L’ARGENTINA DI ONGANIA: I RETROTERRA DI UNA CRISI (6)

Pubblichiamo il sesto di una serie di articoli sulla recente storia dell’Argentina

I tentativi della borghesia argentina di mettere nell’angolo il peronismo – nel decennio che va dalla “Revolucìon Libertadora” dei militari (1955) ai governi “radicali” di Frondizi e Illia (1958-’66) – vanno rapportati al prevalere dei fattori internazionali sulla politica argentina. E’ una svolta importante, dopo l’”azzardo” tentato da Peròn di far assumere al paese un ruolo intercontinentale decisamente spropositato.

I fattori internazionali in questione investono in primo luogo la piena ripresa del capitalismo mondiale dopo la guerra. Ripresa in cui gli Stati Uniti svolgono il ruolo di potenza dominante. E nel Centro-Sud America, predominante.

Ciò non significa, però, che essi possano “tranquillamente” gestire una situazione di sommovimenti sociali e politici che in quel periodo investe molti paesi dell’area.

Rolo Diez (Op. cit.) fa un sommario elenco delle “guerre di Liberazione e guerriglie” che negli anni ‘60 coinvolgono l’America Latina: Venezuela, Perù, Guatemala, Brasile, Colombia, Cile, Nicaragua, Bolivia, Uruguay e, come vedremo, Argentina…La linea che emerge, pur nelle diversità sociali e politiche dei vari paesi, è sintetizzabile nel motto guevarista “dal piccolo “foco” al grande incendio”.

Cuba (1959) viene a costituire il punto di massima crisi politica del predominio USA in America Latina; proprio nel periodo in cui Washington cerca di coinvolgere il maggior numero di governi nel suo progetto di investimenti “Alleanza per il Progresso” (1961, vedi articolo precedente).

L’ anno prima un blocco di paesi Latino-Americani aveva stipulato l’ALAC (Associazione Latino-Americana del Libero Commercio): un segnale chiaro di come importanti borghesie nazionali, pur senza nettamente contrapporvisi, cerchino comunque di “svincolarsi” dal soffocante abbraccio dell’imperialismo yankee.

La borghesia argentina non è soddisfatta del dopo Peròn. Si è affidata ai militari col risultato di ritrovarsi il peronismo più forte e radicalizzato di prima. Un soggetto politico e sociale praticamente inestirpabile tra le masse lavoratrici. Tale da ostruire ogni opzione di “ricambio” istituzionale.

Preso atto di ciò, essa ha allora tentato, con l’UCR, l’aggancio “riformista” al ciclo di ripresa del capitale trainato dall’imperialismo USA; non mancando di “strizzare l’occhio” al presunto “autonomismo” delle borghesie nazionali del continente (Frondizi manifesta simpatie addirittura con Cuba).

Nulla da fare. Il sistema politico rimane ingovernabile e gli “investitori” ne traggono le dovute conseguenze.

J. E. Corradi (Op. cit.) parla del “colpo di grazia” nelle elezioni provinciali del 1962, dove i peronisti prendono 1/3 dei voti, conquistando 45 degli 86 seggi alla Camera dei deputati, e 10 dei 14 governatori. In più, come abbiamo accennato nella puntata precedente, si sviluppano “focos” di guerriglia nel Nord-Ovest del paese e pure scontri tra fazioni all’interno delle FFAA.

Tant’è che, prima della riproposizione di un governo radicale più “tradizionale” rappresentato da Arturo Humberto Illia (1963), il terreno viene saggiato da un nuovo golpe, condotto dal generale José Marìa Guido.

Spesa senza apprezzabili successi la carta Illia, il pallino ripassa ai militari, i quali – per mano del gen. Juan Carlos Onganìa – sbaraccano nuovamente la tavola del fragile equilibrio radical-democratico uscito dalla “Revolucìon Libertadora” (giugno 1966).

Onganìa: una nuova “rivoluzione”…

Da notare come in tali vicende il partito peronista non stia certo a guardare, ma si muova con una “spregiudicatezza” figlia dell’ideologia “giustizialista” del suo fondatore e foriera di numerosi (e tragici) sbandamenti che attraverseranno le lotte del proletariato argentino, nonché le formazioni politiche rivoluzionarie. Al nuovo putsch si arriva infatti con l’appoggio di gruppi anti-peronisti, ma anche di alcuni settori del peronismo “che preferiscono l’arbitrato dei militari all’arbitrato meno produttivo dello stesso Peròn.” (Corradi)

Viene sospesa la Costituzione “sine die”, destituito il potere esecutivo, sciolte le legislature provinciali, esautorata la Corte di Giustizia, tolti di mezzo i partiti politici e smantellate le istituzioni create da Peròn.

L’IAPI (Istituto per la Promozione degli Scambi) è abolito. Sono denazionalizzati i depositi bancari. Cessano i controlli sui cambi. Si tagliano i crediti alle piccole e medie imprese industriali. Il potere pubblico è subordinato ai comandanti delle tre Armi

Manco a dirlo, il nuovo affondo golpista dei militari assume la pomposa definizione di “Rivoluzione Argentina”, quando trattasi in realtà di una rabberciata riproposizione dello “Stato corporativo di destra” (con delle significative iniziative “liberiste” che vedremo), il quale compie le prime prove applicative della cosiddetta “Doctrina de Seguridad Nacional” (DSN), che potrà dispiegarsi appieno solo un decennio dopo, a seguito del Golpe del 1976.

Del resto, la linea dell’imperialismo USA è quella classica del bastone e della carota: investimenti, commerci e “sviluppo” condizionati ad un rigido “controllo” politico del “cortile di casa”…Nel ’64 i militari brasiliani conducono il loro Golpe, seguiti l’anno successivo da quelli di S. Domingo, sostenuti dall’invasione del paese da parte delle truppe statunitensi.

In Argentina il programma DSN (sponsorizzato da Washington) prevede l’instaurazione di una “comunidad organizada” tanto clerico-reazionaria in politica (i militari reclutano personale politico ostentatamente tra l’Opus Dei) quanto smaccatamente “liberista” in economia (si vuole “snazionalizzare” il paese). Per fare ciò non si esita a cercare appoggi tra l’oligarchia agraria, gli industriali, e pure in quel “potere sindacale” temporaneamente rivitalizzato dalla fase “radicale” di Frondizi e Illia.

La CGT infatti, pur mantenendo sempre la sua impronta peronista, non disdegna di assumere un ruolo “contrattuale” in proprio: al fine di mantenersi come apparato burocratico-statale, ma anche per venire a costituire un soggetto fondamentale nell’impalcatura politica che verrà a delinearsi una volta che il “Capo” avrà fatto ritorno dall’esilio. Valutazioni che alla fine si riveleranno fondate, salvo gettare benzina sul fuoco di una guerra civile che sta inesorabilmente “montando”.

Il sindacalista più in vista di un simile “rapprochement” con la dittatura militare è Augusto Timoteo Vandor (detto “el Lobo”), leader della U.O.M. (Uniòn Obrera Metalùrgica).

Questi, insieme ad altri “baroni” sindacali come José Alonso (settore dell’abbigliamento, personaggio che, insieme a Vandor, dirige ben 62 organizzazioni operaie peroniste) assume una linea di condotta basata sul “negoziato”: populista nei toni quanto estremamente “assertiva” verso il governo Onganìa.

Una “burocrazia peronista demagogica quanto corrotta” per R. Diez (Op. cit.).

E’ superfluo aggiungere come simili personaggi suscitino sentimenti di profonda avversione, se non di odio, da parte dei settori proletari più “radicali”, quelli che non si sono mai piegati.

Alcune riflessioni di “fase”

La fase economica che sta attraversando il capitalismo argentino va ben declinata, allo scopo di uscire dal semplicismo dell’alternanza “riforme-reazione” intese come armi puramente “politiche”, adoperate “volontaristicamente” dalle classi dominanti in risposta ai “movimenti delle masse”.

Non che tale rapporto non debba essere preso in considerazione, tutt’altro. E lo si vedrà da qui a poco.

Il problema consiste – però – nel comprendere come le mutevoli formazioni politiche della borghesia e le altrettanto mutevoli “soluzioni governative” che essa si dà, abbiano un retroterra più vasto e profondo. Retroterra che l’analisi marxista deve mettere nel conto della “situazione concreta” da analizzare; proprio per non cadere nella trappola dell’immediatismo e/o del tatticismo. I quali, una volta permeati nel modus operandi dei raggruppamenti rivoluzionari, impediscono la maturazione politica degli stessi.

Abbiamo visto come l’imperialismo USA penetri a fondo nella realtà Latino Americana degli anni ’50 e ’60, condizionandone pesantemente le vicende politiche.

Non di meno alcune borghesie nazionali (tra cui quella argentina), pur dentro un processo di sostanziale accettazione di un simile predominio, cercano di “accompagnare” questa tendenza a tentativi di “libero-scambio” d’area, tali da poter “contrattare” con gigante statunitense.

Sorgono infatti, oltre alla già citata ALAC, l’ALALS (Area Latino Americana di Libero Scambio); il PATTO ANDINO; il MCCA (Mercato Comune Centro Americano).

Va certamente considerato che trattasi spasso di sigle aventi vita breve, dal momento che, tutto sommato, le borghesie nazionali in questione non hanno la forza per compattare una “alleanza parallela” in grado di condizionare la penetrazione USA.

Sono questi, però, dei precisi segnali che dimostrano:

1) come l’invasività dell’imperialismo USA non porti con sé “sottosviluppo” (le distorsioni e l’impoverimento crescente degli strati popolari sono casomai la conferma della avvenuta “maturazione” capitalistica del paese interessato (nel nostro caso dell’Argentina);

2) come il problema dell’emancipazione dalla “dipendenza” di ciascun paese verso l’imperialismo d’area non riguardi più il capitale “nazionale” (legato con mille fili a quello internazionale) ma la classe proletaria e il consistente sottoproletariato che sta popolando le periferie urbane; aggiungendo ad essi i contadini poveri e gli strati piccolo borghesi “declassati” da un simile sviluppo.

Va precisato come non vada confusa la “dipendenza” ed il “semi-colonialismo” di paesi come l’Argentina, cosa che si va accentuando dopo la parentesi “peronista”, col “sottosviluppo” di questi: concezione che rimanda al terzomondismo, non al marxismo.

Vero, infatti, che la borghesia “nazionale”, accentuando la sua “dipendenza”, cede fette di plusvalore al capitale “estero” (nel caso, prevalentemente statunitense); vero che cede ad esso anche alcune prerogative della sua “sovranità politica”, ma la risultante non è una “de-capitalizzazione” del paese bensì, al contrario, un suo maggior inserimento nel mercato mondiale. La qual cosa, in varie maniere, “ricade” sugli introiti, sugli affari, sullo “status” della stessa borghesia “nazionale”.

In base a ciò il movimento rivoluzionario è chiamato a valutare l’impatto di un simile processo nel quadro complessivo della lotta di classe, inserita dentro una precisa fase di sviluppo (estremamente contraddittorio) del capitalismo mondiale, piuttosto che il ritenere imminente un sommovimento continentalefrutto di una “arretratezza” inarrestabile, determinata a sua volta dall’altrettanto “inarrestabile crisi” del sistema imperialista.

Al brusco rallentamento del capitalismo argentino (e più in generale degli Stati Latino-Americani) iniziato con gli anni ’50 fa da contraltare la forte penetrazione del capitale monopolistico USA.

Marcello Carmagnani (“L’America Latina dal 1880 ai giorni nostri”, Sansoni -1973) rileva come i prestiti USA ai governi dell’area (dal 1957 al 1962) passino da 320 a 656 MM di $ all’anno. Gli investimenti diretti (’50-’63) da 4,7 a 8,6 MM di $.

A seguito del fallimento della politica di sostituzione interna dei prodotti importati e all’insuccesso della costruzione di un’industria di base, aumenta la dipendenza non solo finanziaria ma anche industriale del capitalismo argentino. Il mercato nazionale è troppo “ristretto” per poter “digerire” una consistente industria pesante, in grado di fare da volano a tutto il sistema economico. E le zone intercontinentali di libero scambio, come abbiamo visto, non hanno l’autonomia sufficiente per contro-arrestare il ruolo dell’imperialismo americano.

Per la borghesia argentina, tra gli anni ’50 e ’60, ne deriva un ristagno economico tale da costringerla, al fine di non rompere i suoi equilibri interni, ad aumentare il suo legame con l’imperialismo.

Tutto ciò metterà in moto una spirale incontrollabile di indebitamento e di deficit interno che segnerà, nei decenni a venire, la sorte di quella che – agli esordi degli anni ’40 – era considerata l’ottava economia mondiale.

Golpismo miope, riformismo zoppo

Francesco Silvestrini (“L’Argentina da Peròn a Cavallo,1945-2003”, CLUEB -2004) mette l’accento sulla “pochezza economica” della cosiddetta “Revoluciòn Libertadora”, la quale avrebbe poco privatizzato, poco tagliato i posti di lavoro nel settore pubblico, poco colpito i sussidi ai consumi…Non sarebbe intervenuta a sufficienza sul controllo dei prezzi e sulle restrizioni all’import. E, cosa più grave, non avrebbe ridotto i salari in proporzione alla bassa produttività imperante nel settore industriale…

In pratica, l’Autore rimprovera ai militari golpisti di essere stati sì “feroci” in politica, ma troppo “teneri” in economia; non in linea col “monetarismo” che già allora affiorava dal FMI, incardinato su: l’abbandono di ogni misura protezionistica; il rigido controllo dell’emissione monetaria; l’apertura ai mercati internazionali.

La visione “liberal-contrattualistica” del Silvestrini lo porta a ritenere le classi sociali come “corporazioni” (o “lobby”) alla pari, verso le quali il compito dello Stato sarebbe quello di “metterle d’accordo” secondo il “superiore interesse nazionale”.

Ma le cose non funzionano in questo modo. La “mediazione” politica dello Stato borghese poggia sempre sul dominio del proletariato e sul grado del suo “utilizzo” in funzione del mantenimento e/o della ripresa del profitto medio. La vera “mediazione” dello Stato avviene – a meno di eventi eccezionali – tra le frazioni della classe dominante.

Quanto sia falsa la tesi della “mediazione tra corporazioni” (inclusa quella operaia) è sintetizzato egregiamente dai dati UNECLA per il 1959, in base ai quali in quell’anno al 10% delle famiglie va oltre il 42% del reddito personale complessivo (nel 1953 era il 37%). All’interno di quel 10% i benefici maggiori vanno a favore del 5% di tutte le famiglie al vertice della scala di reddito…(J.E. Corradi, Op. cit.)

Per le classi subalterne si ritorna agli anni ’30, sottolinea giustamente l’Autore.

Secondo Silvestrini in Argentina, nella prima metà degli anni ’60, ci si troverebbe di fronte ad un “empate” (pareggio) immobilizzante, per superare il quale Frondizi cercherebbe di riannodare il filo di uno sviluppo interno legato all’apertura ai capitali esteri (il “desarrolismo”). E infatti gli investimenti esteri passano da 20 M di $ nel ’57 a 348 M nel ’61.

Ma gli “inciampi” per il riformismo di Frondizi sono due:

1) i voti presi “in prestito” dai peronisti lo costringono a prendersela con l’oligarchia agrario-commerciale e “rivalutare” imprese di Stato come la petrolifera YPF; oltre ad aumentare i salari, concedere l’amnistia dei prigionieri politici e sindacali ed ampliare le stesse libertà sindacali. Tutto ciò diminuisce la tensione interna e riduce il deficit petrolifero nella Bilancia dei Pagamenti, ma non è gradito agli investitori esteri.

2) Questi ultimi, pur incassando il libero rimpatrio dei capitali e la rimessa dei profitti ottenuti varati da Frondizi, intervengono in Argentina non di certo per “bonificare” i suoi squilibri interni, ma per trarre profitti a più non posso.

Avvitamento” del debito e penetrazione imperialista

Il processo “economico” in atto è ben descritto, per sommi capi, dalla già citata rivista “Comunismo” (Anno VII, n.19, Sett.-Dic. 1985), quando si individua nella penetrazione del capitale straniero nella manifattura, e nel “rinnovamento tecnologico” dei macchinari e delle attrezzature, la spinta per invadere l’industria dei paesi dominati: i quali si trovano “costretti” a produrre con macchinari obsoleti.

Ciò provoca inizialmente “una resistenza delle borghesie nazionali alla concorrenza di merci straniere attraverso misure protezionistiche”; le quali però alla finestimolano l’installazione di industrie straniere…Le imposte doganali, alte per i beni di consumo, non si estendono ai macchinari provenienti dall’estero.

D’altro canto “il protezionismo sulle merci consente (alle multinazionali che vendono in Argentina) prezzi elevati, che aumentano i guadagni…”

Inoltre, una mano d’opera numerosa ed a basso prezzo garantisce l’innalzamento del tasso di plusvalore. Si realizza così il definitivo “dominio imperialistico del mercato interno”.

Come conseguenza: “per supplire ai deficit della bilancia dei pagamenti (gli Stati nei paesi dipendenti) chiedono – sotto forma di prestiti – “aiuti” all’estero che aumentano il debito estero, che a sua volta aumenta ancora di più i deficit, rendendo necessario un sempre maggior incremento del capitale straniero.”

In questi brevi passaggi è sintetizzato il percorso tormentato che negli anni ’60 comincia ad avvolgere la parabola decadente del capitalismo argentino.

Solo due precisazioni a riguardo. Non si tratta, come sostiene “Comunismo”, di “de-capitalizzazione dell’economia latino-americana”. La “dipendenza”, come abbiamo specificato sopra, non significa “de-capitalizzazione”.

L’inizio di un avanzato processo di finanziarizzazione del capitalismo argentino non può essere confuso con la irrilevanza di una “borghesia nazionale” che dal canto suo si proietta decisamente verso l’“internazionalizzazione”; venendo così a modificare alcune sue precipue proprietà sociali e politiche (ad esempio quell’ ”antimperialismo” peronista che per un certo periodo l’aveva caratterizzata).

In secondo luogo va seriamente considerata la componente politica della lotta di classe, la quale non sorge meccanicamente dal ciclo economico. La componente “peronista” continua a pesare – eccome – negli equilibri tra le frazioni borghesi argentine e nelle direttrici di marcia che ne scaturiscono.

Ed è precisamente essa che impedisce la possibilità di implementare nel paese un “riformismo di fase” in grado di mettere nell’angolo le opzioni “golpiste”.

Militarismo liberista

Queste ultime, con Onganìa, espressione del “capitale monopolistico straniero”, cercano, secondo Corradi (Op. cit.) di “produrre un nuovo tipo di integrazione sociale sulla base di una dipendenza industriale dinamica”, scatenando però “la risposta politica delle masse colpite”.

Il ministro dell’Economia è il liberista Adabert Krieger Vasena, membro del Consiglio della Adela Company, Società di Investimenti Multinazionali, teorico del “monetarismo espansivo” (F. Silvestrini). In pratica egli svaluta il peso del 40%, compensando la cosa con nuove tasse sull’export e la riduzione di quelle sull’import.

Va da sé che i salari siano congelati per due anni, si blocchino le assunzioni nella P.A. e si proceda ai licenziamenti nell’industria, cercando di drenare occupati nelle opere pubbliche.

La “manovra” è ad ampio raggio. Nel 1968 l’inflazione è intorno al 10%, l’economia viene “stimolata” da investimenti pubblici, il PIL marcia tassi superiori al 4% annuo, il deficit di bilancio passa dal 33% della spesa corrente del 1966 al 14% del 1969.

La situazione sembra preludere ad un nuovo “miracolo argentino”. Vengono rinnovati i contratti con le compagnie petrolifere estere, eliminati i controlli sui cambi, siglati nuovi accordi col FMI.

Alvaro Alsogaray (ex ministro dell’Economia del governo Frondizi) è ambasciatore negli USA, e – manco a dirlo – socio della Deltec International Corporation; altra multinazionale che aveva rilevato la International Packers Limited (produttrice di carne) presentando nel suo Consiglio i Kleberg, magnati della Texas King Ranch.

Gli investimenti USA in Argentina nel ’68 raggiungono i 1.150 M di $.

Tale ripresa “monopolistica” è evidentemente finanziata col “risparmio interno” e con la compressione delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia.

Sia Corradi che Silvestrini concordano nel valutare come tale linea monetarista, oltre naturalmente il proletariato, scontenti vasti strati della piccola borghesia “tradizionale” (quella commerciale del pubblico impiego), nonché la borghesia fondiaria e della PMI (gravate dalle nuove tasse sulla rendita e sull’export, oltre alle difficoltà nel ricorso al credito a basso costo e l’esposizione alla concorrenza estera).

Corradi si spinge a ipotizzare come nei propositi del “militarismo liberista” di Onganìa vi sia una “nuova gerarchia sociale”, fondata sul “legame di ferro” tra capitale monopolistico, burocrazia statale e aristocrazia operaia. La qual cosa investe appieno il ruolo della CGT e ci fa comprendere molto delle sue metamorfosi. Il segretario confederale J.C. Vandor in una prima fase saluta con favore Onganìa, fiducioso che il generale abbia bisogno di una “grande” CGT su cui far prosperare prebende e corruzione. In fondo la CGT ha sì i conti correnti bancari bloccati, non beneficia più del “riconoscimento” statale ed è esclusa per due anni dalla contrattazione dei salari, ma crede comunque che arriverà il momento in cui il suo “peso sociale” potrà pienamente rivalersi.

Prodromi di insorgenza operaia e di guerra civile

Le cose per lui si mettono male quando (1967) il governo attacca duramente prima i lavoratori delle ferrovie, poi quelli dei porti e infine gli operai zuccherieri del Tucumàn.

La polizia spara sui lavoratori provocando vittime. A seguire, viene varata una legge che vieta la diffusione della stampa comunista. La CGT si spacca. In occasione del suo Congresso del ’68, è eletto segretario generale Raimundo Ongaro. Vandor allora forma la cosiddetta “CGT de Azopardo” (collaborazionista), alla quale si contrappone la CGT “de los Argentinos” (CGTA, anticapitalista) di Ongaro.

E’ una tappa importante che esplicita la crescente divaricazione del peronismo: da un lato quello istituzionale, conservatore, persino reazionario. Quello che ne fa una bandiera dell’”Argentina Rinnovata”, gerarchica, corporativa, classista, razzista, militarista. Sostanzialmente anticomunista.

Dall’altro quello che vede in esso una forma avanzata, realmente “popolare” (e in parte già realizzata!) di “socialismo nazionale”. Antimperialista, fondato sui diritti del “popolo lavoratore”. Superfluo dire che tale componente è quella maggioritaria dei seguaci peronisti, coinvolgendo appieno quadri intermedi del sindacato, delegati, operai, giovani, disoccupati “attratti” dalla concreta possibilità di dare una decisa “svolta politica” al paese.

C’è da sottolineare, tanto per penetrare più a fondo nell’essenza della bestia bifronte del peronismo, che nel primo gruppo, oltre alle camarille politiche e affaristiche, si annidano gran parte dei vertici sindacali della CGT: adusi non solo ai compromessi più vergognosi mascherati da un bolso frasario populista, ma anche ad eliminare “fisicamente” (commissionando il compito ad apposite squadre di sicari) gli oppositori più scomodi.

Chiaro è che, in una situazione “dinamica”, di radicalizzazione sociale, non è facile andare a menare il can per l’aia a masse di lavoratori che stanno facendo, per così dire, “saltare il tappo”.

Silvestrini annota il fallimento della tattica “del bastone e della carota” dei vertici CGT.

Vi è una “perdita di gran parte dei dirigenti” della CGT verso la CGTA (R. Diez, Op. cit.).

Un piccolo gruppo di essi (“los participacionistas”) tenta di avvicinarsi maggiormente al governo “facendo leva sulla avversione del presidente verso il capitalismo liberale per riproporre una alleanza nazional-corporativa tra Stato, Forze Armate e sindacati.” (Silvestrini)

Cioè una riedizione del peronismo fuori tempo massimo. O, se si vuole, una anticipazione del “secondo peronismo” della prima metà degli anni ’70. Ma non è più il tempo del “do ut des” di venticinque anni addietro. E gli operai rompono gli argini:

Poiché il sindacalismo dello stretto necessario non riuscì a produrre risultati tangibili, i lavoratori si videro costretti a ricorrere a forme di lotta più dirette e più politiche. Cominciarono così a sviluppare una coscienza di classe avanzata che oltrepassava le rivendicazioni economiche immediate.(Corradi)

Non meno importante è l’apertura dell’“Altro fronte”: quello studentesco.

Già dal ’66 Onganìa picchia duro (con vittime) sulle Università. Cattolico integralista, egli le vuole “liberare”, come del resto era nelle intenzioni di Peròn, dall’influenza nefasta del “marxismo”.

Per lotta “anti-marxista” il governo intende il contrasto alla “secolarizzazione” della società argentina, che vede emergere prepotentemente la scuola di massa e le “sensibilità” giovanili di una generazione che apre gli occhi in un mondo attraversato da conflitti “epocali”: la guerra del Vietnam, le lotte di liberazione anticoloniali (Cuba in primis), la critica al “socialismo burocratico” dell’Est Europa, le guerriglie diffuse in America Latina e, appunto, la rinascita di un “nuovo” movimento operaio che anche nella “vecchia” Europa batte il colpo.

E nel mucchio mettiamoci pure la ventata “rinnovatrice” della chiesa cattolica: la quale -appoggiandosi sul “terzomondismo” e sul “Vangelo dei poveri” – mobilita e attivizza grosse masse giovanili in tutto il mondo, in maniera particolare nell’ America Latina. Sarà, questa, una componente politica importante che inter-reagirà coi nuovi movimenti della sinistra.

A proposito di mitizzazione collettiva: l’8 ottobre del 1967 “Che” Guevara viene ucciso in Bolivia dall’antiguerriglia. L’impressione nel mondo è enorme. Il “Che” era argentino. Lasciando gli “onori” di ministro a Cuba, si era immolato in una eroica quanto disperata lotta per diffondere i “fochi” della rivolta in tutto il continente.

Le Università vengono poste sotto il controllo diretto del ministero degli Interni, le occupazioni studentesche sgombrate con la forza. Gli intellettuali sono messi al bando. Alcuni rettori cacciati. A Buenos Aires, Rosario, Còrdoba, negli scontri con la polizia, muoiono due giovani studenti.

Grandi manifestazioni attraversano tutto il paese. Peròn, dall’esilio, ordina a Ongaro di rientrare nei ranghi. Ma la situazione è ormai fuori controllo.

Rivolta giovanile e studentesca, lotta di una nuova generazione operaia. Occupazioni, scioperi “selvaggi”, fusione di lotta economica e lotta politica, rottura dei vecchi schemi. Guerriglia nel continente. Guerriglia nelle fabbriche, nei quartieri e sui monti. Convinzione diffusa che “il mondo può cambiare, il mondo sta cambiando e noi ne siamo i protagonisti”.

Molta abnegazione, seppur accompagnata da una certa confusione. Si preparano gli anni decisivi.


Per gli articoli precedenti:
ARGENTINA 5: “REVOLUCION LIBERTADORA”

Argentina 4. LA CADUTA DI PERON
Argentina 3. IL REGIME PERONISTA
Argentina 2. L’ASCESA DI PERON
Argentina 1. L’ARGENTINA PRIMA DI PERON