Mentre ancora discute sull’opportunità di aver sospeso i propri lavori per tre ore anziché per tre giorni, il parlamento inizia a occuparsi di un caso internazionale più scottante: la consegna, da parte dello stato italiano, di Alma Shalabayeva, moglie dell’imprenditore kazako Mukhtar Ablyazov e dello loro figlia nelle mani del governo autoritario dal quale erano fuggite.
Mukhtar Ablyazov è stato a lungo un uomo del regime di Astana, sia come imprenditore sia come politico in senso stretto. Nominato nel 1997 dirigente della compagnia elettrica di stato, nel 1998 fonda la BTA Bank e diventa Ministro dell’energia, dell’industria e del commercio.
Ma nel 2001, insieme a molti altri dirigenti del regime, fonda Scelta Democratica del Kazakistan, un movimento politico di opposizione. E allora la sua brillante carriera si interrompe e cominciano i guai: nel 2002 viene condannato a 6 anni per abuso di potere, viene rilasciato 10 mesi dopo a condizione che lasci la politica. Dal 2005 è presidente della BTA Bank, che si espande con una politica di grandi prestiti e grandi rischi, fino a rischiare il tracollo nel 2009, quando viene salvata dal fondo sovrano kazako Samruk-Kazyna. A quel punto Ablyazov – che non aveva smesso di finanziare i movimenti politici di opposizione e che aveva già subito diversi attentati – fugge a Londra.
Su di lui gravano diversi mandati di cattura internazionali per malversazioni nella gestione della BTA Bank e altri reati finanziari; nel Regno Unito ha ottenuto lo status di rifugiato politico nel 2011, a suo carico ci sono diversi procedimenti penali, i suoi beni sono sotto sequestro.
E’ in questo scenario che matura l’arresto di sua moglie a Roma la notte fra il 28 e il 29 maggio: dopo una segnalazione dell’Interpol e dopo l’incontro fra l’ambasciatore kazako Yelemessov e il Capo di gabinetto del ministero degli Interni Giuseppe Procaccini, la polizia irrompe in una villa in affitto a Casal Palocco alla ricerca del super-ricercato Ablyzov. Al suo posto trova la moglie Alma Shalabayeva e la figlia Alua di sei anni, che vengono trasferite nel CIE di ponte Galera e dopo 3 giorni espulse in Kazakistan.
Potrebbe essere una delle tante deportazioni “democratiche”, grazie alle quali migliaia di lavoratirci e lavoratori vengono rimandate nella terra d’origine a fronteggiare condizioni di vita difficili, guerre e persecuzioni politiche ben peggiori di quelle che il presidente kazako riserva ai soci che gli hanno voltato le spalle.
Invece, seppure in ritardo, ne nasce un terremoto: giornalisti e uomini politici che hanno sempre snobbato le carcerazioni arbitrarie nei CIE e le deportazioni dei migranti ora si ergono a campioni dei diritti umani e gridano allo scandalo.
Sabato 13 arrivano le beffe del governo di Astana: la signora Shalabayeva – “deportata su richiesta delle autorità italiane” – non sarebbe agli arresti, ma a casa propria ad Almaty, sotto inchiesta per aver usato passaporti falsi.
Il dibattito verte intorno ai dettagli: chi sapeva che la signora Shalabayeva era moglie di un oppositore politico kazako? Chi ha ordinato il blitz? Il ministro degli esteri sapeva? E quello dell’interno? Chi deve pagare?
Secondo il Corriere della Sera (13/7/2013), la Fanesina la mattina del 29 maggio aveva confermato alla Questura di Roma che la donna non aveva immunità diplomatica. Nessuno avrebbe notato che per lei era valido un permesso di soggiorno britannico.
Al di là delle responsabilità individuali – responsabilità che vanno velocemente attribuite a determinati capri espiatori per evitare di coinvolgere i vertici istituzionali e mettere a repentaglio la stabilità del fragile governo Letta – va sottolineato un aspetto: il Kazakistan non è solo un paese dove il presidente Nursultan Nazarbaev governa ininterrottamente da quando il paese ha acquisito l’indipendenza nel 1991, formalmente grazie a elezioni democratiche, di fatto schiacciando ogni opposizione con metodi polizieschi.
Il Kazakistan è un paese ricchissimo di risorse e strategico per la politica estera e militare in Asia Centrale.
La sua bilancia commerciale è in grande attivo (dati ICE 2010: oltre 57 miliardi di $ di esportazioni contro 24 di importazioni) soprattutto grazie alle esportazioni di idrocarburi, ma anche di carbone, metalli e materie prime in generale.
In questa ricchezza nuotano innanzitutto gli uomini vicini al presidente Nazarbaev (fra i quali è stato a lungo Mukhtar Ablyazov prima di cadere in disgrazia), ma anche aziende di tutto il mondo.
L’Italia è un grande importatore del paese centro-asiatico: nel 2009 quasi 6.687 milioni di dollari di importazioni; per il solo primo trimestre 2013 ha importato 764 milioni di euro – ma nello stesso periodo del 2012 era quasi il doppio: 1.282 milioni – ed esportato quasi 157 milioni di euro – contro i 205 del 2012. Per il 2012, ha importato soprattutto petrolio greggio (4.329 milioni di euro) ed esportato prodotti industriali vari (dati ICE).
Per l’Eni, queste buone relazioni sono un grande affare: sul Mar Caspio sta per iniziare l’estrazione petrolifera dal giacimento di Kashagan (riserve stimate sui 13 miliardi di barili di greggio), nel quale la multinazionale italiana ha una quota del 16,8% in parità con Exxon, Shell, Total e la locale KazMunaiGas; in società anche ConocoPhillips col 8,40% e Inpex col 7,56%. Da anni è attivo il giacimento di Karachaganak, (quota Eni: 32,5%) che nel 2010 ha prodotto solo per l’Eni una media di 65 mila barili/giorno di idrocarburi liquidi e 6,7 milioni di metri cubi/giorno di gas naturale.
Ma dalla moda al metalmeccanico e ad altri settori, le aziende italiane interessate sono molte.
L’Italia è solo uno dei tanti paesi democratici a coccolare il regime di Astana. La sua posizione geografica in una regione turbolenta e in espansione come l’Asia Centrale ne fa un alleato prezioso, conteso fra le potenze: la Russia è suo principale partner commerciale (seguita dalla Cina), gli USA hanno da tempo un’intensa collaborazione militare vitale ieri per condurre la guerra in Afghanistan e oggi per uscirne. In questo, l’imperialismo italiano non è solo.
Di una cosa quindi non si può accusare lo stato italiano: di incoerenza.
E’ stato perfettamente coerente con la propria storia, la storia di una borgesia che ha sostenuto per decenni un satrapo sanguinario come Gheddafi fino a subappaltargli la repressione dell’immigrazione; coerente con l’abitudine di lisciare il pelo a tutti i tiranni che garantissero buoni affari e vantaggi diplomatici (nel 2010 il presidente Napolitano nomina Bashar al Assad “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”).
Ma è stato coerente anche con l’abitudine delle democrazie di impugnare i diritti umani come pretesto per condurre guerre umanitarie e di rimetterli in un cassetto quando diventano inutili o dannosi: la cosidetta “guerra al terrorismo” condotta dai governi occidentali è stata fatta subappaltando alle dittature del Nordafrica la tortura dei sospettati, estradando oppositori politici definiti “terroristi” per ragioni di comodo, foraggiando i regimi autoritari che davano garanzie di collaborazione nelle guerre in Iraq e Afghanistan e intensificando lo spionaggio interno verso i movimenti di opposizione.
In questo momento fra USA e Russia è in corso uno scontro diplomatico per l’estradizione del “criminale” Edward Snowden, l’informatico della NSA colpevole di aver rivelato le attività di spionaggio del governo statunitense a danno dei residenti negli USA. Ma nelle democrazie i cittadini non dovrebbero essere informati su ciò che fanno i “loro” governi?
Ora il governo italiano si esercita in una manovra grottesca: revoca il provvedimento di espulsione verso la signora Shalabayeva e attiva i canali diplomatici per favorirne il rientro in Italia.
Quale premura verrà invece riservata a tutti gli ospiti dei CIE che rischiano di essere espulsi verso dittature e zone di guerra? Anche per essi ci saranno inchieste e richieste di dimissioni?
Non abbiamo alcuna fiducia nelle iniziative di “trasparenza” – o meglio, di insabbiamento – che il governo italiano ha intrapreso affidando al prefetto Alessandro Pansa un’indagine sulla vicenda Shalabayeva.
Né abbiamo fiducia nell’opposizione parlamentare che chiede la testa del Ministro degli Interni e vicepremier Angelino Alfano. Una testa che dovrebbe pagare per un crimine commesso da tutto uno stato e non solo da una parte politica… ma che difficilmente cadrà, perché significherebbe far cadere il governo.
La nostra “fiducia” ed il nostro appoggio va ai lavoratori del Kazakistan.
Lo scontro politico in quel paese non è solo lo scontro fra gli oligarchi vicini al presidente Nursultan Nazarbaev e quelli come Mukhtar Ablyazov che puntano a scalzarlo per assicurarsi la fetta più grande della torta.
E’ anche uno scontro di classe, contenuto ma non domato dalla repressione.
Nel dicembre 2011 a Zhanaozen la polizia apre il fuoco contro gli operai del settore petrolifero in sciopero da mesi per ottenere salari e condizioni di lavoro migliori. Sedici i morti e centinaia i feriti, a cui viene fatta seguire una dura repressione contro tutti i movimenti di opposizione.
Anche in un paese petrolifero che ha le risorse per comprare la pace sociale non mancano le tensioni. Anzi, gli “appetiti” che l’oro nero scatena diventano spesso fattori di accellerazione degli scontri sociali. Per gli oppressi si tratta allora non di accodarsi al carro del politico borghese di turno – sia esso un sincero liberale o un boiardo riciclato – ma di inserirsi in queste tensioni ed usarle come arma contro ogni forma di regime borghese: sia esso fondato su un sistema a partito unico, sul dominio personale o sul ricambio politico ai vertici.
Questi proletari, sempre più numerosi e combattivi, sono i nostri “naturali” alleati. I comunisti devono collaborare con loro e con le avanguardie politiche che esprimono, denunciando innanzitutto le complicità, le “malefatte” e le “furbizie” dell’imperialismo di casa propria e facendo causa comune coi proletari stranieri che ogni giorno rischiano di essere espulsi senza clamori né dibattiti politici.
COMBAT – Comunisti per l’Organizzazione di Classe