Ieri 18 maggio in Israele e in Cisgiordania si è tenuto il primo grande sciopero generale unitario della popolazione palestinese degli ultimi 60 anni. È stato un vero sciopero generale che ha chiuso non solo i negozi arabi, ma anche tutti i cantieri israeliani, dove la manodopera è palestinese.
Anche se ignorato da gran parte dei media, questo è l’avvenimento nuovo e più importante degli ultimi decenni, conseguenza delle azioni del guerrafondaio Netanyahu che con il raid dentro la moschea di Al-Aqsa ha scientemente sollecitato i missili di Hamas per avere il pretesto per massicci bombardamenti su Gaza.
Uno sciopero generale che minaccia gli oppressori israeliani ben più dei 3.400 missili, perché vede i palestinesi di Israele e dei territori occupati per la prima volta uniti e determinati a resistere agli attacchi scatenati da polizia e da bande naziste contro le comunità arabe di Israele (un quinto della popolazione), e alla progressiva colonizzazione della Cisgiordania; un’azione ancora più importante perché affiancata dalle proteste di decine di migliaia di palestinesi in Giordania e Libano – dove pure sono discriminati e supersfruttati.
Tutta l’area mediorientale torna in movimento, minacciando quei regimi puntellati da Israele e Siria-Iran, e forse per questo Netanyahu dovrà fermare le distruzioni e i massacri su Gaza, se non vuole che l’incendio si allarghi e minacci la pax israeliana sul Medio Oriente.
E forse ancora più importanti sono le manifestazioni comuni di ebrei e palestinesi dentro Israele contro il governo – molte represse dalla polizia. “Nello scorso fine settimana migliaia di ebrei e arabi scesero nelle strade in centinaia di cortei in tutta Israele, chiedendo di porre fine alla violenza” … “e all’occupazione” (France 24). Piccole minoranze per ora, ma la vera speranza per il futuro.
A questo quadro dobbiamo aggiungere l’ampia partecipazione alle manifestazioni a fianco del popolo palestinese contro lo stato di Israele – e contro i propri governi che lo sostengono – in tanti paesi del mondo, da Chicago a Sydney, da Parigi a Londra a Baghdad… a Milano, Venezia, Bologna, Napoli ecc., che vede un’inedita (soprattutto in Italia) partecipazione di giovani palestinesi di seconda generazione.
Il movimento palestinese si può emancipare dalla “protezione” delle potenze imperialiste e regionali che usano la questione palestinese come pedina per i loro giochi di influenza: dall’Arabia all’Iran alla Turchia (che secondo alcune fonti offrirebbe l’appoggio ad Hamas in cambio dello sfruttamento degli idrocarburi al largo di Gaza…).
La strada per la soluzione della questione palestinese è quella dell’unità e della lotta dei proletari della regione, arabi ed ebrei, per un unico stato laico, multietnico, con parità di diritti per tutti. I loro alleati non sono né i Biden né gli Erdogan o i Khamenei, ma i proletari di tutto il mondo nella misura in cui a loro volta si organizzano e lottano per liberarsi dall’oppressione del capitale.
Manifestiamo in Italia contro l’appoggio dell’imperialismo italiano al governo israeliano e alla sua guerra di oppressione!
LE MANOVRE DI GRANDI E PICCOLE POTENZE SULLA PELLE DEI PALESTINESI
La guerra di Israele contro Gaza ha fatto al momento in cui scriviamo 217 vittime ufficiali, di cui 63 bambini, e provocato enormi distruzioni di palazzi residenziali, di infrastrutture compresi ospedali, sistema elettrico, idrico, moltiplicando la sofferenza dei 2 milioni di abitanti di quella prigione. I 3.400 missili lanciati da Hamas su Israele hanno fatto finora 12 vittime, meno dei manifestanti uccisi dalla polizia israeliana in Cisgiordania e in Israele.
La nuova guerra è stata innescata con le proteste sulla spianata delle moschee, con il raid israeliano nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme e proseguita coi lanci incrociati di razzi, quelli artigianali di Hamas, e quelli micidiali di Israele, capaci di demolire interi isolati, la nuova mattanza dei palestinesi. Sa bene il governo israeliano cosa significano le sentenze di sfratto delle famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est, dove si trascina da anni una vicenda legale che contrappone i coloni israeliani, che rivendicano la proprietà di quei terreni, ai palestinesi che hanno legalmente acquistato le loro case dal governo giordano dopo il 1948; acquisto messo in forse dall’occupazione israeliana dal 1967. Lo sfratto riguarda poche famiglie ma è un simbolo della violenza che lo Stato israeliano esercita, una sorta di “pulizia etnica”, che copre grossi interessi immobiliari e speculativi, ma che serve anche a realizzare di fatto una Gerusalemme tutta israeliana. Sapeva bene la polizia israeliana cosa significa consentire che gli ultra della destra israeliana facessero, al grido di “morte agli arabi” una manifestazione di festeggiamento della conquista israeliana del 1967 sulla Spianata delle Moschee, dove i palestinesi si recano a pregare durante il Ramadan.
Lo scontro è stato cercato. Netanyahu, che ha mancato per l’ennesima volta un risultato decisivo nelle recenti elezioni di marzo, ottiene un ottimo “diversivo” per guadagnare tempo e dividere i suoi oppositori e costringere i civili israeliani dentro la logica del tempo di guerra, in modo che dimentichino la corruzione del suo governo, la crisi economica, le discriminazioni, che si scontrino coi lavoratori palestinesi invece che coi capitalisti israeliani che li sfruttano, e a tutt’oggi colpiscono gli ebrei di serie B, i falasciah etiopi, i mizrahì (o sefarditi), quegli ebrei che provengono dai paesi arabi, da cui hanno tratto usanze e tradizioni, cui toccano i lavori peggio pagati. Netanyahu è maestro nello scatenare i nuovi arrivati (i russi ad esempio) contro i “kibuzzim” privilegiati o trasformandoli in coloni che si scontrino coi palestinesi a vantaggio della minoranza privilegiata che si spartisce i posti di governo. Il governo israeliano sa bene che ha ben poco da temere dall’Autorità palestinese, sfiduciata dalle nuove generazioni, più attenta a conservare i propri privilegi e i propri maneggi che il benessere dei propri elettori, ormai impopolare nella Cisgiordania e detestata a Gaza dai miliziani di Hamas, la quale d’altronde conta ben poco in Cisgiordania, una divisione politica che indebolisce ulteriormente i 5,2 milioni di palestinesi dei territori occupati.
D’altro canto gli israeliani sapevano che Hamas avrebbe raccolto la provocazione, ridotta com’è a rappresentare un territorio, Gaza, trasformato dal 2007 in una “prigione a cielo aperto” , sempre più impoverito, isolato dai commerci, dove la popolazione sopravvive a stento, malnutrita, senza acqua potabile, solo grazie agli aiuti internazionali. Dove i bambini muoiono come mosche nella prima infanzia, i giovani non hanno futuro.
Nessuno ha verificato quanto sia logoro il rapporto del palestinese comune con le sue rappresentanze politiche. Il Covid, che dilaga particolarmente in Cisgiordania, comunque lo ha ulteriormente eroso. Oggi a fronte di più del 60% di israeliani vaccinati, la maggioranza con due dosi, è vaccinato solo l’1% dei palestinesi dei territori occupati, centomila sono quelli che ogni giorno vanno a lavorare per gli israeliani e che gli israeliani hanno vaccinato a propria salvaguardia.
Per gli altri, dice Israele cinicamente citando gli accordi di Oslo, è responsabile l’Autorità palestinese, che riceve una parte delle tasse (raccolte però da Israele), ma le spende principalmente per armare le sue milizie. Il poco di assistenza sanitaria che c’è, è garantita da Medici Senza Frontiere.
L’OMS ha mandato l’“enormità” di 70 mila vaccini. Cina e Russia ne hanno promessi altri.
Hamas tiene il controllo di Gaza coi miliziani, ma è consapevole di non essere più una pedina fondamentale per i suoi padrini tradizionali, il governo di Damasco (che ha altre gatte da pelare) e l’Iran.
Sotto l’aspetto militare non c’è partita tra Hamas e Israele, che inoltre dipende sempre meno dalla manodopera palestinese di Gaza (impiega al massimo quella della Cisgiordania), perché ha aperto alla manodopera asiatica.
Vuole d’altronde conservare il controllo su Gaza, anche usando il pugno di ferro, anche perché Gaza è una comoda porta verso il Mediterraneo dove Israele ha scoperto giacimenti off-shore di enorme importanza per sfruttare i quali, magari in condominio con i paesi arabi limitrofi e con le potenze occidentali, ha bisogno della costa, costi quello che costi. È qui che Erdogan cerca di inserirsi offrendo l’appoggio ad Hamas, salvo poi abbandonarla se raggiungesse un accordo sui giacimenti con Israele ed Egitto.
Per comprendere meglio occorre uno sguardo allo scenario internazionale.
Un conflitto arabo-israeliano non è mai una questione interna israeliana o palestinese.
È da almeno settant’anni che le organizzazioni politiche palestinesi sono divise in fazioni eterodirette dai paesi arabi (Giordania, Egitto, Siria) o comunque mussulmani (Iran e Turchia) che utilizzano l’irredentismo palestinese per i loro specifici interessi geopolitici, fingendo di sostenere la creazione di uno Stato palestinese in cui ci sia il diritto al ritorno per la diaspora palestinese.
Sullo sfondo del nuovo conflitto c’è un rimescolamento prodotto dalla nuova presidenza Biden, che ha una posizione non opposta a quella di Trump, ma certamente più articolata sul Medio Oriente. Se Trump ha fatto da nume tutelare ai cosiddetti “Patti di Abramo” firmati fra Israele, Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan il 15 settembre 2020 e si è mosso in chiara funzione anti-iraniana, Biden non ha smentito questo accordo, ma certamente vuole rientrare nel JCPOA, l’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano firmato nel 2015 da Obama, con tempi e modalità tutte da definire. Israele è contraria a questa svolta e può tentare di dilazionarla, magari mettendo in mezzo i palestinesi. Nel frattempo, agli inizi di aprile, è iniziato l’ennesimo tentativo di dialogo Arabia Saudita–Iran (dal 2016 hanno interrotto i rapporti diplomatici), con la mediazione del premier iracheno, Mustafa al-Kazemi. Il tutto però sotto la spada di Damocle delle elezioni presidenziali iraniane di giugno.
Il disgelo Iran-Arabia Saudita fa il paio coi tentativi di dialogo fra Israele e una Turchia doppiogiochista, da marzo, in relazione alla partita petrolifera del Mediterraneo Orientale, ma anche della Libia e della presenza militare turca in quel paese.
Non è inutile ricordare che le relazioni turco–israeliane si guastarono proprio a causa di Gaza nel 2008 (operazione Piombo fuso) e che la Turchia ha vissuto male le esercitazioni militari congiunte Grecia-Israele.
Tuttavia adesso sembra iniziato il disgelo anche turco-greco e quindi…
L’Egitto sta tentando una mediazione. Turchia e Arabia Saudita deplorano…
La Cina ha offerto anch’essa la sua mediazione, la Russia deplora i civili colpiti da ambo le parti e invita i contendenti a Mosca. L’Europa ha mancato l’obiettivo di un comunicato unitario che deplorava le violenze, causa l’opposizione dell’Ungheria, decisamente filo israeliana. In Europa la causa palestinese ha ormai pochi sostenitori (Svezia e Luxemburgo) e quei pochi piuttosto tiepidi. In pratica si cerca l’equidistanza che, giocoforza, favorisce quello militarmente più forte.
Nel frattempo i civili, soprattutto palestinesi, ma non solo continuano a morire; per i lavoratori palestinesi ed israeliani il “Nemico è in casa nostra”. È in primo luogo la borghesia guerrafondaia e razzista di Israele, ma anche le borghesie arabe che hanno sfruttato l’oppressione dei palestinesi per i loro interessi geopolitici, armandoli, senza dar loro neppure la cittadinanza o i diritti civili nei propri paesi.
La nostra solidarietà va ai proletari palestinesi, non alle loro leadershipcorrotte, e a quei pochi militanti israeliani che in questi anni hanno tentato di creare un ponte fra gli sfruttati contro il proprio governo. La formazione di un fronte anticapitalista in Italia, che lotti non a parole contro la guerra interna ed esterna del proprio governo imperialista, è l’unica via per favorire la ripresa di un movimento di classe, anticapitalista e antimperialista, su scala internazionale.