La guerra fra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno Karabakh, iniziata il 27 settembre, prosegue fra tregue violate, bombardamenti di città e accuse reciproche e speculari di provocazioni e violenze.
I proletari dell’area pagano con migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati il prezzo dell’avidità delle borghesie locali e i giochi delle potenze.
Il Caucaso è dagli anni ’90 terra di conquista. Pur sempre “cortile di casa” della Russia, è oggetto di contesa sia fra le potenze regionali che fra i vecchi imperialismi, tutti desiderosi di partecipare alla spartizione di aree di influenza. Tutti disposti a inviare consiglieri militari, fornire armamenti (e usare gli scontri come vetrina e area di verifica degli ultimi prototipi), indifferenti ai costi umani. Tutti danno il loro democratico contributo al massacro (nota 1). Anche inviando mercenari reclutati nelle macerie delle altre guerre medio-orientali (nota 2).
E’ una regione resa profondamente vulnerabile per la mescolanza inestricabile di lingue, religioni, etnie e culture diverse, stratificatesi in centinaia di anni di storia, dove basta un cerino per far deflagrare gli scontri.
Una regione resa appetibile dal petrolio (il cui sfruttamento ha prodotto una vera e propria guerra degli oleodotti), dalla posizione strategica, cerniera fra Oriente e Occidente.
Dopo un’iniziale avanzata azera, si è in una fase di stallo riguardo ai risultati (nota 3), ma non certo per numero di vittime e quantità di distruzioni (a fine ottobre Putin ha parlato di 5 mila morti contando entrambi gli schieramenti – Asia Times 30 ottobre), mentre il Covid 19 imperversa su entrambi i fronti.
Le questioni interne ai due contendenti, sia storiche che attuali, pesano notevolmente nell’ostacolare quella “soluzione negoziata” che formalmente tutti invocano (riquadro 1).
Riquadro 1:
AZERBAIJAN e ARMENIA, il fronte interno
L’implosione dell’URSS e la sua dissoluzione ha lasciato in eredità una serie di stati che potremmo definire “autoritari”, anche se la stampa occidentale li definisce “comunisti”, con una comoda mistificazione ormai invalsa da destra a sinistra. Basti pensare alla Bielorussia di Lukashenko (al potere dal 1994), al Kazakhistan di Nazarbayev al potere dal 1989), al Tajikistan.
L’AZERBAIJAN è un esempio classico: è una sorta di stato di polizia, dove la famiglia Aliyev è al potere da mezzo secolo. Heydar Aliyev, membro del KGB, nel 1969 venne eletto segretario del Partito comunista azero e lo resta fino al collasso dell’Urss, quando, nonostante l’avversione di Gorbacev, diventa presidente della neonata Repubblica dell’Azerbaijan. A pochi mesi dalla morte “passa” la presidenza al figlio Ilham (2003), sposato con Mehriban Aliyeva, della potente famiglia dei Pashayev, che controllano numerose banche, agenzie di assicurazione, aziende di costruzione edile e agenzie di viaggio. Nel 2017 il marito la nomina vicepresidente .
Uno stato mafia, baciato dalla fortuna di significativi giacimenti di petrolio e quindi beniamino degli stati europei, pronti a chiudere un occhio (o anche tutti e due) sul dispotismo di chi fornisce energia. Il dispotismo non impedisce una modernizzazione di facciata: la capitale Baku esibisce edifici modernissimi, ospita migliaia di turisti, oltre a grandi eventi sportivi (Gran Premio di Formula 1, Giochi Europei 2015, denominati da Amnesty International come i “Giochi della repressione”, Tour dell’Azerbaigian di ciclismo) ed artistici (Eurovision Song Contest del 2012). In accordo con l’Unione Europea sono stati costruiti gasdotti. Mentre con le amministrazioni Usa da Bush a Trump, passando per Obama, sono stati stretti rapporti militari (basi Nato incluse). E poiché pecunia non olet anche Putin ha fornito armi ultimo modello all’Azerbaijan. Lo stesso ha fatto Israele, forse anche in considerazione del fatto che l’Azerbaijan confina con l’Iran, ma soprattutto perché gli azeri coprono il 40% del fabbisogno energetico di Tel Aviv.
E di profitti da petrolio il governo azero ne ha accumulati tanti, utilizzandoli per grandi opere infrastrutturali, compresi i gasdotti. Il crollo del prezzo del petrolio, tuttavia, ha portato ad una forte svalutazione della valuta locale, il manat, fallimento di numerose banche, ad un’impennata dell’inflazione ed all’aumento della disoccupazione.
Questo e la mala gestione del Covid hanno certamente incoraggiato il governo Aliyev, minacciato da contestazioni interne, a cercare una diversione. In settembre il presidente azero ha promesso una guerra lampo e dichiarato che non si sarebbe seduto a un tavolo negoziale, se non dopo il recupero del Karabakh e dei sette distretti azeri persi nel 1992. Adesso ottenere qualcosa di meno sarebbe un suicidio politico.
D’altronde molto dipende dal sostegno turco, che a parole è stato veemente e totale. I partiti politici turchi, ad eccezione del blocco di sinistra libertaria/filocurda (Partito democratico dei popoli, HDP), hanno votato in Parlamento una dichiarazione a sostegno di Baku. Inoltre la compagnia petrolifera statale dell’Azerbaigian, SOCAR, è ad oggi il più grande investitore straniero in Turchia. Ma l’entità dell’aiuto turco è ancora tutto da valutare.
L’ARMENIA era governata più o meno sullo stesso modello, ma di recente si è avuta una svolta. Controllata dal 1993 da un “uomo forte”, SerzhSargsyan (altra grafia Sarkissian), ex membro del PC armeno, nell’aprile 2018 ha visto un ampio sommovimento popolare che ha imposto come premier Nicol Pashinyan. La carriera di Sarkissian è decollata proprio grazie alla guerra per il Nagorno Karabakh, in cui ha avuto un ruolo militare importante. Ha dominato la vita politica prima come ministro della Difesa (1993-95), poi degli Interni (1996-99), infine di nuovo della Difesa (2000-07). Nel 2007 è stato nominato primo ministro. Nel 2008 è stato eletto presidente della Repubblica e riconfermato nel febbraio 2013. Nel 2015 ha promosso una Riforma Costituzionale che ha ridotto i poteri del presidente in politica estera e rispetto alle Forze Armate, con l’intento di mettere come presidente un fantoccio del suo clan (uno dei più potenti del Nagorno Karabah) e diventare premier. Ma è stato travolto dalle proteste popolari. Pashinyan, ex giornalista, leader prima del Congresso Nazionale Armeno (partito liberale di opposizione fondato nel 2008 da Levon Ter-Petrosyan) e poi di Yelk, è stato confermato premier dalle elezioni del dicembre 2018. In precedenza aveva fatto arrestare Robert Kocharyan, ex presidente del Karabah e uomo di Putin in Armenia. Era il segnale del mutamento in politica estera del nuovo regime, che sta tentando l’affrancamento dalla subordinazione a Mosca e un marcato avvicinamento alla Germania e all’Unione Europea. Sarkissian al contrario nel 2013 aveva accolto le pressioni russe, rinunciando a firmare un accordo di integrazione col mercato europeo per aderire all’Unione Economica Eurasiatica presieduta dalla Russia. Pur avendo stretto forti rapporti diplomatici in particolare con la Germania (secondo Deutsche Welle, nella sola primavera 2020, Pashinyan si è recato tre volte a Berlino), la guerra recente lo ha costretto a rinnovare alla Russia l’affitto della base militare di Gyumri (fino al 2044). E’ indubbio che la guerra in corso è un’occasione per Putin per reimbrigliare Pashinyan.
Pur impegnato a combattere la corruzione, a liberare l’economia dalla mafia dei clan, svecchiare le strutture statali, Pashinyan però non è un liberal di stampo occidentale, ma piuttosto un pan-armeno, per il quale la liberazione del Nagorno Karabah è un punto di non ritorno, non negoziabile. A suo avviso la crociata neo-ottomana di Erdogan, padre di tutti i terrorismi, in appoggio alle pretese azere è “una guerra dichiarata contro il popolo armeno. Questa è una guerra contro la nostra indipendenza, libertà e dignità”. In questa guerra l’Armenia viene presentata come il caposaldo della civiltà dell’Occidente cristiano. “L’Artsakh (il nome armeno del Karabakh), l’Armenia e la nazione armena stanno combattendo per la sicurezza globale” prosegue Pashinyan. Nessun accenno ai sette distretti azeri occupati nel ’92, pari a un quinto del territorio dell’Azerbaijan. E in cui i governo armeno ha fatto trasferire i profughi armeni fuggiti nel ’92 dall’Azerbaijan, per modificare gli equilibri etnici. Per gli armeni, che impugnano il diritto all’autodeterminazione dei popoli per il Nagorno Karabakh, nessun passo indietro è possibile.
Detto questo, la regia della pace toccherebbe innanzitutto al cosiddetto gruppo di Minsk, capeggiato da Usa Russia e Francia, a ciò deputate dalla diplomazia internazionale a partire dal 1992 (cfr. Nagorno Karabakh: la guerra, eredità avvelenata dello stalinismo, trova nuova linfa nelle contese energetiche del multipolarismo 7 ottobre 2020 – nota 4). Il gruppo in passato ha prodotto centinaia di incontri e nessuna soluzione, dopo la tregua non negoziata del 1994. Oggi non sembra intenzionato o in grado di far meglio (nota 4).
Le scelte del governo Usa, che negli anni ’90 avrebbe potuto giovarsi più di qualunque altro paese dell’implosione dell’impero russo, sono state inizialmente molto influenzate dalla potente lobby armena presente al Congresso. Mentre l’Armenia conquistava i sette distretti azeri che circondano il Nagorno Karabakh e occupava lo stesso Karabakh (1992), il Congresso Usa adottò la sezione 907 del Freedom Support Act, che proibiva ogni aiuto diretto al governo azero. Sei anni dopo Margaret Albright scriveva che un atteggiamento almeno neutrale sarebbe stato preferibile. Nel 2002, in considerazione del ruolo avuto dall’Azerbaijan durante la guerra in Afghanistan, George Bush sospese la sezione 907, scelta confermata da Barack Obama. L’Azerbaijan ha garantito la sua attiva partecipazione alle operazioni Nato non solo in Afghanistan, ma precedentemente in Kosovo e poi in Iraq, fornendo basi aeree, rifornimenti di carburante, cibo, attrezzatura, aiuto in operazioni di intelligence. La collaborazione militare si è rafforzata ufficialmente nel 2011 e gli Usa hanno contribuito con 10 milioni di $ alle strutture militari azere sul Caspio. Le società Usa sono attive nell’estrazione del petrolio azero e nella costruzione degli oleodotti. Trump, ansioso di non guastare i rapporti con Putin ed Erdogan, nel 2017 ha nominato, come rappresentante Usa nel gruppo di Minsk, una figura di secondo piano e rifiutato di prendere posizione davanti al conflitto attuale, tanto più che ha coinciso con la campagna elettorale in cui la lobby armena poteva giocare un ruolo (nota 5).
La Russia da sempre considera Il Caucaso il proprio “cortile di casa”, un’area di sua competenza, per cui storicamente ha più volte ingaggiato un confronto serrato con la Turchia. Le due potenze sono abituate a guerre per procura in quest’area. Magari motivandole secondo un trito copione con ragioni cultural-religiose. Ma oggi per la Turchia, è cruciale preservare il controllo su quello snodo strategico di infrastrutture energetiche in direzione Europa. Ricordiamo l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyan, il gasdotto Baku-Erzerum e relativo collegamento con il TANAP (Trans-Anatolian Natural Gas Pipeline) e poi con il TAP (Trans Adriatic Pipeline) verso Brindisi, ma anche il corridoio stradale e ferroviario da Baku a Kars, in Turchia. Per ragioni contrapposte la Russia ha interesse a intralciare l’operazione. Lo scacchiere caucasico è, di fatto, il prolungamento della contesa sotterranea, in corso altrove, tra i due Paesi: in Siria, Libia, Mediterraneo orientale, Balcani. Neo-ottomani contro neo-zaristi, insomma. Una partita in cui anche la Francia gioca un ruolo di primo piano, ruolo che nei secoli scorsi apparteneva alla Gran Bretagna.
In campo europeo l’assertività francese risalta sullo sfondo di una sostanziale passività dell’Unione Europea, un’ostentata neutralità (specchio di quella tedesca), che copre un’ambiguità di sostanza. Perché, come si è già affermato nell’articolo precedente, gli interessi economici portano ad appoggiare l’Azerbaijan, ma è interesse europeo condannare l’intervento turco, anche se l’adozione di sanzioni contro la Turchia pare fuori discussione per ora. La Francia peraltro è nettamente schierata contro la Turchia (e quindi per l’Armenia come corollario). Un passo importante è stato fare propria la denuncia del genocidio armeno (nota 6), ma anche gli interventi sulla crisi turco-greca per i giacimenti a Cipro, i vertici sulla Libia ecc. Qualcuno ricorda che la lobby armena è potente a Parigi come a New York. In tutta la Francia vivono 600 mila armeni. Ma quel che conta è anche la linea Macron, che vuole una Francia e un’Europa emancipate dagli Usa e dalla linea filo atlantica (per cui è stato tacciato di gollismo), maggiormente proiettate sul Medio Oriente, dove la Francia ha comunque robusti interessi, e comunque ferme rispetto alla Russia. Una linea che però deve fare i conti con l’asse franco-tedesco. E la Germania non si è ancora pronunciata.
L’assertività turca in Medio Oriente e nel Mediterraneo è la vera novità per l’Europa.
Ma anche la crisi economica che per ragioni diverse attanaglia sia la Turchia che la Russia. Se da un lato l’opposizione interna ai due leader, Erdogan e Putin, non sembra preoccuparli, i costi economici e militari di una competizione su uno scenario che comprende Libia e Siria potrebbero ridurli a più miti consigli. Ad esempio a un conflitto a bassa intensità in Caucaso, che renda più forte la presa sulle reciproche aree di influenza senza troppo dispendio di risorse. Una cinica logica che ha sempre funzionato per gli imperialismi.
Apparentemente la Cina è al di fuori del conflitto. In realtà la Cina è fortemente interessata, per sviluppare la sua “Via della seta”, alla ferrovia Baku-Tbilisi-Kars e quindi all’Azerbaijan. Sono già intercorsi accordi e decisi investimenti con l’Azerbaijan, oltre che con la Georgia. Tuttavia la Cina ha partecipato anche all’esercitazione militare nel Caucaso (21-26 settembre 2020) con Russia, Armenia e Iran.
Ci sono altri comprimari da tener presente come l’Arabia Saudita e l’Iran, ma per ora sono passivi.
E L’Italia? Abbiamo già scritto dei forti interessi che l’Italia intrattiene con l’Azerbaijan, non ultimo l’essere il potenziale terminale del TAP. Un partenariato che gli azeri definiscono “strategico”. Nel febbraio 2020 il presidente Aliyev, in visita ufficiale a Roma, ha siglato più di 20 accordi in diversi settori, incluse la difesa e la cooperazione militare (in particolare l’acquisto di jet da combattimento da Finmeccanica – Sole 24 ore del 26 ottobre). Negli ultimi anni le università italiane hanno visto aumentare gli studenti azeri.
Nel novembre 2019 era venuto in visita ufficiale a Roma, invitato dall’Ispi e da Mediobanca, anche il premier armeno Pashinyan, nell’ottica di rendere il suo paese visibile all’Italia, secondo partner europeo dell’Armenia (dopo la Germania). Pashinyan aveva colto come un’opportunità il cambio di governo e la decadenza dei ministri Lega, partito spesso accusato di prendere soldi dall’Azerbaijan (nota 7). Il contingente militare armeno in Libano ha operato a stretto contatto con quello italiano, cementando relazioni a livello dei comandi militari. Gli esiti, però, non sono stati quelli sperati, visto che prima dello scoppio del conflitto ci sono stati ben tre vertici intergovernativi fra Italia e Turchia.
Non esiste nell’ambito della diplomazia borghese una strada di soluzione del conflitto in corso, non solo per gli interessi in ballo, ma perché anche da un punto di vista puramente giuridico un principio, quello dell’autodeterminazione dei popoli e quindi delle minoranze etnico-culturali, impugnato dall’Armenia, confligge con l’altro dell’integrità territoriale degli stati impugnato dall’Azerbaijan: questo è quello che offre la sapienza borghese.
Più che un “vogliamoci bene” di facciata, vorremmo, come nel precedente articolo, richiamare l’opposizione internazionalista e anticapitalista alla guerra, da collegare con le opposizioni nei paesi circostanti, fra cui Turchia, Grecia, Italia e Francia. Il nazionalismo, infatti, è un’ideologia e un’arma della borghesia e degli imperialismi.
Nota 1: Gli azeri utilizzano i droni Bayraktar, forniti dai Turchi, e i droni suicidi Harop, forniti da Israele; ma gli armeni possono da poco neutralizzarli con un sistema russo elettronico di disturbo che si chiama “Belladonna” (in russo Krasukha) e che opera dalla base militare russa di Gyumri in Armenia. Le guerre sono il miglior sistema di pubblicità dell’industria militare. La Turchia ha già usato quei droni in Siria e Libia e sta girando video per esaltarne l’efficacia nel distruggere carri armati, veicoli e naturalmente soldati. La tecnologia dei droni è ovviamente internazionale: ad es. la camera multispettro e il generatore sono canadesi. Altre componenti sono europee o Usa. Anche la tecnologia russa è già stata sperimentata, specificamente in Siria, contro i droni dell’Isis che erano a tecnologia cinese (Asia Times 26 ottobre 2020).
Nota 2: Sembra assodata la presenza a fianco dell’Azerbaijan di almeno 1000 mercenari siriani anti Assad reclutati dalla Turchia; la Turchia, attraverso il Daily Sabah, accusa la Francia di aver trasferito nel teatro dei combattimenti un numero imprecisato di combattenti curdi, appartenenti all’Ypg e al Pkk e provenienti da Siria e Iraq, in aiuto degli armeni.
Nota 3: Fermo restando che entrambi i paesi accusano l’altro di aver iniziato il conflitto, nelle prime settimane l’esercito azero ha preso l’iniziativa ed è sembrato in netta superiorità militare. Gli armeni hanno comunicato la perdita di almeno mille morti. Gli azeri sul tema perdite tacciono. Ma ora l’avanzata azera si è fermata. L’alternativa è occupare il corridoio di Lachin, la sottile striscia di terra (Latsijen nella cartina) che separa Armenia e Nagorno Karabakh che garantisce i collegamenti fra le due aree, oppure partire alla conquista di Shushi all’interno del Karabah. Nel primo caso il governo azero darebbe l’impressione di rispettare i confini del Karabah, deludendo i nazionalisti più accesi, nel secondo caso si imbarcherebbe in una avventura militarmente rischiosa, a ridosso dell’inverno, col rischio di abbondanti nevicate in una zona montuosa di cui il nemico, abituato alla guerriglia, conosce ogni anfratto. In entrambi i casi, il problema per gli azeri è la guerra sul terreno lontani dai loro punti di rifornimento, dovendo fare i conti con una rete di comunicazioni di pessima qualità e un apparato logistico deficitario.
Gli armeni d’altro canto, dopo una risposta iniziale sotto tono, si sono riorganizzati e hanno iniziato ad attaccare i reparti azeri certamente meglio equipaggiati con la tecnica del mordi e fuggi. Nascondendosi nei boschi hanno ridotto il vantaggio rappresentato dai droni turchi. (Asia Times 26 ottobre 2020). Nella guerra, durata 5 giorni, combattuta nell’aprile 2016, il copione è stato analogo e alla fine gli azeri si sono ritirati.
Nota 4: Le tre tregue del mese di ottobre, negoziate, nell’ordine, dalla Russia (il 9 ottobre), dalla Francia (15-16 ottobre) e dagli Usa (il 23 ottobre) sono tutte fallite nell’arco di qualche ora dalla firma.
Nota 5: La comunità armena statunitense è forte di 1,5 milioni di membri, visibili soprattutto in stati chiave come il Michigan (50 mila), Florida (35 mila) Pennsylvania (30 mila), dove nel 2016 Trump ha vinto con uno scarto dell’1,2%. Gli Armeni pesano in città come Los Angeles, New York e Boston. Essi votano principalmente l’uomo più che il partito (The Hill 10 ott 2020).
Nota 6: Il riconoscimento del massacro come genocidio è del 2001, ma negli ultimi anni l’anniversario è accompagnato da cerimonie ufficiali e commemorazioni.
Nota 7: La famiglia Aliyev è nota per aver “comprato” vari politici dell’Unione Europea ai propri fini, cioè far insabbiare le mozioni riguardanti le violazioni dei diritti umani in Azerbaijan. Un caso salito alla ribalta della cronaca è quello di Luca Volonté, un parlamentare dell’UDC affiliato a Comunione e Liberazione che nel 2013 è stato indagato per corruzione. Avrebbe ricevuto una tangente da due milioni di euro da un lobbista azero vicino al presidente Aliyev, Elkan Suleymanov, per far insabbiare dal Consiglio d’Europa una mozione sul rispetto dei diritti umani in Azerbaijan… a Strasburgo per affossare il rapporto sui prigionieri politici stilato dal socialdemocratico tedesco Christoph Strasser. Ma in Italia, la lobby azera è stata rappresentata soprattutto dalla Lega Nord, e in particolare dal senatore trentino Sergio Divina, che nel 2016 ha affermato un’intervista ha detto che “l’Azerbaijan è un modello da cui l’Italia dovrebbe prendere esempio su come comportarsi con i giornalisti.” Ovvero: metterli in carcere.