Rivoluzione, controrivoluzione staliniana, imperialismo in Russia e nell’Europa dell’Est (1917-1956)
di Graziano Giusti
Due volumi, 744 pagine, indici dei nomi, note biografiche, bibliografia
Nel febbraio del 1956 il XX Congresso del PCUS denunciava i crimini di Stalin ed apriva l’era di una revisione del sistema politico interno, che di comunista non aveva ormai nulla da decenni. Infatti, dopo otto mesi, l’esercito russo invadeva l’Ungheria, soffocando nel sangue i Consigli Operai.
Era il distacco netto, irrevocabile, tra la cosiddetta “Patria del Socialismo”, con sede al Cremlino, ed il movimento operaio internazionale. Ma ancor prima, con la repressione dei moti dei proletari polacchi e di quelli berlinesi del 1953, il regime di Mosca aveva parlato chiaro: così come nel mondo capitalista, anche in quello “socialista” il lavoratore era solo strumento di accrescimento del profitto, privato o statale che fosse. E di fronte alla ribellione degli sfruttati la risposta era sempre la stessa: calunnia, galera e piombo.
Andando ancor più a ritroso, si poteva vedere come di fronte agli snodi principali degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, il potere dei Soviet in Russia, nato da una rivoluzione proletaria internazionale e internazionalista, fosse stato portato – a causa anche di deformazioni sul nascere – a subire il “rinculo” della controrivoluzione borghese, dalla quale era poi emersa la forma politica staliniana.
La rivoluzione cinese del 1926-’27, l’avvento del nazismo in Germania nel 1933, la rivoluzione spagnola del 1936-’37 e infine il Patto Hitler-Stalin del 1939, preludio al secondo macello imperialista mondiale, erano state le tappe principali in cui lo stalinismo si era schierato con la borghesia mondiale contro il proletariato.
Feroci repressioni interne ed esterne di rivoluzionari, massacrati ed infamati solo perché rimasti fedeli ai dettami principali dell’Ottobre ’17. Affamamento e strage di numerose popolazioni, deportazioni, sfruttamento bestiale di fabbrica in nome di una “accumulazione primitiva” di stampo tipicamente borghese, anche senza la figura formale del “capitalista”. Spudorata spartizione del mondo, seguendo lo sesso cinismo brigantesco di tutte le diplomazie delle grandi potenze. Partiti “fratelli” ridotti a docili rotelle dell’ingranaggio di sfruttamento capital-statale moscovita, nel mentre si propugnava la diffusione della pace e dell’emancipazione sociale.
Un colossale inganno, una frode epocale, i quali, funzionali ad una logica spartitoria tra imperialismi, dirottavano il proletariato mondiale verso la conservazione sociale e la reazione politica, screditando al contempo il significato della lotta per il comunismo.
Il libro che presentiamo, che non ha pretesa alcuna di rivelare “novità sensazionali” ma solo quella di riannodare la ricerca marxista in materia, rivalutando le correnti internazionaliste che “compresero e non si piegarono”, entra nel vivo delle dinamiche economiche, sociali, politiche che hanno prodotto la forma stalinista di potere, l’ hanno fatta affermare, e l’hanno infine condotta al cortocircuito degli anni ’50. Preludio alla sua lunga fine ingloriosa, culminata nel 1989 col “crollo del Muro”.
Per riaffermare dati alla mano che, se la forma politica stalinista non è più quel “blocco” tristemente conosciuto, non per questo vanno sottovalutati i resti di essa, e le potenzialità antioperaie ancora insite in essa.
Non a caso, parte fondante del libro è anche la “provocazione” su che cosa sia ancora rimasto dello stalinismo in merito all’etica comunista, e dentro il modo di operare di chi – comunque – mantiene come suo punto di riferimento la lotta per il comunismo. Una domanda, questa, mai caduca e superflua, proprio alla luce dello studio della “grande menzogna”.
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