Per un’azione internazionalista contro la guerra d’Ucraina (1)

Pubblichiamo un contributo sulla questione ucraina suddidiviso in tre parti:

  1. Un passato che è presente;
  2. Ucraina – I nuovi torbidi e la guerra;
  3. Per un intervento internazionalista contro la guerra

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Per un’azione internazionalista contro la guerra d’Ucraina

La guerra in corso in Ucraina vede sempre più coinvolto il governo italiano nel quadro sia UE che Nato, con sanzioni sempre più pesanti contro la Russia e l’invio di armi al governo ucraino.

Dal punto di vista internazionalista dei lavoratori, vittime della guerra da qualunque parte del fronte stiano, vi è la doppia esigenza di essere solidali con la popolazione che subisce direttamente la guerra d’invasione dell’imperialismo russo con tutti i suoi orrori e di opporci al riarmo deciso dal governo italiano insieme agli altri governi europei, e all’invio di armi al governo ucraino, rappresentante di una classe sfruttatrice che punta all’estensione della guerra.

Come internazionalisti dobbiamo lavorare per costruire un fronte della classe lavoratrice che si opponga ai due schieramenti imperialisti che si scontrano in Ucraina, e al tempo stesso ad ogni forma di oppressione nazionale, sulla popolazione ucraina come sulle minoranze che si trovano all’interno dei suoi confini. In questo intervento in tre parti cerco di fornire elementi di conoscenza e di valutazione a questo fine.

RL

1. Un passato che è presente

L’attuale guerra sull’Ucraina va compresa nella sua genesi, che ha dimensioni sociali, politiche, economiche. Dopo quattro secoli l’importante area ucraina sta sfuggendo al controllo della classe dominante russa. La guerra di Putin cerca di arrestare questa deriva storica per imporre con le armi quel legame tra ucraini e russi che un secolo fa fu il risultato di una libera scelta – dopo la Rivoluzione d’Ottobre e una tortuosa guerra civile.

L’area ucraina è conquistata dall’impero russo nel corso del XVII e XVIII secolo a conclusione di guerre sanguinose, con massacri di intere popolazioni e pulizie etniche, tra polacchi, svedesi, lituani cosacchi, tatari, ucraini, austro-ungarici, ottomani. L’area viene inquadrata amministrativamente nei governatorati di Chernihiv (Chernigov in russo), Kharkiv (Kharkov), Kyiv nel 1708–1764, e la Piccola Russia (1764–1781), Podillia (Podolia), e Volyn (Volhynia). Un’altra regione, quella di Lviv (Leopoli), a maggioranza linguistica polacca ad Ovest, rutena (ucraina) ad est rimase parte dell’impero austro-ungarico con il nome di Galizia fino alla prima guerra mondiale, per essere poi trasferita alla Polonia e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale alla repubblica Ucraina nell’URSS.

Il nazionalismo ucraino si sviluppa nel XIX secolo come reazione alla subordinazione dei “piccoli russi” ai “grandi russi”. Nel dibattito interno ai socialdemocratici russi (bolscevichi e menscevichi) emerge spesso la lotta politica contro lo “sciovinismo grande russo”, particolarmente sentita da Lenin, quale base essenziale per una posizione di classe che accomuni i proletari di tutte le nazionalità.

Dopo la Rivoluzione bolscevica Lenin insiste perché alle diverse nazionalità dell’ex impero russo (tra le  quali l’ucraina è la più numerosa) venga riconosciuta l’indipendenza, di modo che l’adesione all’Unione delle Repubbliche Sovietiche sia una loro libera scelta, con diritto di separazione, e non un’imposizione. Per l’Ucraina ciò è confermato anche alla fine della guerra civile, durante la quale l’Ucraina aveva visto opporsi alle armate degli imperi centrali, ai governi della Repubblica Popolare, poi Repubblica Nazionale Ucraina, ai bianchi e ai bolscevichi un movimento indipendentista a guida anarchica (Machno) e base sociale contadina. Chi ama evidenziare il carattere reazionario del nazionalismo ucraino dimentica questo genuino movimento contadino anarco-comunista, socialmente progressista, anche se mancando di collegarsi con i proletari delle città si trovò dalla “parte sbagliata” della storia opponendosi nella fase finale alla rivoluzione proletaria dei soviet di ispirazione internazionalista.

Nella battaglia interna contro i “grandi russi” che vogliono federare le diverse nazionalità SOTTO quella russa, Lenin già minato dalla malattia combatte l’ultima sua battaglia, costringendo il Segretario Generale e commissario alle nazionalità Joseph Stalin a rinunciare al proprio progetto di Federazione Russa a dominio grande-russo[i]. È ciò di cui il nazionalista grande russo Putin accusa Lenin, rimproverando a Stalin di non aver cancellato in seguito il diritto di separazione. La visione di Putin è quella della Grande Russia prigione di popoli.

La Repubblica Ucraina negli anni 1920 vide un libero fiorire della cultura e della lingua nazionale, parallelamente all’introduzione di misure di protezione sociale e per l’emancipazione della condizione della donna. Ma con il consolidamento del potere centrale e la scelta dell’accumulazione forzata del capitale statale sotto Stalin, le cose cambiano.

L’Ucraina è depredata durante il Primo Piano Quinquennale, quando gli scarsi raccolti vengono requisiti dalle squadre speciali inviate da Stalin con il pretesto della “dekulakizzazione”: tra il 1932 e il 1933 tra i 3 e i 5 milioni di ucraini muoiono di fame (Holodomor). Il vero scopo delle requisizioni è vendere il grano sul mercato internazionale per acquisire la valuta con cui finanziare l’acquisto (negli USA, Gran Bretagna, Germania, Francia ecc.) degli impianti per la realizzazione del I e II Piano Quinquennale. Non ci interessa entrare nella diatriba giuridica internazionale se si sia trattato di un “genocidio”, come sostiene il Parlamento ucraino; fu una brutale accumulazione originaria di capitale statale sulla pelle della popolazione contadina e del proletariato urbano di nazionalità ucraina, ma anche tra le minoranze del Caucaso e in Kazakistan (dove i morti stimati furono 1,5 milioni) e nella regione del Volga, per un totale stimato tra i 5,7 e gli 8,7 milioni.[ii]

Le indicibili sofferenze che hanno segnato tre generazioni, che hanno visto familiari e amici morire lentamente per fame – mentre altri milioni, soprattutto i bambini, subirono menomazioni permanenti – nel disprezzo delle autorità grandi-russe segnarono un solco profondo tra la popolazione ucraina e il potere di Mosca. Un solco che mancando degli strumenti per comprendere il carattere di classe, capitalistico-statale e neo-imperialista di quel potere che stava per procedere al massacro dei militanti della Rivoluzione, si riversò sull’aspetto etnico grande-russo, rafforzando il nazionalismo ucraino. Ancora oggi quel trauma e l’indignazione riecheggiano nella memoria tramandata e nella coscienza di milioni di ucraini nipoti e bisnipoti, spesso nella forma dell’odio per i russi, ravvivato certo dal nazionalismo grande-borghese degli oligarchi occidentalisti.

Con la Seconda Guerra Mondiale Stalin annette all’Ucraina la Galizia Orientale, tolta alla Polonia spartita con Hitler, e alla fine della guerra la Bessarabia, la Bucovina settentrionale e la regione di Hertsa, tolte alla Romania, cedendo territori a sudovest dall’Ucraina alla nuova Repubblica Moldava. Queste annessioni furono accompagnate da massacri e deportazioni ad opera sia dei nazisti, che di un movimento nazionalista ucraino nella Galizia (uccisione di 100 mila polacchi), e del potere “sovietico” ai danni di popolazioni di lingua romena, polacca e degli ebrei, per cui gli attuali confini dell’Ucraina e la sua relativa omogeneità etnica sono essi stessi frutto della violenza (della guerra imperialista) e di una pulizia etnica ai danni di altre nazionalità.[iii] Complessivamente si stima che 6 milioni di ucraini morirono nella guerra, di cui 1,5 milioni ebrei.

Mentre durante la guerra numerosi stabilimenti erano stati trasferiti dall’Ucraina oltre gli Urali per non farli cadere sotto il controllo tedesco, negli anni ’50 la Repubblica Ucraina fu destinataria di numerosi investimenti, che ne fecero un’area a forte industrializzazione, soprattutto nel settore degli armamenti. Questo anche grazie al fatto che il successore di Stalin, Khruscev, era stato segretario del partito comunista ucraino; e Breshnev, che occupò il vertice sovietico dal 1964 al 1987, era a sua volta ucraino: nel dopoguerra si può quindi ritenere che l’Ucraina abbia goduto di una posizione di tutto riguardo all’interno dell’URSS (negli anni ’50 l’Ucraina è destinataria di quasi il 20% degli investimenti centrali dell’URSS, contro il 16% circa negli anni ’30). Nel periodo 1950-55 la produzione industriale ucraina cresce al ritmo da boom economico del 13,5% annuo; tra il 1980-85 il ritmo era sceso al +3,5%, non molto diversamente che per i paesi dell’Europa occidentale.

Può quindi apparire strano che la Nomenklatura ucraina, non solo dichiari la sovranità della repubblica nel luglio 1990, ma pochi mesi dopo il fallito colpo di stato dell’agosto 1991 a Mosca, si affretti a firmare l’8 dicembre l’atto di dissoluzione dell’URSS con  Kravchuk (presidente della repubblica), insieme a Eltsin (Repubblica Federativa Russa) e ai vertici della Bielorussia, una settimana dopo che un referendum aveva approvato con il 92% l’Atto di Indipendenza. Questa percentuale plebiscitaria dà l’idea del sentimento popolare ucraino, desideroso di sottrarsi al vincolo di Mosca probabilmente nell’illusione di raggiungere in breve tempo, tramite il “libero mercato”, i livelli di consumo pubblicizzati dall’Occidente. Un aspetto fondamentale va aggiunto: i proletari dell’ex URSS erano lavoratori salariati prima, restano salariati poi. Il prodotto del loro lavoro era di proprietà del capitale prima come lo sarebbe rimasto poi, indipendentemente dal fatto che tale capitale fosse statale o privato. Diversamente da quanto sostenuto dai nostalgici di Stalin e da gran parte dei trotzkisti il cambio di regime non comporta il cambio della condizione sociale dei proletari. Cambia la composizione della classe dominante, degli agenti del capitale. Il cambiamento cui aspirano i proletari dell’Est è quello di avere salari più alti con cui acquistare una più ampia gamma e quantità di beni di consumo più desiderati. Ma le strade del capitale sono piene di trappole.

L’URSS verrà sostituita dall’associazione lasca nella CSI, ma le spinte centrifughe prevarranno su quelle centripete, nonostante il venir meno del sistema federale aggravi l’impatto dell’apertura al mercato mondiale che mette fuori mercato gran parte dell’apparato produttivo delle repubbliche ex URSS.

Si badi bene, a prendere queste decisioni sono i leader formati e cresciuti nell’URSS, la Superpotenza che aveva preteso di aver realizzato il socialismo; non ci sono pressioni americane o dell’Europa Occidentale se non nella forma di ammiccamenti e proposte di integrazione economica. Questi leader – capi politici e “direttori rossi” insieme ai siloviki, gli apparati militari e i servizi di sicurezza – constatano il fallimento di quel sistema a capitalismo di stato e decidono di affrontare il mercato mondiale direttamente, senza passare per Mosca, con un occhio anche (o forse soprattutto) al proprio arricchimento personale. Possiamo ritenere in via d’ipotesi che la nomenclatura ucraina – in sostanza la borghesia ucraina che prima deteneva le leve di comando del capitale di stato e ora si stava dando da fare per mantenerle in forma privata – in questa prima fase punti ad acquisire libertà di movimento: poter fare affari con tutti gli attori del mercato mondiale, liberandosi dalla cattività autarchica URSS-Comecon, senza legarsi né economicamente né politicamente con nessun polo del capitalismo internazionale.

Qualunque fossero intenzioni e speranze, l’apertura di un sistema autarchico, focalizzato sulla produzione militare, ai venti del mercato mondiale ha avuto l’effetto di un uragano. Tra il 1990 e il 1999 l’Ucraina perde il 60% del PIL: produzioni che prima erano protette dalla concorrenza internazionale sono messe fuori mercato, per qualità e prezzo, dalle merci che circolano sul mercato mondiale, non solo di produzione “occidentale”, ma anche “orientale”, soprattutto cinese e del SudEst asiatico. L’Ucraina è invasa da questi prodotti, le aziende locali sono costrette a chiudere o tentare ristrutturazioni con forti tagli occupazionali. Le produzioni che avevano come cliente lo Stato federale (specie armamenti) soffrono del crollo della capacità di spesa dello stato. La disoccupazione aumenta, i salari crollano, milioni di persone lasciano l’Ucraina per offrire la propria forza lavoro all’estero e poter sfamare i figli in Ucraina.  Ma questa è l’altra faccia, quella sociale della storia. Sul lato della classe dominante abbiamo in questi anni la formazione di una serie di potentati economici – i cosiddetti oligarchi – attraverso le privatizzazioni delle maggiori imprese, spesso lungo il crinale della criminalità mafiosa (come è il caso dell’uomo più ricco dell’Ucraina, Rinat Leonidovych Akhmetov), parallelamente a quanto avviene in Russia. I primi anni ‘2000 videro una ripresa dell’industria ucraina, favorita da un costo del lavoro da paese arretrato, a fronte di una forza lavoro ad alta qualificazione. I superprofitti garantiti da questo nuovo paradiso del capitale internazionale attrassero capitali speculativi fino a creare una bolla che scoppiò con la crisi finanziaria del 2008-2009, provocando il crollo del 15% del PIL.


[i] Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, 1968

[ii] https://en.wikipedia.org/wiki/Soviet_famine_of_1930%E2%80%931933; https://en.wikipedia.org/wiki/Holodomor ; https://en.wikipedia.org/wiki/Kazakh_famine_of_1930-1933

[iii] Si veda quale esempio: https://en.wikipedia.org/wiki/Bukovina#Second_World_War

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