La testimonianza diretta portata in occasione della iniziativa dell’associazione Eguaglianza e Solidarietà “Ribellarsi è giusto” di Luigi Paggi, ha illustrato le condizioni in cui vive una piccola minoranza di “senza casta” del Bangladesh, nell’area costiera del Sunderland, Sudovest del paese, distretto di Khulna, oltre il milione di abitanti. Si tratta dei Munda, considerati e trattati dalla popolazione hindu, ma anche musulmana e cattolica, come gruppo socialmente inferiore, gli impuri, gli intoccabili, fuoricasta, vale a dire al di fuori delle caste, in cui è di fatto ancora suddivisa la società, nonostante le caste siano state formalmente abolite per legge. Cerchiamo qui di sintetizzare l’interessante relazione.
Le tribù Sarna o Munda sono una delle tribù più numerose dell’India, secondo alcune statistiche superano il milione, sono concentrati nell’altopiano di Chotanagpur dello stato indiano del Bihar e sono essenzialmente una popolazione agricola. Verso la fine del 18° e l’inizio del 19° secolo, con l’introduzione del Sistema Jamindari, alcuni latifondisti ottennero l’uso di sconfinate porzioni di terra nella foresta del Sundarbans, dove i Munda furono deportati per disboscare la giungla ed iniziare le colture sui terreni così resi disponibili.
In cambio della loro opera ricevettero piccoli appezzamenti di terra da cui traevano il loro faticoso ma dignitoso sostentamento. I Munda, come altre minoranze etniche dell’attuale Bangladesh, vennero in seguito gradualmente derubati delle loro terre da latifondisti, commercianti e strozzini, sia hindu che musulmani, con la complicità del governo nazionale, divenendo per la gran parte dei senzaterra dopo la guerra di liberazione dal Pakistan (1971-72). Oggi, il 16% dei proprietari terrieri controlla il 60% di tutta la terra del paese.
L’introduzione dell’allevamento di gamberetti, iniziato negli anni 1980 e intensificato negli ultimi decenni, ha rappresentato una ulteriore aggressione a queste popolazioni.
Con il beneplacito di Banca Mondiale e FMI, lo stato del Bangladesh ha concesso in affitto a società private, nazionali e estere, le terre libere coltivabili lungo il litorale – pascoli, foreste e risaie che permettevano ai Munda di sopravvivere, terre in precedenza affidate ai contadini nullatenenti (le Khas, dal 1971 di proprietà statale). Queste terre sono state destinate alla coltura intensiva di gamberetti, che viene anche chiamata “oro bianco”, da esportare. In due soli decenni, le terre inondate dal mare si sono estese su 150mila ettari, una superficie corrispondente a quella di Svizzera e Austria, mentre i ricavi di queste esportazioni sono giunti a 200 milioni di dollari l’anno. Tra i bengladesi a beneficiarne sono soprattutto gli investitori che vivono nelle città, con stretti legami con il mondo politico locale e nazionale, accusa Paggi.
I gravi danni conseguenti alla inondazione di acqua marina sono stati invece a carico delle popolazioni locali e dell’ambiente naturale. Il sale dell’acqua brucia la terra e con essa le poche coltivazioni che sono rimaste, i pascoli e addirittura le pareti delle case tradizionali di fango, che diventano in poco tempo sabbia, e priva i Munda dell’acqua potabile, costringendoli a consumare acqua piovana. Inoltre la possibilità di lavorare stagionalmente nell’agricoltura è diminuita, e così i Munda sono costretti a cercare altrove nuove fonti di sostentamento. Trovano occupazione come braccianti giornalieri nelle stesse coltivazioni di gamberetti, che però offrono possibilità di impiego molto minori rispetto a quelli offerti prima dall’agricoltura, nelle piantagioni o per la raccolta del riso alle dipendenze di ricchi latifondisti, oppure nelle fabbriche di mattoni, un lavoro molto faticoso per il quale i Munda ricevono salari dimezzati rispetto ai salari già miserrimi dei bangladesi.
Un effetto drammatico, e a prima vista sorprendente, della coltura dei gamberetti e della conseguente difficoltà delle popolazioni rurali a trovare sostentamento nell’agricoltura e a ricercare cibo nella foresta contendendolo ai suoi animali predatori è l’aggressività che le famose tigri del Bengala ora scatenano contro gli uomini cacciatori. Dieci vittime al mese secondo gli abitanti dei villaggi, vittime che diventano trenta nei periodi di cicloni e inondazioni, quando le barriere che separano la terra dal mare si dissolvono e la foresta e gli insediamenti umani convergono. Rimangono le vedove, “le vedove della tigre”, private dell’unica fonte familiare di reddito.
Paggi si è poi soffermato su una grave piaga che, come l’India, affligge il Bangladesh e in particolare la comunità dei Munda, i matrimoni precoci a cui le bambine ancora immature sono costrette dalla famiglia, o meglio dalle condizioni di miseria che spingono le famiglie a sgravarsi il più presto possibile del mantenimento delle figlie femmine. «È stato valutato che in Bangladesh metà dei matrimoni, in qualunque comunità, deve essere considerato come matrimonio tra bambini, in particolare le ragazze che sono costrette dai loro genitori a sposarsi quando non sono psicologicamente né fisicamente pronte per un evento tanto importante.» Le conseguenze di questa usanza sono terribili: violenza fisica e psicologica inaudita sulle piccole. … «c’è un detto fra il Munda del Sunderbans: ‘prothom shontanke bhute mare’ cioè: ‘il primo bambino è portato via dagli spiriti’… e sfortunatamente molto spesso gli ‘spiriti’ prendono, col primo bambino, anche la giovane madre. … Il Governo del Bangladesh ha promulgato leggi speciali per proibire e prevenire tale cattiva usanza ma la maggioranza delle persone non è nemmeno a conoscenza di queste leggi. Inoltre le autorità statali che dovrebbero implementare questa legge sono completamente indifferenti e non cooperative con chi lotta contro questa terribile usanza. Finché essa persisterà la situazione delle donne e della società non potrà migliorare».[1]
Paggi opera da vent’anni per scardinare questa tradizione, aiutano le bambine che si ribellano facendosi carico del loro sostentamento e della loro educazione. Ci è riuscito, coadiuvato da volontari che a turno si recano nella sua missione, nonostante l’opposizione iniziale della tribù. Ora alcune giovani Munda sanno che è possibile uscire da una condizione di subordinazione e sono così diventate attiviste della causa della liberazione e parità delle donne, cercano di sensibilizzare le donne della tribù a non sottostare alle tradizioni patriarcali e di sottomissione. Paggi le sollecita a continuare quanto iniziato, a comunicare questa consapevolezza alle nuove generazioni affinché difendano i propri diritti.
Per noi la conferenza è stata una occasione molto importante per avere informazioni di prima mano da un angolo di mondo dove il capitalismo italiano e occidentale in genere è presente da anni, attirato da forza lavoro a basso costo e mancanza di diritti – il relatore ha parlato anche del forte sfruttamento nelle fabbriche.
Luigi Paggi è un missionario cattolico dell’ordine dei saveriani da oltre quarant’anni in Bangladesh, e da più di vent’anni lavora con e per i Munda. Il principio prioritario che lo guida non è il proselitismo, ma l’integrazione nel loro mondo per aiutarli a migliorare la condizione materiale in cui sono costretti a vivere, per alfabetizzare i giovani perché acquisiscano gli strumenti necessari alla difesa dei propri diritti e all’auto-emancipazione. L’Associazione Eguaglianza e Solidarietà, in prevalenza di orientamento marxista, ha apprezzato la conferenza di Padre Paggi, che ha descritto le condizioni di un gruppo di “senza casta” come ne esistono a milioni nel subcontinente indiano, proletari degli strati inferiori, costretti a vendere la loro forza lavoro, quando riescono, in condizioni estremamente precarie, e la cui condizione è aggravata dal sistema delle caste che tende a impedire ogni forma di mobilità sociale, separando e contrapponendo tra loro anche i diversi gruppi di proletari. Anche all’interno di questa micro-società la donna è doppiamente oppressa. L’azione che Luigi Paggi porta avanti permette a un certo numero di ragazze di sfuggire da questa gabbia mediante l’istruzione, e di divenire “lievito” per il cambiamento della loro condizione, e della società tutta.
In fondo è lo stesso scopo cui tende l’Associazione, che con Padre Paggi condivide i principi dell’eguaglianza e della solidarietà, insieme al rifiuto del profitto come regola che determini i rapporti fra gli uomini e l’impegno a fare acquisire agli sfruttati e agli oppressi la consapevolezza che cambiare si può, con la solidarietà e, crediamo noi, con la lotta.
3,5 milioni di operaie con salari di fame fanno ricchi alcuni dei capitalisti più ricchi del mondo
L’allevamento dei gamberetti è un evento esemplare ma solo uno degli aspetti del mutamento sociale ed economico in corso in Bangladesh. Un paese di circa 168 milioni di abitanti concentrati su una superficie che è la metà di quella italiana, la più alta densità di popolazione del mondo, e che dispone dell’enorme risorsa umana data dalla sua giovanissima popolazione, età media 26 anni. Un paese che è pienamente entrato nel sistema sociale prevalente a livello mondiale, la società capitalistica, e che è considerato una delle potenziali “tigri” asiatiche, essendo la seconda economia mondiale per velocità di crescita, +7,1% nel 2016, secondo l’FMI, continuata dal 1996 a livelli analoghi, con media annua del 6%.
Alcuni indici demografici stanno a dimostrare il processo di sviluppo capitalistico in corso. E le enormi contraddizioni che questo comporta. L’urbanizzazione è salita al 37,2% dal 20% di vent’anni fa, il tasso di crescita demografica si è più che dimezzato, dal 2,09% del 1998 all’1,03% nel 2018, conseguenza del più che dimezzamento del tasso di fertilità per donna, dal 4,98 del 1990 al 2,19 del 2018. Più le donne entrano nel mercato del lavoro, anzi più sono costrette a lavorare fuori casa, meno figli possono fare, e meno possono curarne la crescita.
Grandi imprese nazionali
Uno sviluppo economico veloce che ha consentito un’accumulazione capitalistica grazie allo sfruttamento di mano d’opera numerosa (109 milioni), giovane e a bassissimo costo. Uno sviluppo che ha ancora ampio spazio, dato che gli addetti all’agricoltura erano ancora il 39% del totale nel 2017 (in Italia sono il 4%), pur diminuiti di oltre nove punti rispetto al 2007 (48,4%).
Lo sviluppo economico del Bangladesh è già approdato alla creazione di grandi imprese nazionali collegate al mercato globale e operanti nei più svariati settori, agroalimentare, siderurgico, macchinari, plastica, tessile, edilizia, auto, cantieristica, finanza. I primi nove gruppi nazionali sfruttano nel loro insieme circa 260mila addetti e sono PRAN-RFL GROUP (80 000 dipendenti diretti+200 000 nel paese); ACI Group (8 384); Navana Group (5 500); Abul Khair (38 000); Bashundhara Group (15 000); Beximco, il primo gruppo del paese ad essere quotato alla Borsa di Londra (60 000); Square Group (28 000); City Group ; Partex Group 25 000 (macchinari forniti dal gruppo italiano A.Celli). (Per Ananda Group, il decimo in ordine di dimensione, non sono reperibili i dati sugli addetti.)
Le contraddizioni dello sviluppo
Uno sviluppo economico che però non ha impedito che il 26% della popolazione viva ancora con meno di 2$ al giorno e che proprio a causa della sua velocità non può non scuotere profondamente il tessuto sociale del paese, e assieme ad esso il rapporto uomo-natura. Il tasso di mortalità infantile è ancora al 32‰, dieci volte maggiore di quello in Italia (3‰), pur essendo diminuito di oltre cinque volte dal 1990. Il fatto che di questa mortalità poco più della metà riguarda i neonati è senz’altro da collegare anche al dramma delle spose bambine. (Index Mundi, dati 2017)
Ampie fasce della popolazione rurale è stata privata dei mezzi di sussistenza e spinta a milioni a migrare verso le città da una serie misure economiche dettate dall’FMI e dalla BM, tramite il cosiddetto “Consorzio per gli aiuti“.
A seguito del degrado delle terre coltivabili, la costa meridionale del Bangladesh è divenuta maggiormente vulnerabile agli attacchi della natura: cicloni, alluvioni e mareggiate, erosione delle sponde dei fiumi, fenomeni in passato attenuati dalla naturale barriera costituita dalla foresta di mangrovie, la più ampia del mondo, da cui direttamente o indirettamente dipende il sostentamento di 2 milioni di persone. Basta ricordare la tragedia delle 140mila le vittime dell’inondazione del 1991, senza contare le migliaia di morti per la conseguente carestia.
Migrazioni interne e emigrazione
Fuga dunque dalle campagne verso le grandi città, due in particolare dove si concentra l’80% delle migrazioni interne. La capitale, Dhaka, che oggi ha attorno i 17,6 milioni di abitanti, e dove ogni anno ne giungono circa altri 400mila, e Chittagong (oltre 4,5 milioni). La pressione migratoria fa aumentare il prezzo degli alloggi, e produce una miseria generalizzata per coloro che vivono nelle sue baraccopoli senza riuscire a trovare un’occupazione.
Alle migrazioni interne si aggiunge perciò l’emigrazione verso l’estero, verso il Medio Oriente e il Sud-Est asiatico, e verso l’Europa centrale e mediterranea, con un saldo migratorio medio annuale attorno ai 500mila, uomini e donne, le cui rimesse nel 2016 rappresentavano ben il 6% del PIL totale del paese.
Lavoro in città
I contadini fuggiti dalle campagne che trovano un’occupazione nelle città vanno ad alimentare il manifatturiero, costruiscono mattoni, oppure cuciono abiti e calzature.
Negli oltre 11mila campi di mattoni, a Gabtoli, periferia di Dakha oppure Ganzipur nel centro del paese, ci lavora un esercito di poveri, bambini di sei anni compresi.[2] Provengono per lo più dai villaggi rurali del Nord; per questo lavoro particolarmente pesante e svolto in condizioni nocive ricevono circa 2 € al giorno e producono ogni anno (dati Onu) oltre 12 milioni di mattoni. Nel 2014 era sotto peso il 32,6% dei bambini sotto i 5 anni.
Tessile abbigliamento al cuore del recente sviluppo del paese
Il tessile-abbigliamento si è fortemente sviluppato nell’ultimo decennio. Ci lavorano circa 4 milioni di addetti, un numero raddoppiato rispetto al 2010. Sono all’80% donne in circa 4500 fabbriche, e producono l’80% delle esportazioni del Bangladesh, nel 2018 hanno prodotto per un valore superiore ai 30 miliardi di $. Il settore contribuisce a circa 1/5 del PIL del paese. Il Bangladesh è il secondo maggiore esportatore globale, dopo la Cina.
Dunque, 4 milioni di bengalesi che lavorano per gli imprenditori locali, spesso in sub-subappalto, che ricevono gli ordini da grandi marchi internazionali, americani ed europei. Marks & Spencer, H&M, Zara, Primark, Asda, Tesco, Gap, Wal-Mart, Aldi; ci sono anche per gli italiani Valentino, IT Holding, La Perla, Armani, Mariella Burani, Laura Biagiotti, Roberto Cavalli, YesZee, Manifattura Corona, Pellegrini, Benetton. Anche qui i Benetton, noti per i disastri che provocano in Cile, contro un’altra minoranza del Sudamerica, i mapuche. Da ricordare che il 58% delle esportazioni del settore paese va verso i paesi dell’Europa.
Profitti per il padronato locale e internazionale
Ma come mai ci sono venuti questi grossi marchi? Semplice e chiaro.
“Produrre all’estero e fare profitti in patria”, è il titolo di uno studio del Dipartimento di Scienze Economiche della Ca’ Foscari del 2006. Questo studio spiegava come su 1000 euro di fatturato, il profitto lordo di un’impresa italiana che produce abbigliamento in Italia era di 150 €., in Romania diveniva di 400€. Se poi invece si produce in Bangladesh, dove oggi il salario minimo ufficiale di 95$ al mese è meno di un decimo di quello italiano, il profitto sarà un multiplo di quello in Italia. Una pacchia per i padroni bangladesi, e per le imprese estere, anche italiane. Notare che 95$ sono solo nominali perché le lavoratrici più giovani spesso non ricevono neppure il salario minimo, e sono il risultato di un aumento del 51% dello scorso dicembre, a seguito di lotte e proteste. Le lavoratrici e i lavoratori hanno denunciato questo aumento come irrisorio, dato che la soglia minima di sostentamento nel 2016 era calcolata in 260$, e che oggi il costo della vita è notevolmente aumentato, in particolare quello degli alloggi. Da un’inchiesta del Guardian (21.1.2019) Tesco, Marks & Spencer e Mothercare utilizzano una fabbrica in Bangladesh che paga l’equivalente di 0,40 € all’ora.
Una pacchia dunque per i padroni, per i grandi margini di profitto laggiù, ma anche perché le infime condizioni salariali e di lavoro, il supersfruttamento a cui sono costretti i lavoratori servono a tenere soggiogati anche i lavoratori del settore da noi, in Italia, nei paesi economicamente più ricchi.
Il Bangladesh è divenuto attraente anche per gli imprenditori cinesi del settore abbigliamento; il gruppo Huaren Linen Group sta realizzando una joint venture con il bangladese Anwar Group[3] per una tintoria.
Per continuare ad attrarre investitori, il governo del Bangladesh ha un piano per la creazione di 100 Zone economiche speciali, più una serie di facilitazioni per gli investitori esteri e nazionali, i quali dal canto loro si trovano in competizione con i grossi gruppi internazionali per quote di mercato interno e non vorrebbero che il governo facilitasse il loro ingresso.
Condizioni lavoro
I lavoratori/trici del Bangladesh sono costretti a sottomettersi a livelli disumani di straordinario, con turni fino a 16 ore giornaliere, per poter arrotondare la paga. Gli orari lunghissimi pesano sulla salute delle operaie, sfinendole fino a farle svenire sul luogo di lavoro, impediscono loro di trovare il tempo per alfabetizzarsi. E, quando si ammalano, i salari da fame non bastano neppure per acquistare cure e farmaci.
Senza parlare delle condizioni di lavoro. Per approfittare al massimo degli alti profitti, le imprese innalzano piani supplementari in edifici già strutturalmente inadeguati, aumentano il numero di addetti e le macchine oltre quanto consentito per la sicurezza delle strutture, non si curano di vie di fuga adeguate, della sicurezza degli impianti elettrici. Ricordiamo due tragici emblematici “incidenti”. In un incendio scoppiato nel 2006 a Chittagong alla KTS Textile Industries, il cancello principale era stato bloccato per “impedire furti”. 61 i morti, un centinaio i feriti. Nel 2013, nel crollo del Rana Plaza a Dhaka morirono 1132 lavoratori (più di 2.000 i feriti), per la maggior parte donne. Il Rana Plaza era un edificio di otto piani. Nella struttura operavano, oltre a diversi negozi e una banca, cinque fabbriche di abbigliamento con circa 5000 dipendenti.
Progettato inizialmente per ospitare solo uffici e negozi, l’edificio era stato sopraelevato abusivamente di quattro piani per far posto alle fabbriche. Al momento del collasso era in costruzione il nono piano. Il giorno prima del crollo erano apparse delle crepe nei muri del palazzo, ma le operaie delle fabbriche erano state costrette a tornare al lavoro, sotto la minaccia di perdere l’intero salario del mese. Omicidi frutto dell’ingordigia di profitti.
C’è poi la nocività per la salute di lavorazioni come la sabbiatura dei jeans, che causa la silicosi.
Un quadro tragico, che proprio per questo spinge i lavoratori bengalesi a reagire, a difendersi. Sono decenni che organizzano lotte determinate, dal 2006 dopo la fine dell’accordo multifibre che li catapultò con violenza nel mercato mondiale, per competere nel quale i loro datori di lavoro cercano di spremerli al massimo, comprimendo i salari, ma anche ritardandone fortemente la retribuzione o non pagando gli straordinari. Alle proteste e alle lotte le operaie partecipano a decine di migliaia, organizzando anche blocchi stradali, nonostante la spietata repressione poliziesca. Il governo bangladese ha istituito un apposito corpo di polizia, la polizia industriale, che interviene nelle agitazioni sindacali!
Il diritto di organizzazione e adesione a un sindacato è stata ottenuto con le mobilitazioni degli operai tessili a colpi di scioperi, scontri e fabbriche incendiate, nel ciclo di lotte del 2006, durante le quali ottennero anche il riposo settimanale, il congedo di maternità, i contratti vincolanti anche per il padrone. Nel 2008 ci furono i moti della fame, nel movimento di lotta del 2010 furono coinvolti 800mila operai, con morti e feriti. È di inizio 2019 la notizia di una nuova forte protesta. Dopo l’uscita di fabbrica di circa 50 000 lavoratori/trici, in 10 000 hanno bloccato con barricate l’autostrada nei sobborghi di Dacca per diverse ore, fino a che sono state costrette a sgomberare con la forza dalla polizia, che ha usato idranti e gas lacrimogeni. Hanno scioperato anche altri 2000 lavoratori di una grande fabbrica di Dacca, che hanno bloccato una strada di un sobborgo a nord. Negli scontri con la polizia, un lavoratore è stato ucciso e altri 50 feriti. Tuttavia, la repressione ha fortemente colpito chi ha osato contestare l’esiguo aumento del salario minimo dello scorso dicembre: oltre 7500 operai di 27 fabbriche fornitrici di H&M, Next, Mango, Guess e Saks sono stati licenziati.
Il diritto formale conquistato dai lavoratori, la legge, non basta a fermare gli arresti, i pestaggi e gli assassini di sindacalisti, e la loro tortura in carcere, etc.
Benché le ditte straniere siano state spinte ad adottare formalmente codici di buona condotta, le condizioni concrete sono decise dai subappaltatori, a volte 4 o cinque livelli di subappalto. Da non dimenticare che nelle cosiddette Zone economiche di esportazione (EPZ) il divieto di organizzazione sindacale e di sciopero in vigore è stato lievemente allentato solo a fine 2018.
E in ogni caso, come ovunque, la lotta di difesa sindacale è un lavoro di Sisifo, fai una conquista e poi appena riescono te la tolgono.
La lotta di difesa è necessaria, nelle fabbriche come nelle campagne e nei villaggi. Per la sua caratteristica è una lotta che avviene contrattando migliori condizioni ma sempre all’interno del sistema sociale vigente, quello che è appunto la causa di tutti i mali accennati.
E allora?
Le ragazze munda hanno imparato grazie a Luigi Paggi che è giusto ribellarsi, mettere il discussione il sistema patriarcale che le soggioga e costringe a vivere in condizioni storicamente superate, sposarsi a 12 anni, morire spesso al primo parto assieme al figlio, o in alternativa fuggire nelle città, dove vivere spesso ai margini in condizioni di vita disumane. Chi tra loro ha compreso questo concetto, ha deciso di farlo comprendere anche alle altre, continuando la battaglia assieme a loro.
Nelle coltivazioni di gamberetti, nelle fabbriche di mattoni, o in quelle tessili la scintilla della ribellione al sistema nel suo insieme deve essere accesa da coloro che vivendo quelle contraddizioni ne comprenderanno le cause reali.
E noi, qui in Italia, possiamo dare la nostra solidarietà denunciando i soprusi vissuti dalle minoranze del Bangladesh, dagli strati popolari più disagiati, dai lavoratori in generale, e del tessile abbigliamento in particolare. Possiamo impegnarci perché con le loro condizioni salariali e di lavoro migliorino, avvicinandosi a quelle dei lavoratori occidentali. E soprattutto trasmettendo la parola d’ordine: PROLETARI E SFRUTTATI DI TUTTO IL MONDO UNIAMOCI!
[1] Cause, conseguenze e rimedi per la povertà dei Munda, tribali della foresta del Sunderban, di Krisnapada Munda. Università di Khulna (Dipartimento degli Studi Economici), Khulna, 2008
[2] Secondo stime del 2006, il 13% dei bambini tra i 5 e i 14 anni lavorava (Index mundi, CIA World Factbook)
[3] 12000 addetti complessivi; tessile, iuta, banche e assicurazioni, materiali da costruzione, immobili, arredamento, ingegneria, commercio e automobili.
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