Non
c’è pace in Afghanistan, dall’occupazione russa del 1980 ad oggi. Scosso da
cinque anni di scontri dopo l’occupazione americana nel 2001, il paese continua
a vivere all’insegna del lutto e delle devastazioni. Lunga è la conta dei
morti. Secondo Peace Reporter, 14.000 afgani sarebbero caduti nel 2001, in
seguito all’invasione Nato. A queste vittime, vanno aggiunti i 20.000 civili
morti nei mesi successivi alla fine del conflitto per malattie e fame. Più,
ancora, altri 5.000 sarebbero stati uccisi in combattimenti e attentati, in tre
anni di “dopoguerra”. Solo nel 2005, gli scontri in Afghanistan sono costati la
vita a 1.900 persone: 1047 talebani, 415 militari afgani, 321 civili afgani, 97
soldati statunitensi, 17 spagnoli, 15 tedeschi, 5 britannici, 4 canadesi, 3
italiani, 3 francesi, un danese, uno svedese, un australiano, un rumeno, un
norvegese, e un portoghese. Nel 2006 i morti sarebbero già quasi triplicati a
5.372, di cui 955 civili, 3.006 combattenti talebani, 1.158 militari afgani, 36
miliziani irregolari e 172 soldati della Coalizione. Tanto è costata
l’operazione “Enduring Freedom”: il totale, finora, è di circa 50.000 morti. E
la libertà? Era lei che doveva giungere – grottescamente – al seguito delle bombe
Nato. Inutile dire che non è arrivata. In compenso, è arrivato qualcos’altro:
il boom degli oppiacei, per esempio.Secondo
Unodc (un ufficio dell’ONU contro droga e criminalità), in Afghanistan viene
prodotto il 90% dell’oppio mondiale. A suo tempo, George W. Bush aveva
promesso: «Libereremo il Paese da questo fardello»… Oggi, ben un terzo del
Pil afgano deriva dal traffico d’oppio. Il giro d’affari è di circa 2,6
miliardi di dollari, e non accenna a diminuire. Tutt’altro: dopo una lunga
sequela di annate stagnanti, la produzione è aumentata nel 2006 del 49%, per un
totale di 6.100 tonnellate prodotte. In netta crescita (+60%) anche le aree
dedicate alla coltura. Oggi, ben 165.000 ettari di territorio afgano sono
coltivati a oppio. «Dopo il raccolto, le sostanze vengono esportate, e vendute
all’estero – spiega Doris Buddenberg, rappresentante a Kabul dell’Unodc. E
soprattutto in Italia, Germania, Spagna, Inghilterra, Pakistan e Iran. Gran
parte del ricavato (circa il 75%) finisce nelle tasche dei grandi trafficanti.
I contadini afgani devono accontentarsi delle briciole».
Ufficialmente,
sia Kabul, che l’Onu, che la Nato hanno sempre osteggiato il proliferare
dell’oppio. Addirittura, appena fu eletto presidente, nel 2004, Karzai dichiarò
una «jihad contro il papavero». «Quella pianta – disse – è per noi più
pericolosa del terrorismo stesso». Anche la Nato si impegnò in operazioni di
bonifica del territorio: ma i risultati non arrivarono.
Secondo
Unodc, alle radici di tali insuccessi vi sarebbe un unico fattore: la
corruzione. «La maggior parte dei capi della polizia afgana sono coinvolti nei
traffici – ha dichiarato un ufficiale delle forze dell’ordine locali –. Restare
estraneo a tutto ciò è praticamente impossibile: chi non sta al gioco rischia
la morte». Grandi responsabilità graverebbero, nello specifico, sui titolari
del ministero dell’Interno di Kabul, che controlla le forze di polizia. «A
volte, c’è chi prova a intervenire – racconta Barnett Rubin, direttore del
Centro di cooperazione internazionale dell’Università di New York –. Poi, però,
a costoro giunge, immancabile, una telefonata da Kabul. Gli viene ordinato di
non immischiarsi. I più decidono saggiamente di obbedire».
Evidentemente,
il fenomeno-corruzione non riguarda però solo il governo “democratico” di
Karzai. Spiega Antonio Maria Costa, direttore esecutivo di Onudc: «Ultimamente,
i centri della coltivazione dell’oppio si sono trasferiti verso le più fertili
province a nord ovest del paese. Sarà un caso, ma è proprio lì che si trova
stanziato il grosso delle truppe Nato (compreso il contingente italiano, che ha
sede a Herat, ndr)». Dunque – aggiungiamo noi – è proprio sotto gli occhi dei
nostri “portatori di pace” che ha avuto luogo il boom produttivo dell’oppio,
nel corso degli ultimi 12 mesi. La contraddizione è palese e imbarazzante,
tanto che lo stesso Costa non può esimersi dal riconoscerlo. «Lancio un appello
– tuona il funzionario – affinché le forze Nato siano maggiormente coinvolte
nella lotta ai narcotici». Leggere tra le righe non è cosa ardua. Le
responsabilità più grandi, ad ogni modo, sembrano gravare sul corpo di
spedizione inglese, che si trova acquartierato nella provincia di Helmand:
laddove, cioè, viene prodotto ben un terzo dell’oppio afgano. «Solo conseguendo
un successo in quell’area, potremo sperare di vincere la nostra guerra contro i
produttori di droga – scrive Rachel Morarjee sul Financial Times -. Purtroppo,
fino ad oggi, ogni tentativo si è risolto in un assoluto disastro». Secondo gli
ufficiali Usa, per buona parte delle coltivazioni verrebbero sfruttati,
addirittura, campi di proprietà del governo. «Mi è stato detto che, solo nella
provincia di Helmand, esistono 10.000 ettari di terreni statali coltivati a
oppio», racconta Morarjee.
Da
marxisti sappiamo che chi ha il denaro ha anche i mezzi per comperare i
politici (ancor meglio nella democrazia). In Afghanistan, un nutrito strato
della borghesia nazionale basa i propri profitti sulla produzione e sul
commercio degli oppiacei: è ovvio che il governo Karzai debba fare i conti
anche con costoro. Corruzione e lassismo sono frutto di questa situazione. Le
evidenti collusioni tra amministrazione statale e trafficanti (che, non
dimentichiamolo, detengono un terzo del Pil nazionale) sono dovute
principalmente a questo.
E le truppe NATO, italiane incluse, sono lì a sostenere questo governo. «Noi non
possiamo andarcene – ha, ad esempio, detto pochi giorni fa Massimo D’Alema, in
visita a Kabul -. Continueremo ad aiutare questo paese». L’ipocrisia con la
quale si nascondono gli interessi imperialistici non ha pudore.
L’inasprimento
della guerra e l’aumento dei caduti anche tra le truppe occupanti comincia a
generare risentimenti e riflessioni anche al loro interno. «Noi siamo la carne
da macello dell’Alleanza atlantica», hanno confidato a Peace Reporter alcuni
militari inglesi. E ancora: «Quella che ci viene quotidianamente richiesta, è
una vera propria missione suicida». Di estrazione proletaria, spesso spinti
verso l’arruolamento dalla mancanza di alternative e da false promesse, i
soldati occidentali sono anch’essi vittime di questa guerra imperialista. Così
come lo sono indirettamente anche i ragazzi di tutte le periferie, europee ed
americane, nella cui ricerca di un’illusoria via d’uscita dalle alienazioni
prodotte da questa società che tutto mercifica i trafficanti di droga hanno
creato un mercato per i loro affari. Secondo Unodc, nel mondo sono 16 milioni
le persone che fanno uso di oppiacei. Di queste, ben 11 milioni sono dipendenti
dall’eroina. “Enduring Freedom”, “libertà duratura” suona come un’amara ironia
anche per questi schiavi dei trafficanti cresciuti all’ombra delle truppe NATO.
Del resto nell’800 l’Inghilterra mosse guerra alla Cina per imporle il suo
smercio dell’oppio. Ben diecimila sono i decessi annui per overdose, nei soli
paesi europei. Pure i loro nomi vanno iscritti, insieme a quelli dei 5 mila
afgani, nell’elenco delle vittime di questa società basata sul profitto e sulla
rapina imperialista.
L’imperialismo italiano, con circa 2 mila militari in
Afghanistan, è tra i responsabili di questo stato di cose.
In
questi fatti c’è una ragione in più per portare avanti la battaglia per il
ritiro delle truppe italiane da tutte le missioni
militari!