Il Sole-24 Ore
sezione: PRIMA data: 2006-03-02 – pag: 1
autore: DI FABRIZIO GALIMBERTI E LUCA PAOLAZZI
Non resta che guardare la realtà cruda delle cifre, mettere da parte scuse e
remore, paure e opportunismi, e rimboccarsi le maniche. La storia recente
dell’economia italiana non lascia più spazio ai manovratori di piccolo
cabotaggio e non concede più tempo per rinviare le riforme. La fotografia
dell’Italia economica che esce dai dati dell’Istat è sconsolata. Il "
voto zero" alla crescita del 2005 ( solo gli arrotondamenti hanno
evitato nelle variazioni percentuali quel calo che si legge nelle cifre
assolute) viene a completare un
quadriennio di sostanziale stagnazione, il periodo con la dinamica (
si fa per dire) più bassa dal dopoguerra. E il " voto quattro" nel
rapporto deficit/ Pil descrive il peggior risultato nella gestione della finanza pubblica dal 1996,
quando iniziò l’ultima tappa della faticosa marcia verso il risanamento del
bilancio.
Colpa del destino cinico e baro? Delle Torri gemelle, dello scoppio della
bolla azionaria, della guerra in Iraq, dell’euro troppo forte, della
concorrenza cinese? Come ha sottolineato Alberto Alesina sul Sole 24 Ore del
23 febbraio, la performance molto migliore di altri Paesi europei alle prese
con gli stessi inciampi non concede facili alibi. Il severo giudizio è
confermato dall’unica consolazione di questi tempi: la ripresa che ha preso corpo nei mesi recenti è
soprattutto trainata dall’estero, tanto che tutte le previsioni danno
una crescita dell’Eurozona ( e ancor più del resto del mondo) più vivace che
in Italia. È più facile spiegare perché le cose sono andate male che indicare
una ricetta per uscire dalla doppia crisi di crescita e di finanza pubblica.
Ma è opportuno, ora che il Paese è chiamato alle elezioni, avanzare
spiegazioni e indicazioni. Le prime si riducono essenzialmente a una: le opportunità dell’euro sono
state sprecate.
Uno spreco con due volti. Per l’economia reale, le grucce dei rimedi impropri
che l’ingresso nell’euro aveva tolto per sempre ( svalutazione, inflazione,
spesa pubblica) non sono state sostituite dalle cure appropriate:
liberalizzazioni vere, privatizzazioni vere, semplificazioni amministrative,
difesa della concorrenza in tutti i cantucci più nascosti, taglio dei nodi
gordiani che impediscono, con un groviglio di competenze ( e dunque di
irresponsabilità), di attaccare il deficit infrastrutturale del Paese. Gli interventi hanno agito invece
sui sintomi, con il sostegno dei redditi ( riduzioni fiscali, aumenti
di pensioni, stipendi pubblici). Si è commesso l’errore fondamentale di
credere che i problemi fossero di carenza di domanda e non di mancanze
dell’offerta. Le poche risorse disponibili dovevano essere rivolte a oliare
la ristrutturazione di un apparato
produttivo la cui specializzazione era inadeguata alle sfide di una
concorrenza globalizzata.
Per la finanza pubblica lo spreco è evidente nel peggioramento del saldo
primario. Molti diranno che il deficit totale non è salito più di tanto dal
2001 a oggi ( ed è vero, se si depurano gli effetti del basso ciclo). Ma la
verità è nascosta nella composizione del deficit.L’euro offriva la grande
opportunità di alleggerire molto la palla al piede dei conti pubblici:
la spesa per gli interessi sull’enorme debito pubblico ( tornato a salire,
nonostante la rivalutazione del Pil lo allontani da quota 110%). Questa
opportunità è stata colta, ma non si è resistito alla tentazione di allentare
le briglie alle altre spese: lo testimoniano i quasi due punti e mezzo di Pil
in più della spesa corrente primaria dal 2001 al 2005. Un vetero statalismo che fa
dell’aumento delle elargizioni la soluzione di tutti i mali ( «
Abbiamo garantito la tenuta sociale aumentando la spesa pubblica per sanità,
pensioni e assistenza » , ha dichiarato il ministro Giulio Tremonti lo scorso
novembre; un aspetto vantato anche nel programma elettorale della Casa delle
Libertà). I numeri impietosi dell’Istat descrivono, dal 2001 a oggi, un punto
e rotti in più di Pil per gli stipendi pubblici, lo stesso per le prestazioni
sociali, quasi mezzo punto in più per gli acquisti di beni e servizi. E per
le buste paga si sono indotte emulazioni nel settore privato, riducendo i
margini delle imprese: sale sulle ferite della competitività.
Gli errori del passato offrono indicazioni per il futuro. Anzitutto, non si
può proseguire con la medesima ricetta ( capri espiatori e finanza creativa
sul debito pubblico). Chiuse le urne, chiunque vincerà dovrà semplicemente
smontare quanto è stato fatto o rimontare quanto non è stato fatto.
Sull’economia reale, bisogna rifiutare dirigismi e protezionismi in tutti i
campi, dal commerciale al finanziario. E non reagire ai dirigismi degli
altri: le ritorsioni equivalgono a chiudere i propri porti con la "
scusa" che altri Paesi hanno coste rocciose.
Occorre poi continuare ad aprire alla concorrenza i settori protetti,
augurandoci di non vedere più un giorno i " decreti milleproroghe"
che disegnano la debolezza dell’esecutivo e del legislativo di fronte alle
pressioni degli interessi costituiti. Il sistema delle imprese ha in sé la
forza di reagire alle avversità, purché non lo si faccia combattere con una
mano legata dietro alla schiena: togliere gessi, lacci e lacciuoli che, a un
terzo di secolo dall’accorato appello di Guido Carli, continuano a ostacolare
il cammino delle aziende. La filosofia è quella minimalista del principio di
Ippocrate: primo, non nuocere.
Sulla finanza pubblica, smontare quello che è stato fatto non può che essere
graduale. Due punti e mezzo in più di spesa primaria non si cancellano con un
tratto di penna. Ma bisogna subito disegnare un cammino di rientro credibile,
che per essere tale deve essere costituito da riforme varate nell’immediato,
con effetti certi anche se diluiti nel tempo. Per esempio: una riforma
fiscale volta a migliorare gli incentivi, l’accelerazione della riforma
pensionistica, una riforma sanitaria ( anche e soprattutto in vista delle
maggiori uscite legate all’invecchiamento). La certezza del rientro e la
risolutezza dell’azione possono rinsaldare la fiducia, rimuovere la cappa di
timori, aiutare la crescita. Il tasso di risparmio delle famiglie italiane è
tra i più alti del mondo e può scendere ( e così stimolare i consumi) se i
cittadini hanno di fronte un sentiero convincente per la guarigione dei conti
pubblici e dell’economia. Mentre il sostegno all’apparato produttivo deve
essere il primo motore di un risanamento vero. Non è tempo di litigi su come
ripartire una torta che non aumenta.
Ma tutto questo non è ancora sufficiente se manca il " terzo
pilastro": il capitale umano. C’è bisogno di una lena lunga e difficile
per cancellare altri sconsolati risultati, quelli nella performance degli
studenti, e per far avanzare nell’Università autonomia e meritocrazia e
rendere effettiva la formazione permanente. Cosicché, assieme a una radicale
riforma degli ammortizzatori sociali, possa oliare il passaggio di risorse
umane da settori in declino a settori in espansione.