In molte piazze d’Italia -dai grandi centri ai paesi più piccoli- si può ancora oggi scorgere, scolpito sui muri degli edifici pubblici o sotto statue e monumenti, il famoso “bollettino della vittoria” della guerra ’15-’18, firmato dal comandante di Stato Maggiore Armando Diaz il 4 novembre del 1918.
Come molti di noi hanno ormai imparato a memoria, esso così inizia:
“La guerra contro l’Austria-Ungheria che sotto l’alta guida (sic) di S.M. il Re, duce supremo (sic), l’Esercito Italiano inferiore per numero e mezzi (per mezzi sì per numero no), iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile (ma quale? 870.000 denunce per renitenza, più altre 400.000 per altri reati, 162.000 per diserzione) e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi (Caporetto, gli scioperi di trincea e le decimazioni non sono semplicemente esistiti…), è vinta.”
E così si conclude:
“ I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza.”
La tronfia retorica di un macellaio servitore dello Stato imperialista italiano, che aveva mandato alla morte ben 600.000 uomini -per lo più poveri contadini e operai- per conquistare mercati e sbocchi commerciali per la classe dominante, non riuscirà ad esorcizzare il fatto che quella italiana sarà comunque una vittoria “zoppa”.
Una “vittoria” imperialista la quale, non trovando l’agognata soddisfazione nel Trattato di pace di Versailles, ritorcerà un nazionalismo frustrato e compresso sia contro le stesse classi oppresse che avevano già pagato pesantemente la guerra, sia contro altre popolazioni oggetto di ulteriori conquiste “esterne”: , in Istria, in Dalmazia, nei Balcani, in Libia, in Africa Orientale.
Il fascismo, prodotto dalla “Grande Guerra”, sorgerà sulle ceneri del sistema liberale, sostituendosi ad esso come forma del potere borghese e facendo della distruzione fisica di ogni organismo proletario il presupposto dal quale ripartire per l’affermazione della borghesia italiana.
Non siamo dunque di fronte ad una ricorrenza di una guerra “giusta”, fatta per “ricongiungere il popolo italiano soggetto all’oppressore asburgico” (quell’Austria-Ungheria con la quale, fino a pochi giorni prima dell’entrata in guerra, l’ Italia aveva a suo tempo stipulato in patto di alleanza).
Siamo di fronte ad una guerra imperialista, condotta da borghesie voraci che si stanno strappando i mercati e le aree d’influenza, speculando sulle sorti delle popolazioni di frontiera.
Questa è la sostanza di classe della “grande vittoria” italiana che viene ricordata ogni 4 novembre dai rappresentanti dell’imperialismo italiano. Quello stesso imperialismo che oggi fa affari sulla pelle di milioni di migranti, costretti ad “avventurarsi” nel Mediterraneo, e spesso a lasciarci la vita.
Non mancò agli operai ed ai contadini, in quel primo dopoguerra, il coraggio di provare a ribaltare il sistema che li aveva uccisi nelle trincee e che continuava ad ucciderli nelle fabbriche, nei campi, nelle piazze d’Italia.
Mancò l’organizzazione politica talmente forte e radicata da gettare sulla bilancia, nello scontro definitivo, tutto il peso del proletariato.
Quell’organizzazione politica (della quale il partito è la massima espressione) che dobbiamo costruire per impedire che nuove avventure e nuovi macelli imperialisti si scarichino sul nostro presente e sul nostro futuro.
Combat – Comunisti per l’Organizzazione di Classe