Le urne hanno parlato, questa volta senza ambiguità. Venti mesi di governo con dentro la “sinistra” hanno prodotto il crollo fragoroso del parlamentarismo di sinistra, complice la legge elettorale “porcellum”, che ha dato sfogo alle viscere dell’Italia.
Le illusioni di cambiare l’Italia, a vantaggio dei lavoratori, col voto si sono dissolte. Non trovando a portata di mano l’alternativa della lotta di classe per difendersi e conquistare miglioramenti sui luoghi di lavoro, anche i lavoratori hanno ragionato individualisticamente, seguendo quella che è già da anni divenuta la loro prassi quotidiana: se gli aumenti salariali sono risibili, puntiamo sugli straordinari, sul doppio lavoro; se coi sindacati del governo amico l’azione collettiva langue, vediamo di ottenere qualcosa come “territorio” insieme ai padroni e padroncini della zona, in termini di meno tasse, o di autonomia fiscale, o di protezione contro la concorrenza estera, anche degli immigrati.
Questo, in termini crudi, il senso più generale espresso da queste elezioni. Una realtà che chi lotta per rovesciare questa società capitalistica deve avere ben presente se non vuole far la parte di Don Chisciotte.
Di per sé lo “spostamento a destra” dell’elettorato non è stato gran cosa: il Popolo delle Libertà ha preso meno voti di Forza Italia + AN nel 2006, ed è solo la Lega che avanza quasi raddoppiando sul deludente risultato del 2006.
Il fatto dirompente è la disintegrazione del popolo della sinistra in tutte le direzioni: i parlamentaristi verso il “voto utile” del PD, i “realisti-individualisti” verso la Lega, i più ideologizzati (intorno all’1%) hanno votato per le formazioni trotskiste, i disillusi verso l’astensione e il non-voto. Il partito del non-voto, che aveva avuto una battuta d’arresto nel 2006, ha raggiunto il suo nuovo massimo storico del 22,5% (19,5% di astenuti e 3% di bianche e nulle), con oltre 10,5 milioni e un’avanzata di 1,7 milioni, pari a quella delle Leghe.
Se lo scivolamento individualista è fatto che non può non preoccuparci, il forte aumento dei disillusi del parlamentarismo è un fatto politico-sociale non meno importante, anche se non si traduce in seggi parlamentari. Sconfitto è il cretinismo parlamentare, non le prospettive della lotta per il comunismo.
Sul versante della borghesia, traspare soddisfazione. Il dato rilevante è la semplificazione in Parlamento, con la scomparsa di gran parte dei partiti, e una maggioranza apparentemente solida in mano alla coalizione berlusconiana. È quello che la grande borghesia chiedeva da anni, e quello per cui avevano lavorato sia Veltroni che Berlusconi, evitando le alleanze scomode. È avvenuta una centralizzazione politica tramite il bipartito PdL/PD, anche se con un ruolo rafforzato di valoristi e leghisti. È fallito il tentativo di Casini di porsi come l’ago della bilancia. Spariscono le formazioni di Mastella, Dini, i “socialisti” e di altri che avevano prosperato nella difesa di interessi particolari. Anche quella grande borghesia industriale e finanziaria che aveva puntato le sue carte su Veltroni vede ora la possibilità di un governo più decisionista, che può calpestare gli interessi particolari senza timore di cadere.
L’Italia si avvia verso un’era di alternanza bipolare, come gran parte dei paesi a “capitalismo maturo”? È possibile, ma osserviamo che rimane l’anomalia economico-sociale italiana, con il forte peso della piccola borghesia, che in fondo tramite Mastella e Dini è stata il vero killer del governo Prodi, minacciata come si sentiva dall’invadenza fiscale di Visco e dalle liberalizzazioni di Bersani. Questi interessi, in conflitto con quelli del grande capitale, non scompaiono, ma sono ben rappresentati nel bipartito, e in particolare nel PdL. È altamente improbabile che Berlusconi esponga il nocciolo duro della sua base elettorale ai venti della concorrenza. Anzi, il nazional-populismo incarnato da Tremonti, insieme a quello regionale della Lega non sembrano andare verso la ristrutturazione sociale sollecitata dai grandi gruppi imperialisti. Anche perché manca la pressione dei lavoratori.
Come già nel 1991, c’è chi gongola per la presunta fine del “comunismo”. Come già nel ’91 per il capitalismo di Stato, si tratta qui della fine di uno pseudo-“comunismo” salottiero e parlamentare che, lungi dall’essere rivoluzionario, non ha esitato a puntellare il governo del grande capitale.
Anche per questo la nostra astensione si è trovata in più numerosa compagnia. Ora si tratta di far sì che la batosta accusata dalla sinistra si traduca nella volontà di rimboccarsi le maniche e imboccare l’altra strada, quella che non porta in parlamento ma a promuovere l’autorganizzazione e la lotta dei lavoratori.