Accordo per i metalmeccanici – Ora cambiamo i contratti

Accordo per i metalmeccanici

I metalmeccanici hanno finalmente il contratto; e lo hanno con la firma
del sindacato più forte del settore, cosa che non accadeva da sei anni. La
soddisfazione per questa svolta importante, raggiunta dopo una fase finale di
tensione al calor bianco, non deve, però, far dimenticare i problemi che
restano aperti. Innanzitutto quello dei nove milioni di lavoratori che il
contratto, il sindacato, il diritto del lavoro, li vedono solo di lontano o non
li vedono affatto.
Il secondo
– ma in realtà è un’altra faccia del primo – è il problema
del riassetto del sistema della contrattazione collettiva, e in particolare del
ruolo del contratto nazionale in seno al sistema.
In un suo articolo dell’altro ieri su Repubblica Eugenio Scalfari esprime
molto bene, facendola propria, la preoccupazione che tiene tanta parte della
nostra sinistra aggrappata al vecchio strumento del contratto collettivo
nazionale. L’idea, ancora oggi, è che quel «testo unico» negoziato a Roma ogni
due o tre anni, inderogabile per l’intero settore produttivo interessato,
costituisca la migliore garanzia di uguaglianza di trattamento per tutti i
lavoratori, il migliore strumento della solidarietà tra i più forti e i più
deboli, il migliore argine contro il diffondersi dei sindacati aziendali di
comodo. In questa ottica, la difesa del contratto nazionale fa tutt’uno con la
difesa dell’intero impianto del nostro vecchio diritto sindacale e del lavoro.
Quello che Scalfari, con tanta parte della nostra sinistra, non
considera è che quel diritto del lavoro, nei fatti, oggi ormai copre soltanto
metà dei lavoratori suoi naturali destinatari: ne beneficiano, precisamente,
5,8 milioni di lavoratori di aziende con più di 15 dipendenti (nelle quali si
applicano i diritti sindacali e l’articolo 18 dello Statuto del 1970 contro i
licenziamenti) e 3,6 milioni di dipendenti pubblici. Gli altri sono 3 milioni
di dipendenti di aziende che non superano la fatidica soglia dei 15, circa
altrettanti lavoratori dell’economia sommersa, da uno a due milioni di falsi
collaboratori autonomi, un milione di disoccupati permanenti
. Di quest’altra metà della
forza-lavoro italiana non si occupa nessuno: non il sindacato, che la
rappresenta pochissimo; non i giudici del lavoro, che non se la vedono quasi
mai comparire davanti; non gli ispettori del lavoro, che chiudono uno o
entrambi gli occhi per non dover chiudere intere aziende e mandare a casa
schiere di persone.
Se metà del tessuto produttivo del Sud non può sostenere lo standard fissato a
Roma, si lascia che quella metà vegeti per decenni nella palude indecente del
lavoro irregolare. È questa l’uguaglianza garantita dal contratto nazionale? Al
Centro Nord, se qualche altro milione di posizioni di lavoro non regge quello
standard, si accetta serenamente che esse siano occupate, fuori standard, dai
co.co.co., dai «lavoratori a progetto» o dai dipendenti di cooperative più o
meno genuine e altre piccole imprese appaltatrici dei servizi più ingrati.
Dov’è la solidarietà tra lavoratori forti e deboli di cui parla Scalfari?
Di un contratto collettivo nazionale, beninteso, c’è ancora bisogno in un
Paese nel quale più di due terzi del tessuto produttivo non conosce la
contrattazione collettiva aziendale, oppure vede i lavoratori in posizione di
grande debolezza. Ma l’infinita varietà delle situazioni, la necessità di
recuperare alla legalità vaste zone del tessuto produttivo, l’esigenza diffusa
di adattare le forme del rapporto di lavoro a un’innovazione tecnologica sempre
più incalzante e imprevedibile, tutto questo richiede che al sindacato
periferico
– quando esso abbia i necessari requisiti di rappresentatività –
sia attribuito il potere pieno di negoziare anche discipline e standard
diversi
. Il sindacato deve poter svolgere fino in fondo la sua funzione di
«intelligenza collettiva» dei lavoratori, capace di valutare la bontà di un
progetto e l’affidabilità di chi lo propone, e, se la valutazione è positiva,
capace di scommettere su quel progetto insieme all’imprenditore; anche se
questa scommessa richiede di battere vie nuove e sconosciute.
Si obietta che, quando il contratto nazionale non fosse più inderogabile,
verrebbe meno qualsiasi garanzia minima per i lavoratori; ma di quale garanzia
minima gode, oggi, la metà debole della forza-lavoro? Viceversa, quando la
deroga fosse condizionata alla contrattazione regionale o aziendale con un
sindacato serio e adeguatamente rappresentativo, proprio questo vincolo
costituirebbe la garanzia più efficace
. La flessibilità della disciplina
consentirebbe di essere più rigorosi nella sua applicazione e al tempo stesso
favorirebbe la diffusione capillare del sindacato più capace di interpretare le
esigenze specifiche in ciascuna situazione concreta.
L’idea che Scalfari difende è ancora, a ben vedere, l’idea-forza che ha animato
la Cgil fin dal primo dopoguerra: il contratto nazionale come espressione e
garanzia esclusiva dell’unità della classe operaia. Ma proprio questa idea
portò la Cgil a una clamorosa sconfitta nelle elezioni per le commissioni
interne del 1955, in tutte le grandi fabbriche del Centro Nord; quelle elezioni
le stravinse la Cisl, che, reduce dalla «svolta» del convegno di Ladispoli del
1953, si era presentata ai lavoratori come il sindacato capace di riportare la
contrattazione in fabbrica.
Oggi la proposta – duramente criticata da Scalfari – è di affidare al
contratto nazionale la funzione di «disciplina di default », di «rete di
sicurezza» di ultima istanza: continuare, cioè, a dargli applicazione generale,
ma solo fin dove e quando un sindacato serio e rappresentativo non abbia
negoziato una disciplina diversa al livello aziendale o regionale. A questa
proposta non si oppongono solo i dirigenti nazionali della Cgil, seguiti da una
parte di quelli di Cisl e Uil: vi si oppongono anche quelli di Confindustria
.
E lo si può ben capire: l’imprenditore che applica disciplinatamente il
contratto nazionale dorme sonni più tranquilli se non corre il rischio che
nell’impresa concorrente si sperimentino forme nuove di organizzazione del
lavoro, degli orari, di inquadramento professionale, di incentivazione.
Il problema è che la concorrenza oggi non viene più soltanto dall’area coperta
dal nostro contratto collettivo nazionale
. Oggi, la sicurezza non va più
cercata nel sonnacchioso torpore imposto e protetto dal «testo unico»
nazionale, oltretutto vecchio di trent’anni in nove decimi dei suoi contenuti, quanto
piuttosto nella capacità di aprirsi all’innovazione di processo e di prodotto,
sperimentando modelli nuovi di rapporto di lavoro e di relazioni sindacali in
azienda, anche in competizione tra loro
.

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