Riceviamo e volentieri pubblichiamo il comunicato del SI Cobas sulla rottura delle trattative per il rinnovo del CCNL dei lavoratori Metalmeccanici
Proprio mentre scrivevamo quest’articolo, abbiamo appreso della rottura delle trattative sul rinnovo del CCNL metalmeccanici, con l’abbandono del tavolo da parte di Federmeccanica e la proclamazione di 6 ore di sciopero da parte di Fiom, Fim e Uilm, suddivise in 2 ore di fermo nell’immediato sotto forma di assemblea e 4 di sciopero nazionale di categoria per il prossimo… 5 novembre.
Nel rilevare come anche di fronte a uno schiaffo di tale violenza per i vertici confederali la prudenza non sia mai troppa, va altresì evidenziato che in diverse fabbriche sono partiti scioperi spontanei non appena si è diffusa la notizia della rottura delle trattative.
Per comprendere la dinamica che ha portato a quest,esito occorre però riavvolgere il nastro degli eventi degli ultimi due anni, al fine di comprendere il reale nodo della questione.
Lo scorso 19 agosto un articolo di Cristina Casadei sulle colonne del “Sole 24 Ore” esordiva in questo modo: “Di questo passo il 2020 ce lo ricorderemo come l’anno del record dei lavoratori con il contratto collettivo nazionale di lavoro scaduto”.
Che il principale organo di stampa dei padroni sia costretto ad ammettere il carattere inedito di uno status quo che vede più di 14 milioni di lavoratori privi da almeno 10 mesi del principale strumento di tutela delle loro condizioni salariali e normative, già la dice lunga su quale classe sociale abbia beneficiato della crisi pandemica e su chi, al contrario, ne abbia pagato pesantemente i costi.
Ad oggi i contratti scaduti, secondo i dati di Confindustria, ammontano a 56: unica eccezione il CCNL della sanità privata, “rinnovato” nei giorni scorsi con tanto di strombazzamento mediatico bypartizan e di festeggiamenti della triade confederale, ma celando sapientemente il fatto che gran parte degli oneri di del rinnovo graveranno quasi interamente sulle Regioni e soprattutto tacendo sul fatto che il nuovo CCNL è tutto orientato a barattare la tutela della sicurezza di questi lavoratori (notoriamente i più esposti al rischio di contagio, si pensi agli operatori delle RSA) con qualche limitata concessione in termini monetari.
I padroni, con a capo il leader della Confindustria Bonomi, hanno ampiamente chiarito e più volte ribadito le loro posizioni già in tempi non sospetti.
La stella polare del “nuovo sistema di relazioni industriali” è infatti il cosiddetto Patto per la Fabbrica siglato il 9 marzo 2018 tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil. Un accordo la cui reale portata è stata a nostro avviso ampiamente sottovalutata, e che in realtà sancisce in maniera solenne quei principi che da sempre sono nei sogni dei padroni: da un lato il sostanziale ancoraggio dei salari alla produttività, dall’altro la defiscalizzazione e l’aziendalizzazione degli aumenti salariali attraverso il sistema del “welfare aziendale”.
Vengono infatti introdotti 2 parametri, il TEC (trattamento economico complessivo) e il TEM (Trattamento economico minimo): il primo variabile dipendente dagli utili aziendali, il secondo direttamente legato al tasso di inflazione ufficiale.
E’ sul rispetto di questi due parametri sanciti dal Patto della Fabbrica che oggi fa leva il fronte confindustriale, giustificando così la rottura delle trattative sul Ccnl metalmeccanici.
In sintesi: con la crisi-Covid e con un’inflazione prossima allo zero, gli aumenti salariali devono essere anch’essi prossimi allo zero.
Lo dispone il Patto per la Fabbrica.
Da questo punto di vista, va senz’altro riconosciuta a Bonomi e al fronte padronale una coerenza, una linearità e una “pratica dell’obbiettivo che invece sembra del tutto sconosciuta a quei vertici sindacali confederali che solo due anni fa hanno sottoscritto un accordo che è perfettamente in linea con le pretese attuali di Bonomi!
D’altra parte, la posizione di Bonomi e compagnia sui rinnovi contrattuali fa il paio con le dichiarazioni del leader di Confindustria dei giorni scorsi, il quale a fronte delle timide pressioni di governo e vertici sindacali per destinare una quota maggiore di proventi del Recovery Fund agli ammortizzatori sociali, ha sintetizzato con una battuta sferzante il programma dei padroni per i prossimi mesi: “Non siamo il sussidistan”.
Qui Bonomi sembra avere la memoria corta, molto corta, in quanto dimentica, o meglio finge di dimenticare che la gran parte del bottino stanziato dal governo Conte nei 3 Dpcm anti-Covid di questi mesi (Decreto “Cura-Italia”, decreto “rilancio” e decreto “agosto”) è finita nelle tasche dei padroni e non certo dei lavoratori o dei disoccupati, sia in via diretta che indiretta.
Dei circa 112 miliardi stanziati complessivamente, ben 67 sono andati a sostenere le aziende, sia sotto forma di sussidi, agevolazioni, prestiti a fondo perduto e garanzie bancarie attraverso il Fondo Patrimonio della cassa Depositi e Prestiti, sia attraverso la sospensione dei versamenti fiscali, i contributi a fondo perduto per le partite IVA e la sospensione dei canoni di locazione dei capannoni.
Ma i regali ricevuti dai padroni non finiscono certo qui: a questa valanga di finanziamenti va aggiunto il vero e proprio bengodi in termini di risparmio netto assicurato dalla Cassa Integrazione, dagli incentivi alle nuove assunzioni e dall’eliminazione di ogni limite sul numero dei rinnovi dei contratti a termine.
Mentre la stampa e i media ufficiali quasi quotidianamente vanno a caccia dei cosiddetti “furbetti del reddito di cittadinanza” col chiaro intento di tirare la volata a chi, come Bonomi, la destra e ampi settori della stessa maggioranza di governo, spinge per abolire o limitare ulteriormente questa minima e limitatissima misura di sostegno ai disoccupati, in questi mesi è calato un silenzio tombale sul vero scandalo, rappresentato dai padroni-“furboni” che si sono appropriati indebitamente dei fondi stanziati dalla cassa-integrazione Covid pur non avendo avuto nessun calo di produzione, né di fatturato.I dati emersi emersi dai controlli compiuti della Guardia di finanza hanno acclarato che gli imprenditori si sono accaparrati almeno 2,7 miliardi di euro di Cig e di FIS senza averne i requisiti: un dato decisamente arrotondato per difetto, se si pensa che i controlli sono stati effettuati a campione e che tale pratica è stata consentita anche per i mesi successivi grazie all’assenza di limitazioni e di controlli a monte prevista dai Dpcm, per non parlare dei casi di aziende che hanno beneficiato della Cig continuando a far lavorare a tempo pieno (dunque al nero, e talvolta a costo zero) gli stessi lavoratori beneficiari degli ammortizzatori sociali.
Anche solo limitandoci ai dati ufficiali, parliamo di un’appropriazione (indebita) di oltre 600 volte più grande di quella rilevata riguardo ai “furbetti” del reddito di cittadinanza.
Questa truffa, le cui dimensioni reali sono note a chiunque abbia contezza della vera e propria giungla determinatasi sui luoghi di lavoro all’indomani dell’emergenza sanitaria, ha avuto come suo ovvio corollario anche la possibilità per i padroni di liberarsi facilmente della manodopera “scomoda”, ossia i lavoratori combattivi, le avanguardie sindacali non asservite e tutti coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare la mancata applicazione dei protocolli sulla sicurezza e le misure di prevenzione dal contagio.
Tutto ciò per non parlare della vera e propria mattanza di precari a cui abbiamo assistito in questi mesi: un esercito di centinaia di migliaia di lavoratori mandati a scadenza di contratto senza alcuna tutela e senza il paracadute della moratoria governativa sui licenziamenti.
Lo stallo delle trattative sui rinnovi contrattuali, dunque, non viene dal nulla, ma è il prodotto di un’offensiva padronale di lunga durata, tesa a scardinare definitivamente l’impianto e il significato dei CCNL e cancellare del tutto l’organizzazione operaia sui luoghi di lavoro.
E’ probabile che nelle prossime settimane Confindustria simulerà qualche “cedimento”, concedendo come da copione qualche misero e simbolico aumento di qualche spicciolo sulle retribuzioni tabellari, tale da raggiungere il duplice obbiettivo di portare a casa il risultato ma al contempo salvare la faccia dei vertici sindacali complici: d’altronde, già sul CCNL dei metalmeccanici l’offensiva padronale ha già ottenuto l’obbiettivo di far arretrare le rivendicazioni di Fiom-Fim-Uilm (di sicuro di queste ultime due) dall’iniziale proposta dell’8% di aumenti a un ben più magro 3%.
E anche in questo caso si tratterà della più classica delle polpette avvelenate, concessa in cambio di un considerevole inasprimento dei ritmi e della flessibilità, e soprattutto del vero obbiettivo di fase del fronte padronale: la caduta, a partire da dicembre, di ogni limitazione alla libertà di licenziamento.
Alla luce di ciò è evidente che i limitati, oscillanti e soprattutto tardivi dissensi dei vertici sindacali Confederali rappresentano niente più che una messinscena obbligata.
Del resto, questa condotta opportunista di Cgil-Cisl-Uil è ancora più evidente in altre categorie, su tutte gli alimentaristi, laddove malgrado l’indizione di uno sciopero di facciata, lo scorso 31 luglio i confederali hanno già sottoscritto la modifica in peius dell’articolo 4 del CCNL, in cui viene prevista la possibilità di applicare contratti diversificati all’interno della stessa azienda: in pratica l’esatto contrario della rivendicazione di un’unico contratto per ogni settore merceologico che è stata posta con forza dalle lavoratrici e dai lavoratori di Italpizza e, più in generale, dal SI Cobas in tutta la filiera alimentare emiliana.
La portata della crisi esplosa con l’emergenza sanitaria necessiterebbe di ben altre piattaforme e di ben altre risposte da parte dei lavoratori.
Indire 6 ore di sciopero spezzettate e spalmate in un mese è una presa in giro, soprattutto nei confronti di quegli operai che già da ora si stanno mobilitando nelle fabbriche in risposta alle provocazioni di Federmeccanica e chiedono con forza la proclamazione di un vero sciopero generale.
Alla forza e alla determinazione con cui i padroni rivendicano il loro “diritto” a falcidiare i livelli salariali, a licenziare, a precarizzare, a umiliare i disoccupati e i licenziati e farsi beffa di ogni tutela sulla sicurezza e sulla salute sui luoghi di lavoro, il fronte operaio e proletario deve contrapporre una forza e una determinazione uguale e contraria, sia nelle forme di lotta sia sul piano rivendicativo: occorre lottare, qui ed ora, per ottenere ovunque rinnovi contrattuali che, come minimo, compensino la rovinosa perdita di potere d’acquisto patita dai lavoratori grazie a alla Cig, alla Fis e alle riduzioni di attività di questi mesi; per una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; per il salario medio garantito a tutti i disoccupati e inoccupati; per forti aumenti salariali a partire dai livelli di inquadramento più bassi; per l’innalzamento degli importi della Cassa Integrazione al 90% della paga base; per la tutela piena della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro con misure straordinarie che prevedano dure sanzioni per gli imprenditori che non osservano i protocolli sul Covid e l’obbligo dei tamponi a tutti qualora un’azienda si riscontrino dei casi positivi al Covid.
D’altra parte la vicenda dei rinnovi contrattuali, unita all’offensiva confindustriale su licenziamenti e contratti a termine e avvalorata dai dati reali di questi mesi che, come ampiamente illustrato sopra, indicano un vorace e insaziabile accaparramento di fondi pubblici da parte delle imprese e a danno dei lavoratori, pone in essere con sempre più urgenza la necessità di prendere con forza la parola sull’utilizzo capitalistico del fisco: bisogna dire basta alle ondate di finanziamenti e sgravi a favore delle aziende, rivendicando una forte imposta patrimoniale sui capitali e sulle grandi ricchezze.
E’ su questi contenuti e su queste parole d’ordine che lo scorso 27 settembre abbiamo dato vita a Bologna ad un assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi, partecipata da centinaia di lavoratori e delegati di varie sigle sindacali e della stessa Cgil, ed è su queste basi che nelle prossime settimane intendiamo confrontarci come SI Cobas con i lavoratori di ogni categoria, insieme con tutti/e coloro che a Bologna c’erano.
Il tempo delle chiacchiere e dei proclami è ampiamente scaduto.
Il prossimo 23 ottobre i lavoratori della logistica saranno in sciopero: uno sciopero vero che punta ad impedire un attacco al CCNL di categoria analogo a quello che i padroni stanno preparando verso l’intero mondo del lavoro dipendente, e in una categoria in cui, grazie alla lotta e al protagonismo di migliaia di operai, siamo riusciti per anni non solo a fermare la barbarie della precarietà e del caporalato, ma anche a conseguire importanti miglioramenti sia in termini salariali sia nelle condizioni di lavoro nei magazzini.
Auspichiamo che i lavoratori che oggi si battono per un giusto rinnovo dei loro CCNL, in primo luogo i metalmeccanici, sappiano far tesoro della nostra esperienza e relazionarsi costruttivamente ad essa.
Per questo, facciamo appello a tutti/e coloro che non intendono piegare la testa all’arroganza di Bonomi e dei suoi sodali, a partecipare con noi alla costruzione di una grande giornata di lotta e di mobilitazione prevista in tutte le città per il prossimo 24 ottobre.
Lavoratori/lavoratrici di tutte le categorie, uniamo le nostre forze per aprire una stagione contrattuale di riscossa!
Solo la lotta paga!
SI Cobas nazionale