Quello appena trascorso è stato un anno sicuramente importante per l’imperialismo continentale. Ha retto agli scossoni dei mercati finanziari, ma il “tasso di federalismo” rimane confinato al magro 1% del PIL del Bilancio UE (contro il 20% di quello federale USA), mentre la crisi del Sud Europa risucchia anche la locomotiva tedesca, cosicché l’apparato produttivo europeo perde colpi non solo nei confronti dei paesi emergenti, ma anche degli Stati Uniti.
In estate e poi in autunno si è provato a mettere a punto il meccanismo del “Fondo Salva Stati”, gestito direttamente dalla BCE, oltre al progetto eurobond.
Lo imponeva una situazione a dir poco esplosiva sul terreno finanziario, in cui la questione dei “Debiti Sovrani” la fa da padrone, convogliando certamente energie verso una risposta “unitaria” della borghesia europea aggrappata all’euro; ma scatenando in contemporanea forze centrifughe non riconducibili neppure ai soli PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).
Ne esce fuori un quadro decisamente assai “scomposto” dell’imperialismo continentale, ribadito anche nella recente guerra del Mali, dove “vecchie” potenze ex coloniali come Francia e Regno Unito si ri-proiettano nel continente africano, spostando verso il centro di esso quel peso politico-militare ben sperimentato nella guerra di Libia.
Ci sono da difendere certamente interessi economici (potenziati) mai scomparsi.
Ma è estremamente interessante che ciò avvenga “sganciandosi” dalla tutela tedesca e mettendosi in gioco su un altro scenario di competizione imperialista rispetto a quello europeo, aperto ai venti ed alle tempeste di potenze emergenti come la Cina ed al “ritorno” di potenze, in realtà mai scomparse, come la Russia.
Se, come probabile, la guerra africana, le guerre africane, dovessero estendersi e radicalizzarsi, diventando dei replay afghani nel Continente Nero, la contesa imperialista potrebbe fare leva su di esse anche per ridefinire i rapporti di forza in Europa e nel mondo.
Con conseguenze che si possono facilmente intuire, perlomeno nel campo di quelli che non si sono mai lasciati abbindolare dalle chiacchiere sull’ONU e sulla “pacifica convivenza” tra Stati. Tale accelerazione imperialista aumenterebbe esponenzialmente le tensioni economiche, politiche e sociali, creando però dialetticamente anche i presupposti dai quali le classi oppresse africane, che lo sviluppo capitalistico in corso trasforma sempre più in proletariato moderno, potrebbero muovere per superare le attuali, devastanti divisioni religiose, etniche e tribali, zavorra sulla quale fanno leva gli imperialismi.
Il “nostro” imperialismo, quello italiano, permane in una situazione di minorità, che non vuol dire inazione, passività.
Le “cure” del professor Monti hanno certamente tenuto agganciato il carro della borghesia italiana alla locomotiva tedesca ed all’euro. Per questo si è passati coi bulldozer sulle teste di milioni di proletari, pensionati, giovani. Ma ciò non è bastato, non può bastare a far riprendere vigore ad un imperialismo “combattuto” tra la sponda anglo-francese e quella tedesca. Attirato dai vantaggi di una linea diretta con Berlino (1° paese per l’export italiano), ma contemporaneamente stuzzicato dalla possibilità di giocare da protagonista una nuova partita africana. Lo esprime chiaramente il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura («Corriere della Sera», 16 gennaio 2013) quando invita a ripensare il nostro impegno nella guerra del Mali e … dintorni, elogiando la “missione” di Romano Prodi in Africa, inviato speciale delle Nazioni Unite per il Sahel. “Sarà lui l’uomo chiave – commenta De Mistura – perché dopo i militari subentrerà il momento politico, quando bisognerà ristabilire il dialogo e ricostruire il Paese.”
Ma ai “pruriti” africani si sommano le incognite di una instabilità finanziaria che fa da acceleratore alla crisi del capitalismo, la quale investe appieno il continente europeo. Gli “avventurismi” finanziari legati alla prospettiva della centralizzazione del capitale bancario ed al “gioco d’azzardo” borsistico sull’euforia della moneta unica europea, portano a galla oggi i loro frutti avvelenati. La vicenda del Monte dei Paschi, tanto per stare all’attualità, porta con sé un potenziale di destabilizzazione economica e pure politica di cui riusciamo solo ad intravedere i primi segnali. Il PD è nella bufera, travolto da una lotta “esterna” ed “interna” assai aspra e dagli esiti incerti. Dentro un quadro di crisi del “bipolarismo” della “Seconda Repubblica”, dovuto all’ingresso nella contesa elettorale di Mario Monti e del suo tentativo di aggregazione “centrista”. Berlusconi, che sembrava inizialmente tagliato fuori, sta cercando la rimonta “populista” puntando sull’anti- germanismo, sul fisco, e sull’ampia platea degli evasori fiscali e trasgressori delle norme urbanistiche, coadiuvato dal “macroregionalismo” leghista. Gli fa da pendant il populismo pseudo-eversivo del grillismo, che piazza un impossibile capitalismo “pulito”, senza sfruttamento e corruzione, e la democrazia dal basso mentre pratica il centralismo personale. L’arma delle “mani pulite”, già depotenziata nel comune sentire, sta diventando sempre di più spuntata nelle mani del centrosinistra, non meno invischiato in corruttele e ruberie di quanto lo siano i suoi concorrenti, tutti comunque ricompattati dal parassitismo imperialista. A poco serviranno le raffazzonate aggregazioni schedaiole di “moralità civica” e di “democrazia informatica”, se non ad evidenziare ancora di più lo squilibrio italiano, la latente crisi politica che ci ha portato ad una riedizione dei “governi tecnici”.
Certo, pagano sempre e comunque i lavoratori, lo sappiamo.
Lavoratori che non possono, né mai potranno entrare come componente di una impossibile “sintesi” tra capitale e lavoro.
Questa verità scientifica che il marxismo ha per sempre scolpito nella dinamica storica della lotta tra le classi oggi non ha bisogno di ulteriori verifiche. Parlano da sole le continue manovre che ogni governo ha fatto e farà per puntellare una società caotica e squilibrata, impossibilitata a garantire un bel nulla, sopratutto a quei giovani ai quali si rivolge con ipocrisia. Ma molti miti dovranno ancora essere sfatati, nella teoria come nella pratica. A cominciare da quello che vede contrapporre la “produzione buona” alla “finanza cattiva”, la “ proprietà pubblica buona” contro quella privata “cattiva”, l’illusione che la “crescita” porti con sé lo “sviluppo dell’occupazione”, il tutto dentro i rapporti di produzione capitalistici.
E ciononostante, ora si scopre che “il piccolo non è più bello”, dal momento che le stesse fonti padronali picchiano il tasto della “dimensione d’impresa”: media di 3,5 addetti in Italia contro i 13 della Germania … Se fossimo a quei livelli, si dice, avremmo il 40% di produttività in più. Ed i salari italiani negli ultimi tre anni hanno avuto un aumento lordo del 4,5%, mentre i prezzi sono saliti dell’8% (dati Isrf-Lab, ex Ires-Cgil). Mentre aumenta, stando pur sempre dentro il recinto di quelli che il lavoro ce l’hanno, il divario tra categorie, tra tipologie contrattuali, tra lavoratori della stessa azienda. E questo grazie anche alla collusione tra sindacati (confederali, ma non solo), padroni e governo.
Non a caso nell’autunno scorso è stato firmato uno scellerato, ennesimo, “Patto sulla Produttività”, che cancella di fatto il CCNL e mette al centro della “contrattazione” l’aziendalismo. Cioè la frantumazione operaia, la concorrenza, la “competizione” tra lavoratori. E la Cgil, che per ora non ha firmato (in attesa del governo del capocordata?), non può spacciare ai lavoratori che tutto questo è stato preparato, per non andare troppo indietro, nel giugno del 2011, quando la stessa Camusso era andata a popolare la barca del “manifesto di Confindustria” e delle altre Associazioni “datoriali” per “uscire dalla crisi”, togliendo di mezzo Berlusconi-Tremonti. E questo “manifesto” viene riproposto ed arricchito da Giorgio Squinzi, aggiungendovi un aumento tassativo di 40 ore lavorative all’anno, per … rilanciare il manifatturiero italiano! Una soluzione “trasversale” alle dimensioni d’impresa, un salvare capra e cavoli che punta sul prolungamento dell’orario di lavoro come fattore di competitività.
Unica controtendenza al dilagare delle opzioni borghesi in tutti i gangli della vita sociale rimangono per ora le lotte dei lavoratori migranti nelle logistiche del Nord e del Centro, dirette da un sindacato conseguentemente classista come il SI-Cobas, e qualche tentativo di aggregazione operaia in “comitati di lotta autorganizzati” (il “Comitato” dell’Ilva di Taranto, iniziative a Roma e a Napoli, soprattutto nel settore dei ferrovieri e dei trasporti, e in altre realtà locali). Per il resto si susseguono tentativi di “resistenza” per nulla collegati tra loro, in preda all’isolamento ed alla confusione, pronti ad essere svenduti dopo i soliti “iter” sindacal-istituzionali.
Si impone un’accelerazione verso organizzazioni di classe che alzino lo sguardo da una visione limitata e frustrante dei problemi operai, coordinandosi e collegandosi fattivamente per alzare il livello delle lotte stesse e per far sì che da esse escano dei quadri di lotta, dei comunisti.
In questo periodo di elezioni, un passaggio per noi imprescindibile verso l’aggregazione politica comunista è la scelta astensionista che dobbiamo propagandare ed agitare tra i proletari, di ogni età e condizione.
Astensionismo non di “protesta”, non di “recupero”, non di “disimpegno”, ma di lotta e di organizzazione per raccogliere le forze in grado di abbattere il capitalismo.
Un astensionismo cosciente, che dia indicazioni di impegno per organizzare i proletari occupati e non; per indirizzare la loro lotta contro questo marcio sistema di sfruttamento, corruzione e parassitismo, che fa della “delega” uno spot per riprodurre i suoi meccanismi di miseria e di morte.
Un astensionismo comunista, cosciente che “La classe operaia, liberando sè stessa, libera tutta l’umanità” (K. Marx)
[da ‘PagineMarxiste’ n°32 febbraio ’13]