Con l’aprile del 1945 in Italia terminava l’occupazione tedesca, un’occupazione che aveva assunto caratteri di rapina verso l’apparato produttivo italiano e imposto un pesante tributo in primo luogo ai proletari che già da anni versavano sangue e sudore per le guerre dell’Asse, ma anche ai borghesi che da alleati dell’imperialismo nazista lo avevano lasciato per trovarsi improvvisamente nei panni delle sue vittime. Per la classe dirigente italiana la fine della Repubblica di Salò era la fine delle requisizioni e l’avvio di una fase di ricostruzione, una ricostruzione fatta all’insegna dello sfruttamento più bieco, tutelato da tutti i partiti del CNL – incluso il PCI, che in un primo momento fece pure parte del governo – nel nome della concordia nazionale. Era anche la fine di un’avventura vergognosa, che aveva visto l’imperialismo italiano compiere – in perfetta continuità coi decenni precedenti – i peggiori crimini sui campi di battaglia dell’Africa e dei Balcani prima di fare il salto della quaglia mettendosi a fianco degli Alleati.
E’ poi arrivata la Repubblica “fondata sul lavoro”, in realtà sullo sfruttamento del lavoro, dove restavano in piedi quasi tutti gli apparati repressivi del fascismo – a partire dal Codice Rocco usato ancora oggi per comminare fogli di via ai dirigenti sindacali nella lotte lotte della logistica – e dove i capitalisti che avevano sostenuto, armato e foraggiato il fascismo hanno potuto tranquillamente trovare nuovi referenti politici democratici.
La lotta partigiana si è quindi conclusa col passaggio dallo stato fascista – nato per attuare una politica di terrorismo di stato contro la classe lavoratrice e ridimensionare le conquiste ottenute nel biennio rosso – alla democrazia borghese, dove lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo viene promosso con metodi che oggi sono più efficienti; la struttura sociale che aveva partorito due guerre mondiali e il fascismo stesso si è conservata.
Oggi politici, sindacalisti di regime e pennivendoli di ogni sorta celebrano la superiorità della “democrazia” e delle “libertà politiche” sul fascismo, proprio in un periodo in cui queste espressioni perdono sempre più di significato persino nella forma: siamo ormai al terzo governo consecutivo nato non dalle urne ma da un’azione politica svoltasi totalmente al di fuori delle istituzioni elettive; è appena stato varato un accordo sulla rappresentanza sindacale che trasforma il “confronto fra le parti sociali” – un confronto che in realtà era da tempo separato da ogni rapporto con la classe lavoratrice – in una discussione a porte chiuse che ricorda molto quelle del corporativismo fascista; mentre si proclama ai quattro venti l’importanza della libertà di opinione si intensifica la repressione verso ogni dissenso che non sia ben inquadrato nella logica elettorale.
Se per costoro il punto di riferimento è la resistenza borghese che ha traghettato il sistema capitalista dal fascismo alla democrazia, per noi lo è la resistenza proletaria, quella di migliaia di uomini che hanno combattuto e spesso dato la vita sperando in una nuova società e non semplicemente in una nuova forma statale.
Per noi non si può essere antifascisti conseguenti senza essere contro il sistema sociale che ha generato il fascismo e che ancora oggi semina guerre, fa nascere e prosperare regimi brutali e attua repressioni anche all’interno dei paesi democratici.
Solo una lotta condotta da un’organizzazione rivoluzionaria potrà cancellare alla radice le cause dell’oppressione e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.