SALVADORI, Sergio

(San Polo in Chianti, 1922 – Parma, 1950), operaio

 

Nel 1946 fu responsabile della sezione del PCInt di San Polo in Chianti, a Sud di Firenze, sezione fondata da Maria Antonietta Falorni, maestra elementare, figlia dell’impiegato postale del paese e compagna di Luciano Stefanini, già militante della Frazione di sinistra in Francia.

La sera del 9 settembre 1946 appena fuori paese un furgone trainante una Topolino rimasta in avaria percorreva una strada di collina. Quando il convoglio arrivò ad una stretta curva a gomito dove fu costretto a rallentare, dal fosso adiacente partirono due colpi di machine-pistole che colpirono l’occupante della Topolino, il marchese Lapo Viviani della Robbia, già vice-federale fascista di Firenze, che si accasciò sul volante privo di vita.
Le indagini presero quasi subito la pista politica. Una furiosa campagna di stampa fece da contorno, presentando il marchese come un fascista “buono” che avrebbe addirittura aiutato i partigiani, la Falorni come donna assetata di vendetta ed il gruppo internazionalista come banda di delinquenti. Vennero arrestati e tradotti alle Murate i compagni Ilario Filippi, 19 anni, ex partigiano, disoccupato, Orlando Piazzesi, Sergio Salvadori, Oscar Valeriani ed Alfredo Secci , tutti di San Polo. Ricercati Stefanini e la Falorni, latitanti.
Ilario confessò di essere l’autore materiale degli spari, chiarendo da subito e con forza di aver agito da solo e senza alcun complice; ma si presentò l’occasione di colpire gli altri quattro compagni togliendo in tal modo dalla circolazione gli internazionalisti, “che disturbavano particolarmente l’idilliaco clima della ricostruzione nazionale e della collaborazione dei destri e dei sinistri nel governo di unione sacra, non doveva andare perduta”.

Il 7 luglio 1947 a L’Aquila iniziò il processo a carico di Ilario, accusato dell’omicidio, ed agli altri compagni, accusati di complicità. Arrivò il verdetto. Ilario: ventisei anni. Oscar, Alfredo, Orlando, Sergio: vent’anni.
Cinque per uno, rappresaglia di classe.
Ilario finì a Volterra, gli altri a Padova, Pianosa, Santa Teresa, Spoleto. Sergio a Parma.
Le condanne diedero il via ad una delle campagne di solidarietà proletaria tra le più imponenti di sempre. Il piccolo PCInt mobilitò sezioni e nuclei di fabbrica con un risultato straordinario: le cartelle “pro vittime politiche” sembravano non finire mai e travolsero il settarismo dei burocrati stalinisti; i proletari, al di là delle barriere ideologiche si mobilitarono per i propri fratelli vittime della giustizia borghese.

Ma il 25 settembre 1950 arrivò la terribile notizia della morte in carcere di Sergio. “Intossicazione alimentare” recitava lo scarno referto. Ucciso da una scatoletta di cibo avariato. Morto a ventott’anni, di cui quattro passati in una cella.

“Sergio Salvadori è finito. In quel carcere dove, senza colpa alcuna, già da quattro anni scontava l’infamia di una società sopraffattrice e corrotta, egli ha subito l’ultimo fatale oltraggio alla vita. È caduto con la coscienza della ingiustizia imperante, con la fiducia che la forza rivoluzionaria del proletariato ne dovrà aver ragione. Venuto al Partito al finire della guerra, aveva lottato con fermezza e con maturità marciando contro corrente nella falsa infatuazione democratica provocata dai nazionalcomunisti, e la sua critica era stata attiva sempre come la sua azione”.

“I marchesi Della Robbia si ersero a paladini della restaurazione dell’ordine leso, della nobiltà insidiata: chiesero la condanna dei quattro, responsabili di aver mostrato alla povera gente del paese la vera faccia di quella nobiltà, di quella borghesia che, sfruttatrice e opprimente in epoca fascista, lo restava necessariamente tuttora nonostante e proprio per la sorgente democrazia. Smascherata, essa non aveva perdonato. E si era buttata su quei ragazzi con una sete di vendetta i cui frutti non tardarono a maturare”.

 

FONTI: «Battaglia comunista» n. 19, 4-18 ottobre 1950; testimonianze orali di Alfredo Secci, archivio PM; Foto: archivio PM

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