(“Il lavoro rende liberi”, frase di benvenuto posta all’interno dei campi di concentramento nazisti e oggi fatta propria da Riva, partiti di governo, Cgil-Cisl-Uil)
Morire di tumore o morire di disoccupazione: anche questa volta governo e padroni vorrebbero che gli operai scelgano a quale corda impiccarsi…
Per decenni, tutti erano a conoscenza delle sostanze tossiche rilasciate dall’ILVA di Taranto. Al pari dell’Italsider, di proprietà statale, il gruppo Riva, proprietario della fabbrica e decimo produttore al mondo nel campo dell’acciaio, ha speculato per anni, perfettamente consapevole delle nocività e incurante della salute degli operai, delle loro famiglie e della popolazione dei quartieri circostanti all’acciaieria.
Per decenni padroni, sindacati concertativi, mass media e politicanti di ogni colore hanno messo il silenziatore al disastro ambientale prodotto a Taranto: non poteva essere altrimenti, essendo oramai di dominio pubblico che costoro, a partire da PDL e PD, sono da anni sul libro paga di Riva.
Mentre centinaia di operai di Taranto e di cittadini residenti nel quartiere Tamburi morivano di tumore, l’ILVA raggranellava miliardi di profitti grazie al supersfruttamento della manodopera, a un rigido e spietato sistema di controllo poliziesco all’interno degli stabilimenti, all’emarginazione e l’umiliazione di chiunque dall’interno della fabbrica si opponesse ai suoi disegni, alla palese violazione delle più elementari misure di tutela della salute e di messa in sicurezza degli impianti.
Ora a seguito della sentenza della magistratura che impone il fermo degli stabilimenti, i servi sciocchi di Riva si uniscono al loro padrone chiedendo a viva voce che l’acciaieria non chiuda. Cgil-Cisl-Uil, che in tutti questi anni non hanno proclamato una sola ora di sciopero in difesa della salute dei lavoratori e delle loro famiglie, si sono invece fatti trovare pronti allo sciopero ora che si tratta di difendere i profitti di Riva, e con essi i privilegi ottenuti in fabbrica dalle burocrazie sindacali grazie alla loro omertà. E così, dietro lo spauracchio della perdita del posto di lavoro e della disoccupazione, si chiamano a raccolta i lavoratori di Taranto come carne da macello al servizio del padrone facendoli sfilare nel solito passeggiatone confederale in nome del “diritto al lavoro”.
Quello che Riva e i parassiti di Cgil-Cisl-Uil chiamano “lavoro” è per gli operai una vera e propria polpetta avvelenata: essi devono non solo essere schiavi in nome dei profitti miliardari del patron, ma accettare in silenzio la produzione e il contatto diretto con quel veleno che quotidianamente uccide loro stessi e le loro famiglie.
“O muori di lavoro e sul lavoro, o muori di disoccupazione e stenti”: questo in sintesi il diktat di Riva e dei suoi zerbini, questa più in generale l’unica idea di “crescita” che alberga nelle teste dei padroni e dei governi europei (politici o tecnici che siano), per far fronte alla crisi sistemica del capitalismo mondiale.
Gli operai, molti dei quali hanno già pagato con la vita o con la salute propria o dei loro familiari questa criminale rincorsa ai profitti, sanno bene che si tratta del solito ricatto, della solita “pistola puntata alla tempia”, ed è forse per questo motivo che la giusta contestazione portata fin sotto al palco dei confederali lo scorso 2 agosto dal giovane e combattivo “Comitato di cittadini e lavoratori liberi e pensanti” non ha incontrato pressochè nessuna resistenza neanche tra gli stessi operai iscritti a Cgil-Cisl-Uil.
Gli operai (Ilva e non solo) tra l’incudine del ricatto occupazionale e il martello di un ambientalismo antioperaio.
Mentre il governo Monti cerca di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, temendo (a ragione!) una rivolta sociale da parte delle migliaia di operai e lavoratori dell’indotto che rischiano di finire per strada, da più parti, soprattutto negli ambienti della sinistra riformista ecco rispuntare fuori la parolina magica “bonifica!”, buona per tutte le stagioni e, soprattutto, per tutte le dismissioni. Un paradosso pensando come tra i principali esponenti di questa sinistra vi siano Nichi Vendola ed il suo partito, per anni al governo della regione Puglia, e uno responsabile a pieno titolo della devastazione portata su Taranto.
Per costoro, che evidentemente problemi a campare non ne hanno, l’unico problema è chiudere lo stabilimento: la sorte di 12000 operai e altrettanti dipendenti dell’indotto non è affare loro… In realtà, dietro un’apparente scontro ideologico pompato ad arte dai media, nei fatti gli interessi del profitto e quelli dell’ambientalismo borghese si sono già più volte dimostrati perfettamente conciliabili: mentre Riva potrà comodamente continuare a fare i suoi affari dismettendo, incassando un bell’inennizzo e andando ad inquinare in paesi ancor più compiacenti e a più bassi salari, i paladini del profitto ”ecocompatibile” saranno lieti di essersi liberati dell’odiata “fabbrica” e di vederla sostituita da centri commerciali e attività “terziarie” che sfruttano manodopera precaria e sottopagata. Dunque, tutti felici e tutti contenti, tranne ovviamente gli operai, da sempre gli unici a pagare i costi del capitalismo selvaggio. D’altronde, a decenni dalla scoperta della “questione ambientale” e dopo migliaia di casi di inquinamento doloso in nome del profitto, non abbiamo mai visto questi signori battersi per il principio che chi inquina paga.
Noi che viviamo a Bagnoli conosciamo bene cosa si cela dietro l’imbroglio delle finte “bonifiche”: da noi l’Italsider ha chiuso nel lontano 1991, e insieme ad essa hanno chiuso Eternit e Cementir.
Dopo oltre 20 anni, la bonifica completa delle aree è ancora un miraggio; la Società di Trasformazione Urbana è un inutile carrozzone clientelare che gareggia per il record di società pubblica più indebitata d’Italia; la famiglia Caltagirone, proprietaria dei suoli ex-sottraendosi in questo modo a qualsiasi obbligo di bonificarli; mentre Bagnoli è diventata per i politici e gli amministratori oggetto di un quotidiano ed estenuante carosello di proposte bizzarre e fantascientifiche che nascono e muoiono nel giro di un giorno, intanto aumentano gli affitti e la speculazione edilizia in virtù dell’apprezzamento dei suoli e il quartiere è alle prese con tassi di disoccupazione alle stelle e un crescente disagio sociale.
Ma soprattutto a Bagnoli si continua a morire: nel 2010, la popolazione residente sul nostro territorio ha ancora una speranza di vita di 2 anni inferiore alla media nazionale, e cio’ grazie ai veleni (amianto, IPA, metalli pesanti) che l’Italsider e soprattutto l’Eternit hanno disseminato sia sui suoli che nel mare.
Dunque, se è vero che a Taranto come in ogni altro luogo non si può e non si deve più morire per i profitti, i lavoratori Ilva e gli abitanti del quartiere Tamburi stiano altrettanto alla larga da chi semina l’illusione che alla chiusura della fabbrica faccia seguito un futuro radioso fatto di sviluppo “ecosostenibile”, commercio e turismo.
Se gli operai e i proletari tarantini non prenderanno in mano le redini del loro destino, muovendosi in proprio e in maniera autonoma dai padroni e dall’intero ciarpame istituzionale che fino a ieri ha vissuto con le prebende elargite da Riva e dal suo clan, Taranto farà la fine di Bagnoli: niente più fabbrica che inquina, ma al suo posto un enorme e desolante deserto post-industriale, regno della precarietà e della disoccupazione e in cui, per giunta, si continua a morire “in differita”.
LAVORO E SALUTE: OTTENERE ENTRAMBI E’ POSSIBILE, MA SOLO FUORI DALLE COMPATIBILITA’ IMPOSTE DAL CAPITALE E DAL PROFITTO
La vicenda dell’Ilva non ci parla solo dello specifico tarantino, ne può essere ridotta a mera questione riguardante le sole “città industriali”, poiché essa in realtà pone in essere in modo quanto mai esplicito il nodo di fondo con cui l’intera classe sfruttata è costretta a fare i conti se vuol evitare di finire stritolata e annientata dalla crisi capitalistica: decidere in prima persona cosa produrre, come produrlo e per chi produrlo. Se il sistema del capitale nella sua fase di decomposizione è capace solo di produrre miseria, disoccupazione, morti e devastazioni ambientali, e se le ragioni del profitto rendono storicamente impossibile la riproposizione di compromessi e soluzioni riformiste, allora sta ai lavoratori e ai proletari il compito di abbattere quel sistema.
Nell’immediato, a Taranto come ovunque rivendichiamo:
L’ESPROPRIO SENZA INDENNIZZO E LA NAZIONALIZZAZIONE SOTTO CONTROLLO OPERAIO DELLE IMPRESE CHE INQUINANO IL TERRITORIO E AVVELENANO LE POPOLAZIONI
UNA VERA BONIFICA E UN IMMEDIATA RICONVERSIONE PRODUTTIVA DEI SITI A SPESE DEL PADRONE E NON DEL CONTRIBUENTE
LA DIFESA DEI LIVELLI OCCUPAZIONALI E UN SALARIO GARANTITO A TUTTI GLI OPERAI NELLE FASI DI FERMO DELLA PRODUZIONE RESE NECESSARIE DALLA BONIFICA, CON RISORSE TRATTE DAI PROFITTI AZIENDALI O DA UNA PATRIMONIALE SULLE GRANDI RICCHEZZE
Napoli, 28-08-2012
Laboratorio Politico Iskra
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