Nei ballottaggi delle ultime elezioni comunali, il PD – e in particolare il suo segretario – escono pesantemente sconfitti. Risalta la vittoria del Movimento 5 Stelle che conquista Torino e stravince a Roma, ma a questo si aggiungono le sconfitte dei candidati PD nei ballottaggi di altre città, come Carbonia (presa dai 5 Stelle), Savona, Brindisi, Benevento, Grosseto e Novara (dove ha vinto la destra).
Questi rovesci espongono il premier-segretario Matteo Renzi alle critiche della minoranza “rottamata”: lo accusano di non essersi speso per sostenere i candidati nella campagna elettorale e di aver trascurato il partito nel suo insieme per puntare tutto sul referendum costituzionale di ottobre. Del resto lo stesso Renzi ha sempre dichiarato di non considerare molto importanti le elezioni comunali e di scommettere la propria permanenza a Palazzo Chigi sulla vittoria del “sì” al referendum, questo quando nel suo stesso partito in molti sono critici sulla stessa riforma (c’è chi appoggia apertamente il “no”).
Sono state elezioni segnate dall’ulteriore aumento dell’astensione, con una percentuale di votanti che già al primo turno passa da una media nazionale del 67,42% delle elezioni precedenti al 61,93%, per poi scendere ulteriormente al 50, 52% del secondo turno (fonte: Ministero dell’Interno). Anche Roma, in controtendenza con 81.518 elettori in più al primo turno rispetto al 2013, nel ballottaggio vede andare al voto un elettore su due. Chi ha vinto le elezioni è stato quindi scelto dalla maggioranza non degli elettori, ma di quella metà che ha votato, cioè da minoranze intorno al 30%.
L’astensione ha colpito molto la destra, probabilmente logorata dagli scontri interni e dalla difficoltà ad amalgamare l’elettorato conservatore moderato con lo stile aggressivo di Matteo Salvini: il risultato più dignitoso che è riuscita ad ottenere in una città di peso è a Milano, dove il suo candidato si è presentato come un moderato che tiene a bada gli estremismi leghisti e per questo è riuscito a conquistare il ballottaggio pur in presenza di un avversario molto simile a lui.
Nel ballottaggio colpisce come il Movimento 5 Stelle abbia aumentato molto i propri voti, raccogliendo quelli che nel primo turno erano andati ai candidati di destra: gli elettori di destra hanno puntato sui 5 Stelle in funzione anti-Renzi, forse seguendo le indicazioni degli stessi dirigenti politici locali (il segretario leghista Matteo Salvini ha esplicitamente invitato a votare in tal senso e ha valutato positivamente i risultati del ballottaggio).
Questo è un problema ancora maggiore per il governo. Infatti la nuova legge elettorale, l’Italicum, prevede un’elezione in due turni con premio di maggioranza. Se al primo turno nessuna lista raggiunge il 40% dei voti, si va al ballottaggio fra i primi due classificati. Se si dovesse ripetere su scala nazionale lo schema di queste amministrative, potremmo avere un M5S che al ballottaggio batte il PD e i suoi alleati raccogliendo i voti di destra, anche alla luce del fatto che Lega e 5 Stelle non solo intercettano lo stesso malessere politico, ma hanno anche posizioni molto simili su piccole aziende, tassazione ed Europa.
Che una legge elettorale permetta di formare una maggioranza parlamentare non col 50% dei voti più uno, ma con solo il 40% (che, con un’astensione al 40%, significherebbe il voto di un elettore su 4) stride parecchio con il principio democratico “una testa, un voto”, usato per giustificare il potere borghese. Ma al di là delle ipocrisie istituzionali, come spesso accade con le riforme elettorali che danno un risultato diverso da quello voluto, la nuova legge – pensata per produrre maggioranze ampie e stabili – potrebbe portare al governo un partito giovane e ancora instabile, e di conseguenza non rispondente alle esigenze di stabilità richieste dalla borghesia italiana.
Non che sia questa l’unica ragione di instabilità politica: il trasformismo, i ribaltoni, lo sfasciarsi e riaccorparsi delle forze politiche sono sempre stati la regola della seconda repubblica con tutte le leggi elettorali, quindi nulla di più facile che l’Italicum produca maggioranze parlamentari che non solo vengono elette da una esigua minoranza di elettori, ma che si dissolvono appena entrate a Palazzo Montecitorio aumentando ulteriormente quell’instabilità a cui la legge dovrebbe invece porre rimedio, con o senza M5S.
E’ certo da escludere che questo partito possa essere portatore di istanze proletarie. Certamente, in mancanza di alternative, raccoglie anche il malessere sociale di parte di coloro che sono senza lavoro o precari e malpagati, di chi ha difficoltà a pagare l’affitto, di chi vede nella promessa di un “reddito di cittadinanza” un paracadute sociale che lo proteggerebbe da precarietà e disoccupazione (anche se questi strati in maggioranza non hanno votato). Ma l’essenza fondante del movimento – che in realtà è un partito politico vero e proprio, con le sue strutture permanenti, i suoi dirigenti, i suoi scontri interni – è la polemica contro la “casta” e non contro lo sfruttamento, la richiesta di “meritocrazia” e non di giustizia sociale, l’apologia dei piccoli imprenditori (tra i quali vi sono i peggiori sfruttatori) contro il grande capitale. Un partito di ispirazione piccolo-borghese, non proletaria, che fonda la sua strategia politica non sulla mobilitazione delle masse ma sul parlamentarismo e il legalitarismo, seminando la pericolosa illusione che possa esistere un capitalismo “buono” senza delinquenza, precarietà e povertà e che lo stato borghese dei “poteri forti” possa diventare quello dei “cittadini”.
Neppure mancano gli agganci diretti col mondo delle imprese. La neo-sindaca di Torino, Chiara Appendino, bocconiana figlia di un alto dirigente di Prima Industrie e della SIRI (Associazione Italiana di Robotica e Automazione) e consigliere della UCIMU (Unione Costruttori Italiani Macchine Utensili), ha vinto con un programma che promette il rilancio delle piccole imprese e volto a favorire le start-up. Un programma apertamente imprenditoriale, che punta all’appoggio della “terza Italia” delle medie imprese in concorrenza col grande capitale internazionalizzato, ed è con questi appoggi che è riuscita a scalzare Piero Fassino che pure era partito in vantaggio.
Ciò che spaventa la maggioranza della pubblicistica borghese è la posizione “euroscettica” dei 5 Stelle, soprattutto ora che la “Brexit” darà più slancio agli euroscettici non solo in Italia ma in tutta Europa. Ma tale posizione – condivisa non solo con la Lega ma anche con Rifondazione Comunista e gruppi di estrema sinistra – non è solo espressione di un malessere diffuso nella classe lavoratrice a causa della stagnazione che in parte è frutto dell’austerity. E’ anche espressione di settori della borghesia italiana ampi anche se non maggioritari, che sono danneggiati dalla politica di austerità e dalla concorrenza commerciale degli altri stati UE (agricoltori, allevatori, piccole aziende del mercato interno…) e per i quali i vincoli imposti dall’euro alla politica monetaria e valutaria hanno accentuato la stagnazione degli ultimi vent’anni. Settori a cui possono aggiungersi le aziende internazionalizzate che vogliono riprendere gli scambi commerciali con la Russia in contrasto coi paesi europei fautori delle sanzioni economiche, quelle in difficoltà che vorrebbero beneficiare di aiuti statali ora vietati dai regolamenti di Bruxelles…
In questo i 5 Stelle assumono una posizione nazionalista borghese, non certo “anti-imperialista”. E’ proprio questa loro posizione che potrebbe trasformarli da elemento di disturbo della stabilità in carta di ricambio – o di rinforzo – per una nuova linea di governo, per dare maggiore rappresentatività alle frazioni di capitale citate prima.
Di sicuro il loro progressivo coinvolgimento nella macchina politica non può che favorire la disillusione di quei proletari che li hanno appoggiati.
Ma tale disillusione, per profonda e rapida che possa essere, non basterà certo a far nascere un’opposizione di classe ai governi della borghesia, di qualunque colore politico essi siano, e alle sue politiche estere, siano esse europeiste o nazionaliste. E’ compito dei comunisti superare la frammentazione che oggi impedisce di dare al disagio sociale, espressosi nell’astensione e in parte nel voto M5S, una prospettiva rivoluzionaria.