Pubblichiamo il 10° di una serie di articoli sulla recente storia dell’Argentina
Alla XI Conferenza degli eserciti americani tenutasi a Montevideo nel novembre del 1975, presente la rediviva presidente già dimissionaria Isabel Perón, il gen. Jorge Videla, che guiderà il Golpe da lì a pochi mesi, dichiara: “In Argentina morirà il numero di persone necessario per conseguire la sicurezza del paese.” Del resto, la DNS (Doctrina de Seguridad Nacional), linea repressiva continentale approntata dagli Stati Maggiori latino americani fin dagli anni ’60 sotto regia di Washington, è netta a riguardo: dovranno essere eliminati non solo guerriglieri, militanti politici e sindacalisti, ma anche simpatizzanti o semplici cittadini che fanno da ostacolo. Lo sterminio del PKI in Indonesia (1965) ha fatto da battistrada.
La cosa, qualora non fosse sufficientemente chiara, è espressa così dal gen. Antonio Domingo in una battuta confidenziale: “prima uccideremo tutti i sovversivi, poi tutti i loro collaboratori, poi quelli che simpatizzano per i sovversivi, poi uccideremo tutti gli indifferenti e infine uccideremo i timidi.” (1). Non è una boutade. Accadrà esattamente questo. Lo stragismo è assunto come metodo risolutivo della “sovversione comunista” che “inquina” i popoli e turba i progetti dell’imperialismo e delle borghesie locali.
Abbiamo già rilevato nelle puntate precedenti come – purtroppo – il “pericolo comunista”, in quel contesto, sia più un prodotto della Guerra Fredda tra le potenze ugualmente capitaliste USA e URSS, il pretesto delle classi possidenti per non mollare nulla di sostanziale a quelle subordinate, parte della pervicace intransigenza dell’imperialismo USA di mantenere il suo dominio nelle aree di sua diretta influenza… piuttosto che il possibile sbocco di una concreta situazione. Soprattutto se vediamo la questione nella prospettiva internazionale.
Ciò non toglie minimamente l’importanza dell’aspetto materiale e ideologico di quello scontro, il pieno coinvolgimento delle parti, una percezione del “pericolo” proletario tale da portare la borghesia argentina (come quella cilena, brasiliana e tutte le borghesie coinvolte nei golpe militari di quegli anni) a fare tabula rasa di ogni oppositore!
Tutti “sovversivi”, tutti “comunisti”, o “amici del comunismo”, quelli che non si sottomettono al tallone dei generali. Tra l’altro, lo spettro del comunismo è materia unificante delle classi privilegiate appartenenti al blocco occidentale.
IL GOLPE, FATTI E MISFATTI
Il 24 marzo del ’76, dopo che le grandiose lotte operaie non hanno avuto sbocco politico, di fronte al peggioramento del quadro economico e all’imperversare dei colpi di guerriglia e contro-guerriglia, dopo che il discredito internazionale del governo peronista è al culmine, le FFAA argentine destituiscono la presidente Isabel, mettendola agli arresti, e assumono il potere in nome di una “Giunta” diretta da J. Videla (generale dell’Esercito, presidente), R. Agosti (generale dell’Aeronautica), E. Massera (ammiraglio della Marina). Sono tutti alti ufficiali insigniti delle loro cariche già nel governo Perón. Un governo, ricordiamolo, che soprattutto nel suo secondo periodo di vita (luglio ’74-marzo ’76), ha già duramente represso (stragi comprese) il movimento operaio e tutta l’opposizione di sinistra (armata e non).
La Giunta si dota di un potere esecutivo (PEN, Poder Ejecutivo Nacional), di una Commissione di consulenza legislativa (CAL, Comisión de Asesoriamento Legislativo) e di uno Statuto che sia di supporto al PRN (Proceso de Riorganizaciòn Nacional), cioè il programma attraverso cui i militari intendono “risanare” la situazione del paese. A tal proposito, non mancheranno da subito “conflitti di competenze” fra le tre Armi, dovute in gran parte, molto prosaicamente, ai dividendi delle aziende controllate e agli introiti delle rispettive regioni di competenza. Essendo l’Argentina uno stato federale, 12 province se le prende l’Esercito, 5 l’Aeronautica, e 5 la Marina (più la Terra del Fuoco e le isole Falkland/Maldive, teatro della disfatta finale nella guerra contro la Gran Bretagna).
Quello del marzo ’76 è il sesto Golpe degli ultimi 45 anni. Se non è un record mondiale, poco ci manca. La repressione è subitanea quanto sotterranea.
Se in Cile (settembre ’73) il lavoro del boia Pinochet era stato “spettacolarizzato” con l’attacco dei golpisti alla Moneda, la fine di Allende, i blocchi militari nelle strade, la chiusura degli oppositori nei campi sportivi e la successiva loro eliminazione (40mila internati, di cui 3.000 assassinati e più di 1.000 scomparsi secondo Vanni Pettinà (2), qui in Argentina il lavoro sporco è svolto in gran parte nel più assoluto riserbo.
Nel mentre si lanciano alla popolazione messaggi tranquillizzanti su un paese che ha solo bisogno di ritrovare la “concordia nazionale” eliminando il “cancro sovversivo”, squadre di militari e poliziotti -preferibilmente in piena notte – prelevano dalle loro abitazioni i soggetti segnalati o semplicemente sospetti, li trascinano fuori casa dopo averli percossi davanti ai familiari, mettono a soqquadro l’appartamento minacciando gli astanti di stare in silenzio, per poi sparire nel nulla con il prelevato. Inutile chiedere alle questure dove si trovino i propri congiunti. Nessuno lo sa. O comunque te lo viene a dire.
A volte tale operazione è accompagnata dal pestaggio e dal sequestro degli stessi familiari, dalla violenza sulle donne, dal rapimento dei figli minori (privati della loro identità per essere “adottati” dalle famiglie dei militari, o in alternativa venduti). Si calcola in circa mezzo migliaio il numero di bambini coinvolti in questa infamia, in cui non è raro il caso della madre imprigionata che viene prima fatta partorire e subito dopo uccisa.
Hugo Paredero (3) riporta una lunga serie di testimonianze di adolescenti argentini che nel 1984 (due anni dopo la fine del regime militare) ricordano il clima di quei giorni, quando da bambini devono assistere alle angherie perpetrate dal regime militare.
Alcuni stralci delle interviste:
“Qui è stato un disastro. Eravamo nelle mani degli Stati Uniti per via del debito estero, l’Argentina non era più niente. E i militari hanno cominciato ad ammazzare.” (María Mora Salvático). “Bé la verità è che loro se ne stavano belli comodi e noi lavoravamo. Se uno prendeva e faceva sciopero, i militari andavano, cercavano la sua famiglia e li sequestravano o li ammazzavano.” (Pablo Martín Balustra). “Tutti dovevano stare zitti, perché se no erano belli e morti. Quelli che parlavano contro questo governo li ammazzavano subito, senza farsi nessun problema…Quando io andavo a far visita a mio fratello nella prigione di Córdoba, c’erano molte persone che sapevano già che stavano per essere ammazzate. Allora prendevano le lenzuola e s’impiccavano da soli.” (Enrique Martín Aurelli).
Molti prigionieri però non sanno che vanno alla morte. E’ il caso dei desaparecidos (gli scomparsi) eliminati coi “voli della morte”; gettati ancora vivi in mare dagli aerei dopo essere stati prima torturati e poi sedati con iniezioni di Pentothal.
I più “fortunati”, dopo le immancabili torture, sono sommariamente fucilati per essere poi bruciati o sepolti in luoghi sconosciuti. In genere fosse comuni. Va ancora “meglio” a quelli che fanno resistenza all’arresto, venendo crivellati di colpi seduta stante. Sono frequenti e diffusi i posti di blocco; essere presi avendo con sé dei libri significa finire in galera e molto probabilmente non fare più ritorno.
Horacio Verbitsky (4), un giornalista che segue in diretta i processi ai boia di Stato dal 1985 in poi, raccoglie la confessione di un certo Adolfo Scilingo, capitano di corvetta, ex membro dell’apparato repressivo, operante nella efferata ESMA (Scuola di Meccanica della Marina Militare), centro di detenzione, tortura ed eliminazione dei “sovversivi”. Il militare, “scaricato” dai suoi superiori, si mette a raccontare come avvenivano i “voli” dagli aerei, premettendo di aver fatto “cose peggiori dei nazisti”.
L’indagine fa emergere come in quel luogo vi fosse “stupro di donne, introduzione di piccoli topi vivi nella vagina, mutilazione dei genitali con lamette da barba, amputazione di parti del corpo, unghie di mani e piedi strappate. Le torture si concludevano con la morte dei prigionieri, che sono scaraventati nel Rio de La Plata o, quando è possibile, trasportati in alto mare in navi della Marina.” Alla domanda del giornalista se lui ritenga potersi discolpare dietro la classica frase “eseguivo solo degli ordini”, il militare rifiuta di metterla su questo piano, sostenendo che no, non c’era costrizione: “in quei momenti ero, eravamo, tutti convinti che quella fosse l’unica cosa da fare per il bene della Nazione”.
Chi è il terrorista’ chi è il sospettato? Proclama Videla: “Terrorista non è solo chi porta con sé una bomba o una pistola, ma anche chiunque diffonda idee contrarie alla civiltà cristiana e occidentale.” (5)
Secondo V. Bevins, “per essere sospettato bastava avere la barba. E’ il motivo per cui il pianista brasiliano noto come Tenorinho fu arrestato a Buenos Aires, gettato nella “parilla” (una graticola, NDR) per essere torturato e poi annegato.”
A chi ambisse a spiegazioni più “alte” sui motivi della mattanza in atto, la risposta la dà il gen. Massera: “L’Argentina sta combattendo la 3° guerra mondiale tra il materialismo dialettico e l’umanesimo idealistico.” (6)
Tale “umanesimo idealistico” si traduce nella fanatica persecuzione della scuola pubblica, ritenuta “fonte dell’inquinamento sovversivo” (Videla). Inutile aggiungere che gli “inquinatori” siano infine ricondotti alle figure di Marx, Freud ed Einstein…Ragion per cui si chiudono le Facoltà di Sociologia e Filosofia (!!!), in quanto studiare tali materie, per i golpisti, costituirebbe “pratica sovversiva”. “Solo al Colegio Nacional di Buenos Aires -colpevole di aver diplomato Ernesto Che Guevara – durante la dittatura militare vennero sequestrati, torturati e uccisi 92 studenti. I due terzi dei desaparecidos aveva tra i 20 e i 30 anni.” (Padoan)Sono in poco tempo licenziati 8.000 docenti, molti dei quali naturalmente scompaiono.
Libri non conformi allo “spirito nazionale” sono messi al bando. La musica rock è proibita. La pittura astratta è considerata “degenerazione”. Vige una rigida censura cinematografica, teatrale e letteraria. L’unica manifestazione collettiva consentita è la partita di calcio. Quasi superfluo aggiungere che a tutti i livelli si incentiva in mille modi la delazione.
In un clima del genere va ricordato il tragico episodio passato alla storia come “la notte delle matite” (da cui è tratto il film di H. Olivera “La notte delle matite spezzate”, 1986).
Il 16 settembre ’76 a Buenos Aires vengono prelevati dalla polizia, in seguito torturati e uccisi facendone poi scomparire i corpi, sei studenti della scuola superiore, di età compresa tra i 16 e i 18 anni. La loro colpa? Quella di lottare contro l’abolizione del “Boleto Estudiantil”, un tesserino che dava agli studenti la possibilità di beneficiare di sconti sui libri di scuola e sui trasporti. Per il regime tutto ciò rientra nel campo delle “attività atee e anti-nazionali”.
Spicca un altro aspetto di “avido materialismo” del regime, nonostante la sua pretesa di patriottismo disinteressato: le case di proprietà dei sequestrati (ma più in generale tutti i loro beni durevoli, compresi auto, moto, mobilia) passano alle FFAA. Bottino di guerra, da spartire tra questi “eroi” in divisa.
R. Diez parla di “guerra totale di sterminio”. Padoan di “scomparsa di tre generazioni per favorire i ricchi”.
Come si diceva, non si guarda in faccia nessuno. Nei CCD (Centri Clandestini di Detenzione) sono reclusi soggetti di ogni provenienza, compresi avvocati, appartenenti al clero, artisti, giornalisti…insomma chiunque non si allinei prontamente. Vengono uccisi 23 avvocati, mentre altri 109 scompaiono. Nonostante l’atteggiamento collaborazionista della chiesa cattolica si conta l’eliminazione di 125 sacerdoti e 2 vescovi. Per non dire di molti appartenenti al cattolicesimo “di base”, impegnati tra i diseredati delle “Villas Miserias” e perciò bollati di “comunismo”. I militari sanno benissimo che proprio dalle parrocchie, oltre che dalle Università, proviene il grosso dei militanti peronisti vicini ai “Montoneros” e alla lotta armata.
Il clima che va diffondendosi nel paese è di consenso abbastanza generalizzato tra il ceto medio, desideroso di ordine e disciplina. Mentre nelle classi popolari regna inizialmente il terrore e la paralisi. Circola un detto: “por algo será…”, cioè: se è successo (che qualcuno sparisca) vuol dire che ci sarà una ragione.
E del resto partiti ed enti religiosi o si allineano, oppure più semplicemente si girano dall’altra parte!
Degli USA abbiamo detto. Ma nel complesso, le cancellerie degli altri Stati occidentali sono al corrente dei fatti. L’URSS, che ha bisogno del grano argentino, chiede di non trasmettere alla Commissione dei Diritti Umani dell’ONU alcuna denuncia in merito a ciò che sta accadendo. Il Vaticano tace. Il nunzio apostolico a Buenos Aires Pio Laghi è amico intimo dei generali. L’Opus Dei pure. Le gerarchie cattoliche argentine non solo tacciono, sono complici. In fondo è innegabile la vocazione “cristiana” e “occidentale” della Giunta. Nell’appoggio più o meno peloso ai militari si distinguono prelati come l’arcivescovo di Buenos Aires cardinal J.C. Aramburu, e quello di Córdoba Raúl Primatesta. Sono solo 4, sugli 80 vescovi argentini, coloro che denunciano e condannano i crimini.
UCR e PJ, pur sospesi nelle loro funzioni, fanno capire che non si strapperanno certo le vesti per arrestare la mattanza. Ricardo Balbin (UCR) parla di “prudenziale sospensione dell’attività politica”. Deolindo Bittel (PJ) di “non forzare la situazione”. Il PCA (CC del 25 marzo) ritiene di “buon auspicio che la Giunta militare non abbia seguito la strada di Pinochet.” (sic) La CGT di Lorenzo Miguel non disdegna il “dialogo” con chi le strazia i militanti, le chiude le sedi, le interdice lo sciopero.
INCESSANTE DEMOLIZIONE DEL PROLETARIATO, MA…
Il piatto forte è pertanto l’annicchilimento della classe operaia come classe e l’eliminazione delle reti dei delegati combattivi che hanno animato le lotte di quegli anni.
La guerriglia, di per sé, è in gran parte debellata. Si tratta di dare ad essa il colpo finale, eliminando fisicamente i suoi esponenti, provenienti perlopiù dalle file peroniste.
Nel ’76 la lotta armata riesce a compiere ancora circa 400 operazioni (167 vittime tra poliziotti e militari), ma i suoi militanti sono braccati e tolti di mezzo nella maniera che abbiamo visto.
L’interpretazione che Montoneros e PRT (dopo aver unificato i Comandi militari) danno del Golpe è che esso sia stato escogitato per debellare la rivoluzione. Quando crediamo sia più realistico ritenere che proprio il mancato sbocco rivoluzionario delle lotte abbia dato alla borghesia tempo e modo di passare a tale sanguinoso contrattacco.
La decisione del PRT di trasformare il partito in organizzazione militare (aprile ’76) è il coronamento di quella visione “fochista”, militarista, che abbiamo avuto modo di criticare nel precedente articolo.
Diez (7) censisce ben 340 campi di detenzione in tutta l’Argentina, contenenti 30mila internati, il 90% dei quali è ivi assassinato. Se aggiungiamo nel triste computo anche i morti ammazzati nelle strade, nelle caserme, nei CCD, il numero delle vittime di questa allucinante mattanza supera di gran lunga i 30mila (Padoan li conta in 45mila)…
Con l’aggiunta di circa 2 milioni di oppositori (e famiglie) costretti ad emigrare.
Di queste vittime il 30% sono operai, il 20% studenti, il 17, 9% impiegati, il 10,7% professionisti, il 5,7% insegnanti…e 172 bambini accertati. (Ibidem)
E’ una chiara, inequivocabile, impronta antiproletaria data dai militari al loro processo di eliminazione.
Il 17 dicembre ’76 la Giunta emana il seguente decreto: “Nel corso di scioperi non dovrà essere consentita la presenza nella zona di tre o più persone. Gli scioperanti non potranno attendere alle fermate dei trasporti pubblici né frequentare caffè e altri locali. Saranno subito arrestati coloro i quali formino picchetti di fronte a fabbriche o uffici, o che propagandino lo sciopero.” Tali norme giungono dopo lo sciopero dei lavoratori elettrici di “Luz Y Fuerza” che viene selvaggiamente represso con l’arresto e l’uccisione di delegati di reparto e lavoratori. Tra i quali il segretario generale del sindacato, Augustìn Tosco, mai più riapparso. (8, I. Moretti)
Per M. Novaro (9) nel mentre si eliminano le frange più combattive del sindacato con sequestri e scomparse, si tengono “in caldo” le burocrazie. Come si vede, una vecchia pratica riproposta anche dai golpisti del ’76. La solerte collaborazione delle direzioni di fabbrica, già sperimentata a Villa Constituciòn, può ora dispiegarsi senza freni. Licenziamenti, “sistematica persecuzione dei delegati di base e delle Commissioni di fabbrica”…In Somisa, Acindar, Ford, i militari occupano gli impianti e creano unità di spionaggio. Nelle suddette imprese, cui si aggiungono Mercedes-Benz, Chrysler, Fiat, Swift, scompaiono intere Commissioni di fabbrica, e con esse i dirigenti operai più combattivi. (10)
Ma già dal ’78, gli scioperi non solo riprendono, si allargano. Anche sotto dittatura aperta e feroce del capitale, il proletariato non cede. Segno che il trentennio di opposizione – pur coi suoi momenti di difficoltà e confusione – ha comunque lasciato una traccia indelebile.
Novaro segnala che già tra la fine del ’76 e il ’78 vi siano circa 200 scioperi per rivendicazioni salariali e migliori condizioni lavorative. Per il solo 1980 calcola 188 scioperi, con circa 1 milione e 800mila partecipanti (il triplo del ’78, anno della significativa ripresa delle lotte di fabbrica). In una situazione tra l’altro di forte compressione salariale e di calo dell’occupazione industriale (-36% tra il ’79 e l’’81). Oltreché di terrore.
La produzione industriale cala a sua volta (’79-’82) del 23%, il PIL del 12%. La quota di Reddito Nazionale detenuta dagli operai se nel ’74 era del 45%, nel ’76 crolla al 25%, per risalire al 39% nel 1980. Come si vede ancora ben al di sotto di sei anni addietro (11, F. Silvestri,)
Per Padoan dal ’76 al ’79 il potere d’acquisto dei salari si dimezza. Secondo J. Corradi e M. Novaro precipita del 40%…Comunque sia, un salasso pauroso, implementato per allineare il capitalismo argentino al nuovo processo di accumulazione derivante dalla crisi petrolifera, e dalla marcata dipendenza di esso dal capitale monopolistico statunitense, e non solo. L’imperialismo del continente europeo (l’Italia in primis) è infatti presente anch’esso con imprese di fama e banche di prestigio (pure concorrenti tra loro), svolgenti lo stesso ruolo di rapina di quelle americane.
NON SONO SOLO MACELLAI
Fatto è che la Giunta non si è insediata al governo solo per usare la scure del macellaio, ma anche per “rivitalizzare l’economia col liberismo” e “risolvere il conflitto sociale”. Questi intendimenti fanno parte integrante del PRN. Si vuole insomma mettere a punto l’articolazione di uno Stato repressivo e di un “mercato aperto”. Sulla falsariga, se vogliamo, di quanto è già avvenuto in Cile tre anni prima. Cosa che, oltre a rendere felici Richard Nixon, Gerald Ford e Henry Kissinger, ha riempito di gioia tutti gli “investitori” del mondo.
Stiamo parlando dell’applicazione dei postulati della cosiddetta “Scuola di Chicago”, sostenitrice dell’ortodossia liberista, in base alla quale i rimedi alle crisi periodiche sono le privatizzazioni, le liberalizzazioni, la riduzione dei costi sociali e della burocrazia. Dentro un quadro di mantenimento del tasso costante di crescita dell’offerta in moneta piuttosto che l’uso delle politiche fiscali.
Per attuare una simile politica economica, chiesta a gran voce dall’establishment mondiale, i militari argentini chiamano al Ministero dell’Economia quel Martìnez de Hoz che abbiamo già incontrato a capo della acciaieria Acindar, epicentro di Villa Constituciòn.
Ma il ministro applica solo parzialmente la ricetta dei “Chicago Boys” cileni, puntando quasi esclusivamente sulla leva dell’abbattimento dei salari come antidoto all’inflazione. Per tenere costante l’offerta di moneta aumenta le importazioni, favorendo i monopoli e la finanza estera, ma allo stesso tempo penalizza il settore agricolo e il mondo delle PMI, che falliscono in quantità.
De Hoz tocca poco le imprese statali, e in parte la stessa spesa pubblica (in Argentina, ad esempio, non c’è la radicale riforma pensionistica del Cile) per due motivi: in primo luogo perché i militari – come ricordato più volte – sono azionisti dell’industria di Stato, a volte pure proprietari diretti. E se la spartiscono a suon di lotte furibonde.
In secondo luogo, in barba a Milton Friedman (il massimo esponente della “Scuola di Chicago”), i sindacati classisti (o le frange classiste dei sindacati) per i militari argentini vanno senz’altro distrutte, ma allo stesso tempo si devono preservare le burocrazie sindacali collaborazioniste. Quelle utili a tenere buona la base operaia e ben vivo un certo andazzo corporativo.
Dal ‘78 all’’81, rileva Moretti (12, “In Sudamerica”) vengono concessi in credito ai “paesi periferici” – da parte dell’imperialismo occidentale – centinaia e centinaia di milioni di dollari. Nonostante ciò (o meglio, “grazie” a ciò, NDR) l’Argentina aumenta il Debito estero e la dipendenza dall’estero… “Il tasso di interesse in dollari sul mercato finanziario locale fu, dal ’78, tre-quattro volte più alto di quello fissato nelle piazze mondiali. La politica dei cambi e la riduzione delle tariffe doganali sovvenzionava le importazioni, i viaggi e gli acquisti all’estero e scoraggiava le esportazioni.” (Hugo Quiroga, 1994, cit. da Moretti)
Il banco di prova liberista argentino economicamente si ferma a metà strada. La dipendenza del paese e l’intreccio speculativo-finanziario che lo avvolge a spirale indeboliscono la sua produzione di base e lo espongono ai ricatti del capitale internazionale. L’agricoltura è fortemente penalizzata dalla sopravvalutazione del peso. L’industria nazionale lo è dall’alto costo del credito, dalla poca concorrenzialità e dalla riduzione dei consumi. Ufficialmente nel ‘79 sono 700 le aziende statali messe in vendita (il FMI lo esige in cambio dei prestiti). I militari oppongono una sorda resistenza. Lo Stato continua a detenere circa la metà dell’investimento totale. (13)
Si effettuano tagli sui dipendenti del Pubblico Impiego (-100mila), ma il disavanzo pubblico rimane alto. La spesa militare è in salita e si pensa di finanziarla ricorrendo all’aumento delle imposte, cioè a una bestemmia nei confronti della dottrina ultraliberista. “Paradossalmente, fu la domanda pubblica a puntellare l’economia tra il 1976 e il 1979.” (14) L’aumento dei prezzi è sempre ai livelli di guardia (+ 175% nel ’77, + 170% nell’’80), nonostante l’inflazione sia momentaneamente abbattuta rispetto al governo precedente. Il debito estero a fine ’79, interessi esclusi, è comunque di 19 miliardi di dollari (più o meno l’export argentino di due anni e mezzo). Nell’83 arriverà a 45 miliardi.
La cura liberista di De Hoz si impantana nella spirale della dipendenza estera e del contenzioso interno alle frazioni del capitale nazionale, dilaniato dalle correnti presenti nelle FFAA. Il ministro, ligio al compito assegnatogli, intende inizialmente mettere nelle mani dei tecnici e privatizzare le industrie militari, ma entra assai presto in conflitto non solo coi diretti interessati, ma anche con gli industriali legati alle commesse pubbliche. Seguendo la linea per cui è importante avere credito estero a basso costo, e subito, De Hoz contrae crediti per miliardi di dollari, prevedendo che i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi a lungo.
Per un certo periodo la cosa sembra funzionare, ma nel settembre del ’79 la Federal Reserve USA alza i tassi d’interesse e tutto il castello di carta va a rotoli.
L’asse Videla-De Hoz viene a questo punto messo in discussione dai generali Edoardo Viola e Horacio Liendo, appoggiati a loro volta da Massera, favorevole alla ripresa dei rapporti coi peronisti istituzionali. Il gruppo anti-Videla si rende disponibile ad aperture verso la CGT (mantenere i Contratti Collettivi di Lavoro e non liberalizzarli, come si era fatto in Cile) e addirittura, con la nascita della “Multiparditaria” (una alleanza tra UCR, PJ, democratici cristiani e formazioni minori), ad aprire un percorso politico che porti alle elezioni e al ripristino della Costituzione. Da notare come la stessa CGT – ai vertici – si fosse a sua volta divisa tra i cosiddetti “Venticinque” (dirigenti pro-Massera) e “governativi”.
Con un ribaltone nella Giunta, il 29 marzo ’81 Viola depone Videla, ne prende il posto, e nomina Liendo ministro dell’Interno. De Hoz lascia il suo incarico.
Decine di banche si trovano sull’orlo del fallimento. La moneta si è svalutata dell’80% sul dollaro. Tutto ciò provoca una fuga di capitali tale, una emorragia delle riserve, che sul finire dell’anno queste sono praticamente esaurite. Il Debito estero segna un aumento del 31%. Lo Stato, che si è fatto carico dei debiti delle imprese verso le banche, non può più fronteggiare la situazione. Parte dell’imprenditoria si scolla dai militari. Non serve il messaggio “pacificatorio” verso la società civile di liberare, dopo cinque anni, Isabel Perón (luglio ’81).
Anzi. Il pericolo di un vuoto di potere che possa rimettere tutto in discussione e ritornare al ’76 spinge le correnti più oltranziste delle FFAA a spazzare ogni dubbio e riprendersi la scena. Così, l’11 dicembre ’81 il gen. Leopoldo Galtieri rimette le cose sul binario iniziale, spodestando Viola ed assumendo di persona la presidenza.
Come si vede, nel giro di pochi mesi la Giunta è a sua volta coinvolta in una instabilità politica non di poco conto. Un aspetto rimane immutato: il massacro a tappeto dei compagni e dei proletari, che continua senza sosta. Anche durante i processi farsa cui saranno sottoposti i caporioni in divisa una volta crollata la dittatura, ciascuno di loro cercherà di sfuggire alle proprie responsabilità rivendicando il diritto delle FFAA a salvaguardare l’incolumità del paese di fronte alla “barbarie terrorista”. Negando tra l’altro di avere mai trasbordato dai binari di una guerra dura sì, ma “umanitaria”…
Ciò che interessa qui mettere a fuoco è che la dittatura militare argentina, come del resto quella cilena (molto più longeva), non vadano interpretate esclusivamente in quanto macellerie. Maturano in esse alcune tratti politici e sociali che fanno di questi due paesi latino-americani degli scenari atti a prefigurare – per alcuni aspetti – i mutamenti, le involuzioni, le trasfigurazioni della democrazia borghese per come essa si presenterà nelle metropoli occidentali nei decenni che seguiranno. Gradualmente, alla “occidentale”, in maniera silente e pervasiva, con poche credenze e molto consumismo, senza spargimenti di sangue interni, certo. Ma inesorabilmente.
CILE E ARGENTINA BANCHI DI PROVA
Quando Margaret Thatcher prima (maggio ’79) e Ronald Reagan dopo (gennaio ’81) inaugurano i loro lunghi mandati neo-liberisti nelle metropoli inglese e statunitense, mandati che faranno da definitivo apripista per tutto l’Occidente, i banchi di prova cileno e argentino sono già stati superati con buoni risultati per le classi dominanti.
Stiamo pur sempre parlando di due paesi (Cile e Argentina) caratterizzati (la seconda più del primo) da moderne classi sociali, non da campesinos. In cui il capitale internazionale (industriale, commerciale, finanziario) affluisce a piene mani e condiziona pesantemente le sorti di quelle borghesie nazionali. Dove il proletariato è regolarmente super-sfruttato e massacrato, ma ciononostante capace di alzare la testa e mettersi di mezzo alle mire colonial-imperialiste dei padroni esterni e interni.
Non che Allende, in Cile, avesse aperto la strada al socialismo; rimanendo il suo governo di Unità Popolare comunque dentro rapporti – per lui “sacri” – di produzione e di proprietà borghesi, pur statalizzati. Cosa che preparò decisamente, con Pinochet, la rivalsa sanguinosa delle frazioni legate al capitale americano. Fatto è che tale impennata nazional-popolare (paragonabile, alla lontana, col peronismo prima maniera) andava affogata nello sterminio del proletariato cileno. E così fu.
Al contempo, dopo il Golpe, viene da subito messa in atto una politica economica selvaggiamente liberista, dove si arriva a privatizzare, oltre alle imprese, le pensioni, la sanità, la scuola, persino la posta e le farmacie…
Per non dire i rapporti di lavoro: chiunque può essere licenziato, in qualsiasi momento, per qualsiasi motivo, e senza indennità. Protagonisti sono quei “Chicago Boys” accennati poc’anzi, rappresentati nel governo Pinochet dal ministro del Lavoro e delle Miniere José Pinera.
Sul versante della politica economica, il Cile è un ottimo banco di prova per la borghesia internazionale. Non altrettanto lo sarà su quello politico; se non altro per la “spettacolarità” della repressione, per il taglio con l’accetta verso la società civile (partiti e sindacati), e infine per una certa pretenziosità da parte dello stesso Pinochet a fare della sua dittatura militare un “modello”, dentro una repubblica presidenziale “de iure” ma non “de facto”.
Per l’Argentina le cose non stanno allo stesso modo. Economicamente, come abbiamo visto, si è di fronte ad un liberismo a metà. Assai inquinato. Il quale, sommato a squilibri e influenze esterne, plurime, molto più forti di quanto lo siano in Cile, non fa certo assumere alla dittatura di Videla e & le sembianze di un prototipo liberista da mettere in vetrina.
In compenso, il capitale internazionale apprezza la liquidazione sottobanco, senza clamore, di almeno un paio di generazioni di proletari e attivisti avvenuta nel paese; ma non di meno è apprezzato il messaggio politico lanciato al “mondo libero” dall’America Latina anni ‘70: come trasformare la democrazia parlamentare in democrazia “autoritaria”, con tratti populistici, assorbendo e rimodulando alcuni aspetti scaturiti dall’esperienza di questi governi militari.
Qualche esempio: il dispregio dei proletari autoctoni e immigrati. Il disprezzo del “povero”, condito di classismo, razzismo, repressione e politiche securitarie. La conduzione della guerra sociale senza esclusione di colpi, in nome dei valori cristiani e occidentali. La Crociata interna e quella esterna attuate col crescente impiego di metodi militari, dopo aver infarcito il tutto di propositi “umanitari”. Questo il messaggio.
L’intento dichiarato della Giunta argentina (se si eccettua la paranoia crepuscolare di Galtieri autoproclamatosi presidente a vita), non è quello di sostituirsi in maniera permanente alla democrazia borghese e instaurare un regime fascista. Non emerge nei generali una simile ambizione, tipica del fascismo storico. Essi intendono “solo” sgombrare il campo dalla “Mala Pianta” del sovversivismo per poi riconsegnare ad una democrazia rinnovata un paese lindo, gerarchico, libero da tutto ciò che non rappresenti l’essenza “cristiana” e “umanistica” della tradizione.
I generali non ce l’hanno col populismo peronista in quanto “populismo”, dal momento che di esso condividono appieno la concezione “organicista” che deve legare popolo e Stato. Ce l’hanno con l’applicazione pratica data da Perón al movimento populista da lui fondato. Questo infatti, per i golpisti, avrebbe dovuto portare a una adesione convinta quanto passiva, obbediente allo Stato. Espungendo ogni “protagonismo” delle masse. Cosa che il vecchio leader non era riuscito ad ottenere. Scatenando scontri, divisioni, opposizioni, illusioni, veleni che avevano disarticolato l’autorità statale fino ad arrivare alla rivolta.
Il messaggio allora consiste nel rimodulare la democrazia borghese e rivitalizzare le “forze sane” della Nazione cassando il conflitto di classe, implementando un sistema politico fondato sul rapporto diretto eletti/elettori, sorreggendo il tutto col securitarismo e il rafforzamento dell’Esecutivo. Naturalmente, ciò comporta, ma solo come effetto indotto, la revisione della legislazione liberal-democratica dal punto di vista delle libertà individuali e collettive, oltreché dei diritti civili.
Ecco il “pacchetto” di input da “democrazia-totalitaria” che circa mezzo secolo or sono attraversa l’Oceano Atlantico giungendo dalle nostre parti. Sul momento nessuno ci fa caso. Le immagini che ci giungono dall’Argentina, in quegli anni, non sono focalizzate sui desaparecidos (tenuti nell’ombra dalle cancellerie), ma sulla coppa del mondo di calcio del 1978 vinta proprio dalla nazionale bianco-celeste. Nessuno ci fa caso, ma la borghesia mette a registro.
Stiamo parlando di un esperimento di integrazione tra democrazia borghese e fascismo (in veste populista) in base al quale la prima assume alcuni tratti del secondo senza per ciò dismettere parte dei suoi aspetti formali. Questi però, allo stesso tempo, vengono modulati sulle esigenze dei detentori del capitale (elezioni trasformate in plebisciti, competizione tra partiti a patto che siano “sistemici”, sindacalismo sì ma di Stato, informazione teleguidata, pensiero unico seppur apparentemente “plurale”).
Non crediamo che ciò significhi la fine politica del liberalismo e della socialdemocrazia, bensì del riformismo per come l’abbiamo conosciuto nel XIX° e parte del XX° secolo.
E non perché non esistano più “margini di manovra” per il capitalismo. All’occorrenza, al fine di corrompere o deviare movimenti di classe che possono minacciarlo, esso è in grado di tirare fuori le risorse del caso. Tutto starà nel vedere quanto queste siano compatibili con gli obbiettivi, la forza e l’organizzazione messe in campo dagli sfruttati.
Il problema del riformismo – che non sia di facciata – consiste nel fatto che nella odierna situazione mondiale del capitalismo esso non è compatibile con la feroce concorrenza tra imprese e Stati, condotta attraverso una logica classista prevaricatoria e sterminatrice, a suon di guerre guerreggiate. Una logica che mal tollera le “mediazioni”.
Chiudendo questa ampia parentesi, possiamo ben dire che il messaggio latino-americano lanciato verso i “paesi avanzati” (ma non solo) alla fine è passato. Con tutti i distinguo del caso, le specificità che si vuole, ma è passato.
Per questo riteniamo che la sconfitta e il martirio del proletariato argentino segna un arretramento di tutto il proletariato mondiale, a seguito di una lotta che ancor oggi non può essere confinata nel novero dei “paesi periferici”, ma costituire un prezioso insegnamento per i rivoluzionari.
LE FALKLAND: CAPOLINEA DELLA GIUNTA GOLPISTA
A seguito dei ribaltoni tra i golpisti prima descritti, di fronte a una situazione economico-sociale che scende in picchiata e comincia a sfuggirgli di mano, i militari ricorrono a un’arma di distrazione di massa vecchia ma sempre efficace: il nazionalismo.
Il 30 marzo dell’82 la CGT manifesta in Plaza de Mayo: “Paz, Pan y Trabajo” urlano le migliaia di operai lì radunatisi. La polizia carica: 1.000 arresti. A Mendoza si spara sui dimostranti: 6 feriti gravi. Cortei di protesta si verificano un po’ in tutto il paese. Come si vede, l’opposizione operaia – pur decimata e terrorizzata – non molla mai, è sempre lì.
Assai significativa è senz’altro la testimonianza, e il martirio, delle “Madres de Plaza de Mayo”, che già dal ’77 iniziano, prima in poche, poi in numero sempre più consistente, a far sentire ai generali – ogni giovedì – il peso del loro strazio e l’ignominia dei carnefici.
Vanno coraggiosamente davanti al palazzo del governo con le foto e i nomi degli scomparsi. Vogliono sapere che fine han fatto i loro figli e le loro figlie (tra i desaparecidos, non a caso, vi è un’alta componente femminile, doppiamente oltraggiata e vilipesa). Le prime madri sono circondate dalla polizia, poi arrestate e alcune di loro uccise. Ma il moto di denuncia e di protesta diventa man mano inarrestabile, non più nascondibile. Una spina nel fianco della Giunta.
Per tutta questa serie di motivi i militari si gettano nell’avventura della guerra. Credono che, spostando l’opinione pubblica sul terreno a loro più agevole, le cose possano volgere a loro favore. Vi è una questione pendente che sembra un ghiotto boccone: le isole Malvinas: arcipelago dell’Oceano Atlantico meridionale, occupato dagli argentini all’indomani dall’indipendenza dalla Spagna e che gli inglesi, conquistatolo nel 1833, chiamano Falkland.
Sono circa quindici anni che tra Argentina e Gran Bretagna, tramite l’ONU, intercorrono trattative per risolvere diplomaticamente la questione, senza alcun passo in avanti.
La Gran Bretagna, alle prese con la vicenda irlandese, ha altre gatte estere da pelare.
Tra l’altro la Thatcher, che non ha ancora piegato i minatori e dato il via alla valanga di privatizzazioni, si trova in un momento di scarso appeal interno. La maggioranza del popolo inglese non sa neppure che esistano le Falkland. Ancora di meno sono quelli che sappiano dove esse si trovino. Ma un dato è certo: il governo non può permettersi “cadute d’immagine” di nessun tipo.
Da parte argentina la cosa assume ben altri aspetti. Tutti sanno cosa e dove siano quelle che vengono definite orgogliosamente le isole Malvinas: “distano appena 500 Km. dalle nostre coste, fanno parte della nazione, ci sono state rubate dai colonizzatori britannici.” Questo è quello che circola sui giornali e l’opinione pubblica quando a Buenos Aires si viene a sapere come, rotti gli indugi, il governo del gen. Galtieri abbia dato l’ordine alla Marina di occupare l’arcipelago.
E’ il 2 aprile del 1982. L’occasione del “riscatto nazionale” e, per alcuni (tra cui molti oppositori, in patria e non) quella della “liberazione anticoloniale”; come se con questa guerra il regime – mischiandosi alla vera anima popolare argentina – aprisse d’incanto la strada ad un paese migliore…e come se queste isole quasi disabitate rappresentassero davvero una questione di lotta anticoloniale da parte di un capitalismo nazionale che non perde occasione per ravvivare contenziosi territoriali coi vicini (vedi Cile).
Manifestazioni entusiaste e spontanee sorgono nel paese. Gualtieri è acclamato dalla folla in Plaza de Mayo. Non disdegnano il loro appoggio la CGT (“Viva la patria!” proclama in un suo comunicato), i resti del PJ, dell’UCR, l’agglomerato della Multiparditaria colluso col deposto gen. Viola. Per non dire i numerosi enti e associazioni di volontariato, impegnate a raccogliere denaro, cibo, vestiario per i soldati argentini mandati a “liberare” le Malvinas. Soldati figli di popolo, orgoglio del popolo…
Novaro (15) ricorda come vi siano “prigionieri che si offrono come volontari e militanti montoneros che cerchino di realizzare opere di sostegno.”
Se Gualtieri ha calcolato giustamente il diffuso consenso interno verso il suo governo, al grido “las Malvinas son argentinas!”, ha invece molto male calcolato gli appoggi internazionali necessari per sostenere un confronto militare contro un imperialismo del calibro della Gran Bretagna.
Anzi, in un primo momento il generale ha fatto addirittura affidamento sull’appoggio di Reagan, presidente degli “amici” Stati Uniti d’America, per non arrivare nemmeno al confronto armato. Da Washington fanno però sapere che si ritengono neutrali sul contenzioso, e allo stesso tempo che non avrebbero appoggiato alcun impiego della forza militare di parte argentina.
Gli USA sono immersi della vicenda degli euromissili (1977-’87), per cui non hanno alcuna intenzione di minare il rapporto tra alleati che li lega alla Gran Bretagna.
In più, l’Argentina è paese dipendente, e nel continente a nessuno è permesso di prendere iniziative di quel tipo senza il consenso americano. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU condanna l’azione argentina e intima il ritiro. Il Cile, ad esempio, non è solidale con un governo pur avente la stessa matrice e gli stessi propositi. Per la serie: amici sì, ma gli affari sono affari. I conflitti di confine tra i due paesi sono lì a testimoniarlo. Cuba invece appoggia la Giunta argentina.
La Thatcher, incassato quanto sopra, manda 100 navi e 20mila militari a ricacciare in mare gli argentini. Tempo due mesi e il 14 giugno la guerra termina con la sconfitta nettissima dell’Argentina, che lascia sul terreno migliaia di morti contro i circa 300 britannici.
E’ la fine del regime militare. Lo scatenamento della guerra delle Falkland ha il doppio effetto di infliggere il colpo di grazia alla Giunta e rafforzare il governo britannico (che non ha puntato di meno sul nazionalismo per risollevare le sue sorti). D’ora in avanti la Thatcher potrà attaccare i lavoratori inglesi avendo mani libere e maggioranza parlamentare garantita.
Al termine della “cura” dei militari il debito estero argentino è di 35 miliardi di dollari. L’inflazione al 310%, il deficit fiscale al 14% del PIL, la Bilancia dei pagamenti ha un passivo di 7 miliardi di dollari. (16)
Il 17 giugno ‘82 Galtieri si dimette. Al suo posto il gen. dell’Esercito Rejnaldo Bignore, incaricato di traghettare il paese verso nuove elezioni, che si terranno nell’ottobre dell’83. Naturalmente l’alto ufficiale contratterà coi partiti parlamentari una legge di “auto-amnistia” funzionale alla tutela della sua casta, in cui si dichiara che gli eventuali eccessi della “guerra sucia” sono stati imposti dalla “sovversione terrorista”.
Il regime crolla per implosione dei militari, dopo che la bruciante sconfitta delle Falkland gli ha tolto il terreno sotto i piedi. E’ un disfacimento, non l’abbattimento di un governo ultrareazionario da parte di un movimento di massa. Ciò è reso impossibile proprio perché le masse sono state decapitate con lo sterminio e l’esilio. La classe dominante è ancora saldamente in sella e può affrontare senza particolari patemi il trapasso.
Dopo siffatto massacro si tornerà dunque alla “democrazia”, in maniera tale che possa soffiare impetuosamente anche sul mar de La Plata quel vento liberista che già sta avvolgendo le metropoli imperialiste.
- V. Bevis: Il metodo Giacarta, Einaudi, 2021
- V. Pettinà: L’America Latina nella politica Internazionale, Carocci, 2020
- H. Paredero: I signori col berretto, Edizioni Minimum Fax, 2010
- H. Verbitsky: Il volo, Fandango Tascabili, 2008
- D. Padoan: Le Pazze. Un incontro con le Madri di Plaza de Mayo, Bompiani, 2019
- Ibidem
- R. Diez: Vencer o morir, Il Saggiatore, 2004
- I. Moretti: In Sudamerica, Sperling & Kupfe, 2000
- M. Novaro: La dittatura argentina, Carocci, 2005
- Ibidem
- F. Silvestri: Dall’Argentina di Peron a Cavallo (1945-2003), CLUEB, 2004
- Moretti: In Sudamerica, cit.
- J.E. Corradi: Una repubblica in bilico, Edizioni UNICOPLI, 1988
- Ibidem
- M. Novaro, cit.
- F. Silvestri, cit.