Dopo una settimana sta tornando la calma nella periferia meridionale di Stoccolma.
Iniziati domenica 19 maggio a seguito dell’uccisione da parte della polizia di un uomo armato di machete, gli scontri hanno una modalità molto simile a quelli scoppiati nel 2011 a Londra o nel 2005 a Parigi, seppure su una scala molto più ridotta: incendi diffusi, attacchi improvvisi alla polizia, ampia partecipazione di giovani e giovanissimi immigrati (di prima o seconda generazione) ma anche di autoctoni.
Gli scontri sono iniziati nel sobborgo di Husby, uno dei più poveri della città, abitato all’80% da immigrati e con alta percentuale di disoccupati, per poi manifestarsi in modo sporadico anche fuori dalla capitale. Queste due caratteristiche – immigrazione e disoccupazione – richiamano le cause principali della rivolta.
Nell’ultimo decennio il paese simbolo del welfare-state ha visto una notevole crescita del divario sociale: il governo di centro-destra ha pesantemente ridimensionato il leggendario stato sociale svedese, ma soprattutto la disoccupazione è salita all’8%. In questo dato medio si condensano le disegualianze svedesi: mentre fra gli autoctoni la disoccupazione si attesta al 6%, fra chi è nato all’estero arriva al 16% (cifre OCSE); se al di sopra dei 24 anni è al 6%, per i più giovani è al 24% (cifre UNRIC: United Nations Regional Information Centre).
In un’Europa dove la disoccupazione giovanile è al 20,9%, la Svezia non è certo il paese più sfortunato, soprattutto rispetto al 46,4% della Spagna, il 44,4% della Grecia, il 30,1% del Portogallo (cifre Eurostat di gennaio 2013). Ma non per questo il problema è da sottovalutare, tanto che l’agenzia nazionale per l’impiego EURES ha avuto la buona pensata di invitare i giovani svedesi ad andare a farsi assumere per impieghi estivi nel settore turistico … dell’Europa meridionale: Grecia, Spagna… (viene da chiedersi: chi assume i responsabili dell’EURES?).
Particolarmente colpiti sono gli immigrati, che dopo il forte aumento degli ingressi ultimi 10 anni sono oggi il 15% degli abitanti (la percentuale più alta in Europa: in Germania sono il 12,3%, in Gran Bretagna 8,9% in Francia 10,2%, in Italia 7,5% (al 1° genn. 2011), negli Usa il 12,8%). Fra loro molti i richiedenti asilo: 43.900 nel 2012 su 103.000 immigrati, con un aumento del 50% rispetto al 2011. Molti anche i provenienti dall’Unione Europea, seppure solo circa un terzo del totale.
Ma l’ingresso nel paese e l’accesso al suo stato sociale non ha evitato la formazione di sacche di esclusione sociale fatte di giovani e giovanissimi immigrati. Chi viene dall’estero non solo ha sempre più difficoltà a trovare lavoro, ma è spesso oggetto di discriminazioni da parte delle forze di polizia.
Gli scontri di questi giorni hanno rilanciato il dibattito sulla politica svedese dell’immigrazione, già oggetto di forti divisioni. Se da un lato la maggioranza degli svedesi è ancora favorevole alla politica dell’accoglienza, gli ultimi anni hanno visto la forte crescita dei Democratici Svedesi, partito di estrema destra anti-islamico e anti-immigrazione che alle elezioni del 2010 è entrato in parlamento col 5,7% dei voti. Per il ministro per l’immigrazione Tobias Billström per la Svezia non è più sostenibile essere la prima nazione europea per immigrazione.
Per anni gli immigrati sono stati un punto forte della Svezia: hanno rappresentato un efficacissimo antidoto all’invecchiamento della popolazione (il tasso di natalità svedese è 1,9 figli per donna contro l’1,4 di Germania e Italia), nei periodi di espansione economica hanno ingrassato le casse della previdenza e fornito manodopera. Oggi che la crisi economica dal Mediterraneo si estende fino al circolo polare artico, vengono considerati come un peso. E’ la logica conseguenza del capitalismo, che concepisce i lavoratori solo come uno strumento per produrre profitto, da usare quando è utile e di cui disfarsi quando non serve più. E’ una modalità che colpisce chiunque, in ogni nazione.
Se per le periferie di Stoccolma il problema immediato è l’esclusione sociale, per tutto il mondo la causa di ogni problema sociale è il sistema capitalista, dove per chi non ha mezzi di produzione propri la scelta è fra essere escluso ed essere sfruttato.
L’attuale crisi economica da un lato erode sempre più le risorse impiegate dagli Stati per lenire i problemi sociali, dall’altro accentua le disuguaglianze. La borghesia ha generalmente governato le tensioni mettendo gli sfruttati gli uni contro gli altri o per lo meno tenendoli separati per evitare che lotte diverse fra loro si unifichino. C’è chi ha un lavoro stabile, chi uno precario, chi neppure quello. C’è chi è disoccupato perché troppo istruito per il mercato del lavoro e chi invece lo è perché ha una bassa scolarizzazione.
Le crescenti tensioni sociali possono sfociare in una guerra fratricida fra lavoratori, oppure far nascere una lotta comune di tutti gli sfruttati.
Compito dei comunisti è partecipare alle lotte sia per favorirne l’unificazione, sia per far emergere una leva di militanti che porti all’abbattimento del capitalismo, unico modo efficace per eliminare ogni forma di sfruttamento ed esclusione sociale.
Combat – Comunisti per l’Organizzazione di Classe