Come da copione, il nuovo governo israeliano nasce con una maggioranza risicata (61 seggi su 120), all’insegna dell’alleanza del Likud di Netanyau (30 seggi) con la destra: Kulanu (“Tutti noi”- 10 seggi), Shas (7 seggi) e Giudaismo unito dalla Torah (6 seggi), ma soprattutto Habayit Hayehudi (Focolare ebraico – 8 seggi) di Naftali Bennett, che ha ottenuto i ministeri della Giustizia, dell’Agricoltura e dell’Istruzione, tramite i quali potrà realizzare i suoi obiettivi: promuovere programmi nazionalisti e religiosi nelle scuole, gestire i contributi ai kibbutz della Cisgiordania, varare le leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi. Il rilancio della colonizzazione israeliana nei territori occupati è scontata. Per il giuramento del nuovo governo, Israele ha dato il via libera a 900 nuovi alloggi a Gerusalemme Est. Come ha commentato l’opposizione “Netanyahu è tenuto per la gola dalla lobby dei coloni”.
Era ovvio, visto il risultato elettorale, che la stretta contro i palestinesi sarebbe peggiorata, soprattutto nei territori occupati, ma anche nella stessa Israele.
Il 16 maggio un po’ in tutta la Cisgiordania ci sono stati scontri fra la polizia e i manifestanti palestinesi che ricordavano l’anniversario della Nakba (l’esodo forzato da Israele del 1948), mentre dal 2010 è proibito da un decreto della Knesset anche solo ricordare questa data.
Ma non sono solo i palestinesi a essere repressi.
Il 3 maggio violenti scontri si sono registrati a Tel Aviv fra polizia e circa 10 mila manifestanti israeliani, principalmente falasciah, cioè quegli ebrei di origine etiope, circa 135 mila, che nel 1984 erano stati trasportati in Israele con uno spettacolare ponte aereo, in nome della fede comune. Discriminati sul lavoro, isolati nella società, brutalizzati dalla polizia israeliana, sono l’ultimo gradino della gerarchia sociale di Israele, i primi a restare disoccupati, i più poveri.
Per loro e per molti lavoratori israeliani la situazione economica è sempre più pesante e il governo cerca di ridurre il diritto di sciopero.
Citiamo a questo proposito lo sciopero ad oltranza degli 850 lavoratori chimici di ICL (Israeli Chemicals Limited) degli impianti Dead Sea Works (DSW, fertilizzanti) e Bromine (bromo) nel Sud di Israele come risposta ai tagli occupazionali annunciati in occasione della ristrutturazione del gruppo, che all’estero sta espandendosi e che distribuisce generosi dividendi ai propri azionisti.
Ma se la patria israeliana è matrigna, la dirigenza palestinese sembra più impegnata a definire i propri rapporti di potere piuttosto che a rappresentare i lavoratori palestinesi.
In West Bank prosegue il braccio di ferro fra Hamas e ANP di Abu Mazen. Dopo la vittoria di Hamas nel rinnovo del consiglio degli studenti dell’università BirZeit, non lontano da Ramallah, in un’area tradizionalmente sotto l’influenza di Fatah, Abu Mazen ha sospeso tutte le altre elezioni in calendario. Intanto la polizia dell’ANP continua ad arrestare supposti militanti del movimento islamista in ottemperanza alla cooperazione per la sicurezza con Israele.
Hamas è in grande difficoltà. Dopo i bombardamenti che hanno spianato Gaza nell’estate 2014, urge trovare capitali per la ricostruzione, ma anche per garantire il pagamento degli stipendi dei dipendenti statali di Gaza, dove ben 70 mila dipendenti assunti in precedenza dall’ANP ricevono regolarmente i loro stipendi pur non prestando nessun servizio, mentre dei 50 mila assunti da Hamas, più della metà non ricevono lo stipendio da ottobre 2014. Ne fanno parte medici, infermieri, personale paramedico e delle pulizie degli ospedali, poliziotti, personale della sicurezza, insegnanti.
Questi statali il 12 maggio sono scesi in sciopero. Ma in generale la situazione economica è drammatica, a causa di chi è senza casa (persa nei bombardamenti), senza lavoro (circa il 50% dei lavoratori è disoccupato) e per i continui black out elettrici.
I lavoratori sono ostaggio della lotta di potere fra Hamas e Abu Mazen e quest’ultimo può per ora contare su entrate più garantite (le tasse raccolte da Israele e in parte devolute all’ANP).
Hamas invece ha visto calare drasticamente le entrate da commercio connesse ai tunnel, circa 200 milioni di $ l’anno, dato che i tunnel sono stati in buona parte messi fuori uso dagli egiziani. Da tempo si sono chiusi i rubinetti degli aiuti da parte dei Fratelli Mussulmani, su cui Hamas contava dopo la rottura con l’Iran (che ha smesso di aiutare Hamas quando è stato chiaro che, a differenza di Hezbollah, non avrebbe combattuto a favore del governo siriano). Hamas è in cerca di nuovi sponsor e potrebbe trovarli in Arabia Saudita ora che c’è stato un avvicinamento fra il nuovo monarca saudita, Salman bin Abdul-Aziz Al Saud, e il Qatar, altro sponsor tradizionale di Hamas.
Hamas potrebbe tramite i sauditi intavolare trattative segrete con Israele per la fine del blocco a Gaza, trattative che la destra israeliana può intrattenere più facilmente che non i laburisti e che sono auspicabili in vista dello sfruttamento dei pozzi petroliferi off-shore scoperti di recente sulle coste.
Per ingraziarsi i sauditi, Hamas ha evitato di condannare gli attacchi allo Yemen da parte della coalizione del Golfo. Pur di acquisire nuovi alleati nella loro lotta senza quartiere contro l’Iran, i sauditi potrebbero decidere di finanziare Hamas. Irritato per questa mossa, Abu Mazen ha cercato subito di stringere i rapporti con l’Egitto di Al Sissi (vedi la sua visita del 3 maggio), per avere un contrappeso a lui favorevole nell’eventualità di nuove trattative con Hamas.
Abu Mazen ha comunque segnato un punto diplomatico a suo favore con la visita in Vaticano, il 16 maggio, in occasione della canonizzazione di due suore palestinesi; si è discusso di un trattato sulla «vita e sulle attività essenziali della Chiesa cattolica» nello «Stato della Palestina». In pratica il Vaticano ribadisce di riconoscere lo stato palestinese, appoggia una soluzione politica nella formula dei due stati. Ma sarebbe sbagliato vederla come una scelta pro ANP. In contemporanea il 18 maggio Pax Christi International ha riunito a Betlemme 150 delegati provenienti da ogni parte del mondo per il proprio convegno annuale, in cui hanno avuto larga parte temi pro palestinesi, in primis la richiesta della fine del blocco a Gaza. Rispetto al bombardamento israeliano di luglio agosto 2014 Pax Christi l’ha condannato, il Vaticano ha parlato di “diritto a fermare l’aggressore ingiusto” ma non a utilizzare questo diritto per “guerre di conquista”. Storicamente il Vaticano è stato filo-palestinese; ha riconosciuto lo Stato di Israele solo nel 1993.
L’auspicio alla pace israelo-palestinese di oggi da parte Vaticana è certo rituale, ma di per sé non ovvio e nemmeno in funzione della presenza dei cattolici palestinesi nell’area (circa 20 mila a fronte di 120 mila cristiano ortodossi). In marzo l’osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, Silvano Tomasi, ha posto il problema di dare il via libera a un’azione di forza contro l’Isis; al contrario Israele trae vantaggio dalla presenza dell’Isis come fattore disgregante di paesi arabi limitrofi. Lo sgarbo al neogoverno Netanyahu non è certo frutto di “ingenuità politica”; è un segnale contro un governo che si appresta a una dura politica antipalestinese, ma anche a un governo ambiguo rispetto alla destabilizzazione dell’area. Lo scontro Hamas-ANP non è funzionale agli interessi del Vaticano e neanche l’avvicinamento di Hamas ai sauditi, di qui l’ovvio invito a ricostituire il fronte palestinese.
Molta stampa cattolica riprende questo tema, richiamando la situazione del campo profughi palestinese di Yarmouk, alle porte di Damasco, in Siria dove fino 2012 vivevano 150 mila palestinesi; qui l’organizzazione più rappresentativa era la FPLP e, minoritaria, era presente anche Jihad Islamica, entrambe in buoni rapporti con il regime siriano di Assad. Grazie a questo hanno potuto mantenere per un periodo neutrale e fuori dalla mischia il campo di Yarmouk, Fra loro e Hamas, alleata con al-Nusra e l’opposizione siriana, non correva buon sangue. Ma i guerriglieri di al Nusra, dopo una fase di ostilità contro l’ISIS sono passati armi e bagagli all’ISIS stessa (Daesh in arabo), che, agli inizi di aprile 2015 ha parzialmente occupato Yarmouk. I cooperanti internazionali si sono ritirati e la condizione dei residui 18 mila rifugiati palestinesi è “al di là del disumano” informa l’Onu. Non funzionano più l’Ospedale da campo e i presidi medici, manca il cibo e l’acqua. FPLP, Jihad e Hamas hanno dovuto unire le forze per sopravvivere. Ma solo l’esercito governativo siriano sarebbe in grado di liberare il campo. Ma né Abu Mazen né Hamas sono disposte a combattere con i siriani, per non pregiudicare le loro relazioni internazionali. E quindi il destino dei palestinesi di Yarmouk sembra segnato.
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