agguerrita e mobilitata.

Bolsonaro non è stato del tutto sconfitto dalle urne e il bolsonarismo non è un fenomeno passeggero ma la sua base reazionaria gli sopravviverà.

1. Deputato del PSDB, in vista delle elezioni entra nel PSB (Partito Socialista Brasiliano), per molti anni governatore di São Paulo

2. União Brasil, ex presidente della Banca Centrale dal 2003 al 2011, ministro dell’Industria nel governo TemerFonti: Esquerda Diário 3,5,7,19/10/22; 1,2,3,7/11/22; Wikipedia per i dati in Appendice

Appendice

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