Fra il 30 maggio e il 2 giugno il governo saudita ha riunito una folla di leader arabi e mussulmani. Uno dopo l’altro si sono tenuti 2 vertici “di emergenza”, quello della Lega Araba (22 membri) e quello del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc – 6 membri), appena prima di quello annuale dei 57 Paesi membri della OIC (Organizzazione della Cooperazione islamica ).[1]
L’OIC si è riunita sui temi decisi in precedenza (status di Gerusalemme, alture del Golan, Rohingya e islamofobia dilagante).
La Lega Araba e il GCC sono stati convocati dal sovrano saudita re Salman bin Abdulaziz, nella sua duplice veste di aspirante leader del mondo arabo e di “custode dei luoghi santi”, per prendere una posizione di condanna contro l’Iran. Due incidenti, di poco precedenti, giustificavano secondo i sauditi “l’emergenza” dei vertici: gli attacchi contro quattro container, di cui due petroliere saudite, al largo delle coste degli Emirati, attacchi attribuiti all’Iran e l’attacco di droni alle installazioni petrolifere saudite, attacco rivendicato dagli Houthi dello Yemen, notoriamente sostenuti sempre dall’Iran. Re Salman ha chiesto di fermare le “escalation” iraniane nella regione, sottolineando il ruolo positivo svolto dal dispiegamento militare Usa, che ha scoraggiato Teheran.
Questi fatti si collocano in un quadro internazionale di pesante scontro in atto fra Iran e USA dopo la denuncia da parte di Trump dell’Accordo 2015 sul nucleare iraniano.
Trump ha da subito in modo esplicito rafforzato un asse con Israele e Arabia Saudita, quest’ultima individuata come perno di uno schieramento sunnita compattamente filo-americano, da contrapporre all’Iran.[2]
Dopo il momentaneo intoppo del “disagio” causato dall’assassinio del giornalista Khashoggi (di cui era accusato l’erede al trono), superato con cinica disinvoltura, la Casa Bianca si è spinta fino a vendere all’Arabia Saudita tecnologia nucleare per sei impianti “civili” .
Alla fine dei due summit di Riad un comunicato ha ribadito il diritto dei paesi del Golfo e arabi a difendersi davanti all’offensiva iraniana.
Sembra quindi che l’Arabia Saudita abbia ottenuto quell’investitura cui aspira, cioè il pubblico riconoscimento della propria egemonia politica sui paesi arabi e in modo più ampio sui paesi islamici forte, oltre che del suo oggettivo peso dentro l’Opec, anche del rinnovato sostegno statunitense. Obiettivo a cui ha mirato con una politica estera sempre più aggressiva: dalla guerra in Yemen (2015) all’embargo al Qatar (2017), dal sostegno all’avventura libica di Haftar (2019) alla criminalizzazione dell’Iran, accusato di “intervenire negli affari interni degli altri paesi” e di “ospitare terroristi regionali e globali”.
Le voci critiche
Una voce critica si è comunque levata, quella dell’Iraq, che ha messo in guardia dal pericolo di una ennesima guerra regionale, ha ribadito le ottime relazioni economiche e diplomatiche che intrattiene con l’Iran, “paese mussulmano” e quindi non ha firmato il comunicato finale.
Si vedrà alla fine di giugno al vertice Opec, che deciderà la linea produttiva per il resto del 2019, dove i sauditi vogliono imporre un duro embargo contro il petrolio iraniano, se l’Iraq rifiuterà di condividere questa scelta.
La presenza del Qatar ai due vertici, invitato ufficialmente, ha stupito qualcuno, dal momento che il paese è sotto embargo da due anni proprio ad opera dei paesi vicini. Vale la pena di ricordare che il primo tentativo di Nato araba, cioè il “Progetto di Difesa assistita del GCC” del 2013 è fallito proprio per l’ostilità del Qatar alle clausole che avrebbero limitato la sua indipendenza.
L’embargo d’altronde, motivato dalle pretese complicità fra Iran e Qatar, è stato voluto dai sauditi per piegare la politica estera indipendente (e la voce giornalistica indipendente Al Jazeera) del Qatar, che impediva a Riad di compattare i paesi sunniti sotto la propria tutela.
Può essere la presa d’atto da parte saudita che l’embargo ha fallito lo scopo[3] . Può essere stata una pressione degli americani, che hanno ripreso alla grande a vendere armi al Qatar, ma soprattutto in quel paese hanno la loro più grande base militare in Medio Oriente con 10 mila uomini. O forse perché il Qatar alla fine potrebbe funzionare da mediatore con l’Iran o la Turchia.
Non ha stupito l’assenza del Marocco, i cui rapporti con l’Arabia Saudita sono a dir poco ondivaghi. Il Marocco non aveva partecipato al blocco contro il Qatar. Ma nel settembre 2018 si era allineato alle posizioni degli Usa nel condannare l’Iran per terrorismo.[4] Si era parlato di rafforzare la collaborazione in campo militare, già molto forte. Comunque nel febbraio 2019 a sorpresa il Marocco ha richiamato il proprio ambasciatore a Riad e ha annunciato che avrebbe ritirato le proprie truppe dal fronte anti-Houthi in Yemen cappeggiato dai sauditi.[5]
Al di là delle motivazioni ufficiali della rottura resta comunque l’ostilità del Marocco sia verso l’Iran che verso i Sauditi colpevoli di cercare di espandersi in Africa occidentale, regione che a torto o ragione il Marocco considera proprio terreno di caccia. Il 58% degli Investimenti Esteri Diretti (IED) marocchini sono infatti diretti in Africa e concentrati nella parte occidentale.[6]
Il progetto di NATO Araba
Un altro punto di domanda riguarda l’Egitto che tiene una posizione ambigua rispetto al soggetto militare che dovrebbe dare corpo alla difesa degli stati arabi contro il proselitismo iraniano e cioè la Mesa (Middle East Strategic Alliance), definita “la Nato Araba”, nata da una idea statunitense per contrastare l’espansionismo iraniano nella regione.[7] L’Egitto non era presente alla riunione dello scorso aprile, cui invece era presente il Qatar, e dopo qualche giorno in una visita negli Usa Al-Sissi ha comunicato ufficialmente a Trump che non ne farà parte.
Un duro colpo dal momento che il più grande esercito arabo al mondo è proprio quello egiziano.
Perché l’Egitto nonostante gli ottimi rapporti con gli Usa, nonostante i generosi aiuti economici sauditi, ha declinato l’offerta? Le spiegazioni possono essere più d’una. Al Sissi non può dare il suo assenso a un’operazione che incorona l’Arabia Saudita a leader anche militare dell’area e lo vedrebbe come junior partner (è vero che l’Egitto è ormai una potenza regionale declinante, ma regalare il primato a Riad non è certo fra i suoi obiettivi). Comunque certamente Al Sissi non avrà dimenticato che a una sua proposta nel 2015 di creare una Forza congiunta Panaraba contro lo Stato Islamico in Libia, Sinai, Siria, Iraq, i sauditi hanno reagito col boicottaggio pratico e la proposta di una avveniristica Nato mussulmana cui avrebbe partecipato anche l’Indonesia. Inoltre Al Sissi non vuole guastarsi i rapporti con la Russia, che in Siria sostiene Assad in collaborazione con le milizie iraniane. E infine dalla sua decisione filtra anche una certa diffidenza per Trump che nelle sue battaglie alterna attacchi feroci a inviti al dialogo, in funzione di una sua personale strategia di contrattazione che non condivide con gli alleati. L’allontanamento di Mattis, considerato da molti partner arabo-sunniti l’unico referente affidabile, le giravolte rispetto al Qatar ecc. aggiungono materia a questa diffidenza.
Del resto l’andamento della guerra in Yemen non fa presagire nulla di buono su una eventuale coalizione militare arabo sunnita: il Marocco si è ufficialmente ritirato, l’Egitto ha ritirato i soldati di fatto per l’ostilità dell’esercito; Pakistan e Sudan hanno lasciato un contingente simbolico, costringendo Riad a ingaggiare, oltre ai senegalesi, contractor Usa e colombiani. Sauditi ed emiratini devono ora reggere un maggior peso militare, ma la loro alleanza è indebolita dalla reciproca competizione per garantirsi l’influenza sul futuro dello Yemen (fonte ISPI).
Una nuova guerra medio-orientale?.
I vertici di Riad sembrano individuare nello scontro Iran-Arabia lo scontro principale nell’area. Ma è evidente che il quadro è molto più complesso e in questo stanno “le carte” che l’Iran può giocare.
La concorrenza per la leadership non è una partita a due. Dell’Egitto abbiamo già detto.
Ma la Turchia non resterà a guardare non tanto e non soltanto la costruzione di un fronte politico economico anti-Iran, quanto l’ipotesi di una alleanza militare da cui è esclusa, costruita al confine del suo cortile di casa. Ankara percepisce la Mesa come una minaccia alla propria strategia mediorientale; inoltre ha ormai un consolidato rapporto economico-politico col Qatar, che non può essere spezzato con facilità, esattamente come non può essere spezzata con facilità la stretta collaborazione Iraq-Iran.
Quello che è da capire è se il blocco economico imposto dagli Usa all’Iran funzionerà e quanto potrà essere adeguatamente depotenziato da un aumento dei rapporti economici ad Est: con Cina, Russia e India (paesi tutti e tre visitati in maggio dal ministro degli Esteri iraniano Zarif), visto che da parte europea per ora sembra prevalere la tendenza ad accettare il diktat statunitense.
L’esperienza dell’embargo al Qatar dimostra che anche uno staterello insignificante dal punto di vista demografico e militare può comunque cavarsela, se attaccato da uno stato incredibilmente più potente, purchè ci sia l’interesse di altre potenze, regionali e no, a limitare lo strapotere dell’aggressore. A maggior ragione questo potrebbe funzionare per un paese popoloso, ricco di risorse, mediamente sviluppato e strategico come posizione geografica come l’Iran.
Ma alla fine il nodo resta se è possibile la formazione di un blocco politico-militare unito sotto la leadership statunitense che regga alle contraddizioni degli interessi contrapposti dei vari membri. Certo se fosse evidente che schiacciare l’Iran sarebbe l’unica possibilità per garantire la funzionalità delle rotte commerciali ed energetiche marittime tra Oceano Indiano occidentale, Mar Arabico, Mar Rosso e Levante arabo (da cui transita il 25-30% di tutte le merci trasportate via mare al mondo), chissà forse la MESA potrebbe funzionare. Ma questa evidenza oggi non c’è.
Al contrario le voci insistenti di un ritiro degli Usa dal Medio Oriente, voci smentite o affermate, creano l’impressione di una inaffidabilità Usa, accresciuta dall’avvicinarsi delle elezioni presidenziali. Secondo l’Ispi, da questo punto di vista, la Mesa “appare come manifesto e strumento della dottrina mediorientale di Trump” più che un’ipotesi operativa a medio termine.
Viceversa per i vertici reazionari del fronte sunnita e del fronte sciita, l’agitare venti di guerra favorisce una propaganda nazionalista che li rafforza e consente di ignorare le forti spinte sociali al cambiamento in società fortemente repressive. Entrambi i paesi hanno scatenato feroci guerre per procura in cui sono morti centinaia di innocenti.
Parlando di Medio Oriente ribadiamo che non si deve dar spazio alla islamofobia (utile a giustificare i delitti delle democrazie occidentali) ma nemmeno si deve tifare per quei regimi reazionari, non meno sfruttatori dei governi di casa nostra. Non è obbligo tifare per i sauditi o l’Iran, si possono condannare entrambi i governi e tifare per le proteste e la resistenza che anche all’interno di quei paesi esistono.
[1] Il Consiglio di cooperazione del Golfo (Gulf Cooperation Council, GCC) riunisce Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Fondato nel 1981, è una sorta di mercato comune dei paesi della penisola arabica che si affacciano sul Golfo Persico.
La Lega Araba, fondata nel 1945, riuniva inizialmente Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Iraq, Libano, Siria , dal 1953 al 1977 si sono aggiunti altri 15 paesi e nel 1993 le Comore. Dei 22 paesi membri 10 sono africani (Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Sudan, Somalia, Gibuti, Comore), 7 nella penisola arabica (Arabia, Emirati, Kuwait, Oman, Yemen, Qatar, Bahrein) e 5 mediorientali (Iraq, Siria, Giordania, Libano, Palestina).
L’Organizzazione della Cooperazione islamica (OIC), fondata in Marocco nel 1969 ha l’ambizione di salvaguardare gli interessi delle popolazioni mussulmane nel mondo. Riunisce, oltre ai 22 paesi della Lega Araba, in Europa Albania; in Medio Oriente Iran, Turchia; in Africa Benin, Burkina Faso, Camerun, Ciad, Costa d’Avorio, Gabon, Gambia, Guinea Conakry, Guinea Bissau, Mali, Mozambico, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Togo, Uganda; in Asia Afghanistan, Azerbaigian, Bangladesh, Brunei, Indonesia, Kazakhistan, Kirghizistan, Malesia, Suriname, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. In tutto 57 paesi.
[2] Come è noto gli Usa in relazione agli incidenti attribuiti all’Iran hanno inviato in prossimità delle acque del Golfo Persico la portaerei Lincoln con 50 aerei da combattimento, 5 navi da guerra più il gruppo da assalto anfibio. Gli Usa hanno poi schierato batterie di missili Patriot in Qatar ed hanno inviato i grandi bombardieri B-52.
Di fronte a un Obama il cui obiettivo principale era sfilarsi dal Medio Oriente, Trump ha puntato alla costruzione
di un compatto fronte sunnita legato agli Usa; un primo ostacolo è dato dalla aperta concorrenza di Turchia e Arabia Saudita per la leadership regionale.
[3] Come si ricorderà il 5 giugno 2017 sulla spinta del nuovo erede al trono i sauditi hanno imposto l’embargo al Qatar, accusato di complicità con l’Iran e di sponsorizzare il terrorismo. L’embargo è stato condiviso da Bahrein, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, ma non ad es. dal Marocco, né dall’Oman, né dal Kuwait. Inizialmente gli Usa dettero la propria approvazione , ma poi valutarono non conveniente rinunciare alla vendita di armi al ricchissimo Qatar, di cui utilizzano una importante basi militare (Al- Udeir) dove sono di stanza 10 mila militari americani. Il Qatar ha trovato altri partner commerciali: l’Iran, la Cina, l’India, il Pakistan, la Turchia, il vicino Oman. In seguito l’Egitto ha allentato l’embargo, anche in considerazione dei 300 mila egiziani che lavorano in Qatar e che il governo non vuole veder rientrare ad aggravare il numero dei disoccupati. Infatti le petroliere del Qatar continuano a transitare per Suez. Il Qatar ha costruito in pochi mesi ad Hamad un proprio porto internazionale, garantendosi così un autonomo collegamento via mare. Hamad è oggi collegato con 135 paesi. Importa generi alimentari da Turchia e India, ed è ormai indipendente da Arabia e Emirati. Il governo ha sostenuto finanziariamente la compagnia aerea di bandiera e le banche, che oggi si sono comperate una quota di un distretto finanziario a Londra, ma anche investito in alcune banche cinesi.
Del resto dopo i primi mesi gli “alleati” sauditi si sono un po’ sfaldati. Ad es. gli Emirati hanno firmato una proroga al 2032 del contratto di approvvigionamento di gas dal Qatar.
Per il Qatar l’embargo ha avuto costi economici elevati (carenza di beni alimentari, blocco consistente dei commerci, danni agli investimenti diretti e ai flussi finanziari, difficoltà a gestire i trasporti, danni al turismo) e del trasporto in genere, ma ha imposto al paese un salto di qualità nei rapporti col resto del mondo, aprendo nuove relazioni diplomatiche (ad es. con l’Iran) e incrementando i rapporti commerciali con Turchia, India, Iran, Oman.
[4] Al vertice dell’8 aprile 2019 in Arabia hanno partecipato oltre all’Arabia Saudita e agli Stati Uniti, esponenti di Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar e Giordania. Si è discusso di strategia comune, modalità di intervento, finanziamenti.
[5] In particolare nel maggio 2018 il Marocco aveva interrotto i rapporti diplomatici con l’Iran (ripresi solo dal gennaio 2017), accusandolo di propaganda indebita fra i giovani, di cercare di installare Hezbollah nel paese, e di appoggiare e armare il Fronte Polisario. Banche e imprese erano state diffidate dall’intrattenere rapporti con l’Iran. Gli Usa del resto sono il principale fornitore militare del Marocco, coprendo il 52% delle importazioni. Nel marzo 2018 il Marocco aveva arrestato ed estradato negli Usa il finanziare libanese Kassim Tajideen, sospettato di essere un sostenitore di Hezbollah.
[6] Per ritirare l’ambasciatore il Marocco ha preso a pretesto un documentario girato e trasmesso da Al-Arabiya sul Sahara Occidentale, che i marocchini hanno considerato troppo favorevole al fronte Polisario.
Altri motivi della rottura sarebbero stati l’atteggiamento arrogante del principe MbS (Mohammed bin Salman) che in Yemen tratta gli alleati come sudditi e che avrebbe preteso di interferire nei rapporti Marocco-Qatar, rimasti buoni.
Secondo altri il Marocco non ha digerito che i sauditi non abbiano sostenuto la sua candidatura ai Mondiali di Calcio 2016. L’annuncio della rottura Marocco-sauditi è stato contemporaneo al summit anti-Iran organizzato a Varsavia il 13-14 febbraio 2019 da Mike Pompeo e Benjamin Netanyahu a Varsavia, presenti al gran completo Emirati, Bahrein, Oman, Yemen (governo di Aden), Giordania e anche Marocco. Libano, Siria, Qatar e Turchia avevano rifiutato l’invito (anzi la Turchia e la Siria avevano aderito con l’Iran al contemporaneo vertice di Sochi organizzato dalla Russia). A Varsavia non sono andati, anche se invitati, Algeria, Sudan, Iraq e Kuwait. Egitto e Tunisia hanno inviato come osservatori dei vice-ministri.
[7] Tutti i paesi del Golfo stanno investendo pesantemente in Africa, sia nelle infrastrutture che nell’acquisto di proprietà agricole, non diversamente dai cinesi; acquistano banche e compagnie telefoniche. Paesi al centro dell’interesse sono in primis il Sudan e il Kenya, ma anche Etiopia, Mali, Mauritania e Tanzania, oltre i tradizionali Libia, Egitto e Marocco.