Ad Aleppo, una delle più antiche città del mondo abitata ininterrottamente dall’antichità da una variegata popolazione composta da arabi, armeni, curdi, circassi e turchi, dichiarata dall’Unesco “Patrimonio dell’Umanità”, dal 2006 “Capitale culturale del mondo islamico”, è in atto una “totale catastrofe umanitaria”, come denuncia un portavoce dell’Osservatorio per diritti umani dell’Onu.
Secondo l’Onu vi sarebbero 100.000 persone senza cibo e medicinali bloccate in un’area sempre più ristretta ancora sotto il controllo delle truppe anti-Assad, 100 bambini rimasti soli sono intrappolati in un edificio pesantemente bombardato.
Nella “battaglia di Aleppo”, quella che viene definita l’ultima battaglia della guerra civile siriana che infuria da cinque anni, da metà novembre sarebbero morti almeno 463 civili nella parte orientale e altre 130 in quella occidentale; nella sola giornata dello scorso 12 dicembre sono stati uccisi 82 civili, compresi 13 bambini e 11 donne, dalle forze del presidente Bashar al-Assad e dei suoi alleati russi, iraniani e Hezbollah libanese, che si sono riprese i quartieri di Bustan al-Qasr, al-Kalleseh, al-Firdous e al-Salheen. Li hanno massacrati nelle loro case, oppure li hanno catturati e uccisi mentre fuggivano. Si calcola che dall’inizio del conflitto le vittime in Siria siano quasi 400mila, e sia sfollata oltre metà della popolazione.
Una orribile carneficina, dove i cadaveri rimangono abbandonati tra i rifiuti, molti sopravvissuti ai bombardamenti si trovano sotto le macerie, altri feriti giacciono per terra, altri ancora vagano disperati per le strade senza trovare un rifugio o il modo di fuggire.
Decine di uomini che cercavano di abbandonare i quartieri orientali sono stati catturati e costretti a combattere con l’esercito siriano.
Le tregue umanitarie – spesso disattese per violazioni continue da ambo le parti – si alternano agli infruttuosi tentativi di ripresa del dialogo bilaterale. Il governo di Assad e i ribelli si accusano a vicenda di non aver rispettato gli accordi di cessate il fuoco.
Il consigliere speciale Onu per la Siria, Jan Egeland, ha lanciato un avvertimento: i responsabili saranno incriminati per questo bagno di sangue.
Da chi? Dai tribunali dell’Onu, foglia di fico delle grandi potenze che lo hanno cinicamente alimentato per procura con finanziamenti, istruttori, armi, ma anche con l’intervento militare diretto? Oppure da quelli dei governi regionali intervenuti nella guerra civile siriana a fianco dei grandi predoni per perseguire i propri interessi nazionali?
Le cifre su massacri e sfollati, come in tutti i conflitti del capitalismo, sono usati dai media delle diverse potenze come strumento di una cinica battaglia tra le parti. C’è chi enfatizza i crimini commessi dallo schieramento Russia-Assad-Iran e chi invece sottolinea quelli di Usa e alleati, paesi arabi compresi, e delle fazioni ribelli. Per noi comunisti ognuna delle vittime della guerra costituisce la denuncia più clamorosa dell’inumanità di questo sistema sociale che accomuna tutte le forze in campo, e rafforza in noi la convinzione della necessità del suo abbattimento.
Russia e regime siriano stanno avendo il sopravvento. Dopo l’offensiva a tutto campo con artiglieria pesante e bombardamenti aerei lanciata lo scorso mese per riconquistare Aleppo, si sarebbero ripresi il 98% di Aleppo Est, in mano all’opposizione, e già si prospetta la stessa sorte di Aleppo per altre città tenute dall’opposizione, come Douma, Raqqa, Idlib, e continueranno le atrocità e le violenze contro i civili. Le truppe governative sono avanzate anche nella regione attorno alla capitale, Damasco.
La Turchia, che fino a pochi mesi fa appoggiava i ribelli, dopo essersi riavvicinata a Mosca cerca di accrescere la pressione su di essa per un cessate il fuoco. In realtà Ankara vuole negoziare il “dopo Aleppo”, il futuro assetto della Siria, in particolare avere mano libera contro i curdi nei territori di confine con la Turchia.
Ma la guerra civile è ben lontana dall’essere terminata, sta solo per entrare nella sua fase finale, secondo il think tank americano Stratfor (13 dic. 2016). Perché il regime non ha sufficiente “carne da cannone”, dopo anni di caduti, di diserzioni e defezioni, e faticherà non solo a conquistare nuovo terreno ma anche a tenere quello riconquistato.
Non appena il regime si sarà ripreso il potere, l’alleata Russia cercherà di liberarsi al più presto dal conflitto militare, pur mantenendo la propria influenza in Siria da usare nelle contrattazioni con gli Stati Uniti.
A indebolire il fronte filo-Assad ci sono anche le divergenze venute alla luce nella riconquista di Aleppo tra la Russia e l’Iran, il secondo alleato di peso del regime siriano.
Infine le difficoltà economiche a seguito delle distruzioni belliche. Una recente batosta è la ripresa di Palmyra da parte dello Stato Islamico. Oltre al significato simbolico per l’importanza del sito archeologico, questa vittoria ha permesso ad IS di sottrarre al regime la maggior parte dei giacimenti petroliferi rimasti. L’indebolimento economico non fa che accrescere la dipendenza di Damasco dai suoi protettori stranieri, in particolare dall’Iran. E questo rianima lo scontro tra le potenze per la supremazia nella regione. Un circolo vizioso senza una prevedibile conclusione definitiva.
Un fattore che potrebbe far prospettare una recrudescenza del conflitto mediorientale è la politica estera del nuovo presidente americano, Donald Trump. Se gli Stati Uniti concordassero con la Russia di diminuire il sostegno ai ribelli siriani, questo rafforzerebbe il regime di Assad, e assieme a lui la posizione dell’alleato iraniano. Turchia e Arabia Saudita potrebbero rispondere intensificando il loro impegno e aggravando così ulteriormente le tensioni etnico-settarie con l’Iran.
Abbiamo brevemente tratteggiato gli orrori della guerra in Siria, e la strada senza via d’uscita percorsa da potenze capitalistiche grandi e medie in questa contesa. La via d’uscita è al di fuori e contro il sistema sociale della borghesia, come pure contro i suoi organismi di mediazione internazionali, come l’Onu. L’unica forza in grado di intraprendere questa via è quella delle organizzazioni comuniste operaie dei paesi dell’area, che come tali non obbediscono a logiche etnico-settarie e non si pongono l’obiettivo di rafforzare le rispettive borghesie nazionali, ma di combatterle nella prospettiva di una società umana, del vero “Patrimonio dell’Umanità.
Da parte nostra, noi comunisti italiani, cerchiamo di indebolire il fronte borghese, denunciando e combattendo gli interessi che l’imperialismo italiano persegue anche militarmente in Medio Oriente, Irak in particolare, nascondendoli sotto la parola d’ordine di lotta al terrorismo.